Un marchio di fabbrica

Quando uno degli allenatori più conosciuti del ciclismo americano lo notò, Brandon McNulty, da Phoenix, Arizona, era un ragazzo già alto, ma estremamente magrolino. Longilineo con gambe lunghe da fenicottero, aveva appena diciassette anni e, come (quasi) tutti i suoi coetanei, non era per nulla formato fisicamente. Lasciava, però, sulla strada prestazioni da far strabuzzare gli occhi.

Stracciò la concorrenza in una gara a cronometro di categoria: si dice che macinò una media di 380 watt per 30 minuti, con una normale bici da corsa, numeri superiori a chi prima di lui, Phinney e Van Garderen, venivano considerati tra i migliori talenti del ciclismo americano. Un tecnico della nazionale di atletica dopo aver visto quei dati pensò che il misuratore di potenza fosse rotto.

Attirò l'interesse di importanti squadre del Vecchio Continente, ma scelse di rimanere a correre con squadre americane per crescere con calma, senza lo stress e la tensione dei circuiti europei, e lo fece per altre tre stagioni rifiutando la fretta che a volte si mette addosso a chi, precocemente, mostra già di saperci fare nel proprio campo.

Suo padre, ingegnere del software, lo ha sempre definito come «all'apparenza timido, quasi schivo, ma in realtà è perché è un tipo super concentrato». I tecnici che lo hanno avuto per le mani: «il miglior talento del ciclismo a stelle e strisce dai tempi di Greg Lemond». A chi chiedesse un confronto con Adrien Costa - considerato il più forte corridore della sua generazione ma che abbandonò il ciclismo prima di passare professionista e di perdere una gamba in un incidente in montagna - si vedeva rispondere sempre la stessa cosa: «McNulty diventerà più forte».

Piccolo intermezzo per capire qual è sempre stato il suo terreno di gioco fino a questo 2022: le prove contro il tempo. A cronometro ha messo assieme, tra il 2015 e il 2019, 4 podi su 5 partecipazioni ai Mondiali (bronzo e oro tra gli juniores, argento e bronzo tra gli under 23). Meticoloso: prima di conquistare il titolo nel 2016 a Doha invitò a casa sua i compagni di nazionale Garrison e Stites. I tre occuparono per diversi giorni il garage di casa McNulty e con stufe calde e allenandosi con asciugamani bagnati cercarono di simulare l'afa che avrebbero trovato in Qatar. «Sono arrivato a un punto in cui pensavo di morire», raccontò McNulty all'epoca, ma lo disse, pare, accompagnando tutto con una fragorosa risata.
Vinse quel titolo iridato tra gli junior con un tempo che gli sarebbe valso il podio anche tra gli Under 23 davanti a gente come Asgreen, Cavagna, Pedersen e Ganna. Ma i tecnici con lui continuarono a usare la cautela: «Solo perché un bambino va forte come un adulto, non vuol dire sia già maturo». Fine intermezzo.

Passato nel World Tour nel 2020, McNulty in queste prima settimane di corsa sembra aver dato una definitiva sistemata allo scossone che ti prende quando fai il salto di categoria. Ha già conquistato tre corse, tutte allo stesso modo: attaccando da lontano e su tracciati duri.

E se la prima volta può sembrare un caso e la seconda ti fai qualche domanda, la terza, ieri alla Parigi-Nizza, la prendi come fosse diventato il suo definitivo marchio di fabbrica: «Mi piace vincere arrivando in solitaria» ha detto. Quasi 60 km al Trofeo Calvia, ma siamo letteralmente alle prime gare di stagione; quasi altri 30 un paio di settimane fa alla Faun-Ardèche Classic: partito dopo che a fare la selezione si erano messi Alaphilippe e Roglič.

Ieri, il classe '98 della UAE Team Emirates, verso Saint-Sauveur-de-Montagut, tappa con qualche colle da spezzare le gambe (chiedere a van Aert per esempio) e disputata sempre nella regione dell'Ardèche («mi viene da pensare che salite e discese di questa zona si adattino particolarmente alle mie gambe») ha fatto sfoggio delle sue armi migliori: doti sul passo, coraggio, capacità di guida, piacere nel stare faccia al vento in solitaria.

Ha attaccato subito dopo il via con altri corridori e a 39 dall'arrivo se n'è andato tutto solo con una sparata irresistibile. Così come da solo è arrivato. A fine tappa ha detto: «E pensare che stamattina ero convinto di non partire».

Quel mal di gambe dalla Francia fino a Ninove

Intanto, per iniziare, oggi appuntamento con un bel giro mattutino in bici. Buona idea sfruttare la giornata tutto sommato fresca, ma con il sole che già verso mezzogiorno saliva quasi a picco. Poi un pranzo veloce e preparazione per un sabato ciclistico totale: divano, birra gelata, se possibile, due dispositivi accesi perché da una parte la prima gara in Belgio dell'anno (Omloop Het Nieuwsblad), sul pavé, e basta dire pavé per accendere qualcosa: quattro lettere che raccontano il fascino di questo sport; dall'altra, in Francia, la Faun-Ardèche Classic che detta così saprebbe di poco, ma misurava il polso ad Alaphilippe e Roglič, tra gli altri, su un percorso duro, quasi montagnoso, più che vallonato.

Praticamente una sfida, se avessimo sovrapposto i due schermi, tra pietristi e liegisti, tra puncheur e scalatori, tutta una serie di neologismi che inquadrano bene il ciclismo.
Torcicollo, a farci compagnia, un po' per l'esercizio in bici, gratificante per carità, perché quando arrivi a casa e ti senti le gambe indolenzite, sei soddisfatto oltremodo, questione di chimica, un po' perché non è mica facile girare la testa per un paio di ore di qua e di là: di qua Roglič e Alaphilippe attaccano a turno, di là gara lineare per un'ora abbondante e c'è il rischio di addormentarsi non fosse per l'adrenalina in corpo e per quelle punture di spillo che ti arrivano al cuore (no, il giro in bici stavolta non c'entra) dato dalle immancabili cadute.
Poi la corsa si accendeva in Belgio, finalmente, in modo naturale: muro dopo muro, le gambe fanno male, mentre in Francia McNulty partiva in progressione e tutto solo si involava verso la vittoria.

Faun-Ardeche Classic 2022 - 22th Edition - Guilherand Granges - Guilherand Granges 168,5 km - 26/02/2022 - Brandon McNulty (USA - UAE Team Emirates) - photo Roberto Bettini/SprintCyclingAgency©2022

Ma torniamo nelle Fiandre, in mezzo a quelle case dove almeno una volta nella vita abbiamo pensato che sarebbe carino viverci anche solo per un giorno; tra quelle strade dove abbiamo pensato che almeno una volta nella vita ci piacerebbe pedalare. Ripartiamo dal Muur, o da qualche muro prima con Benoot che se ne fregava del mal di gambe, ma attaccava fungendo da appoggio a van Aert - quanto è mancato un corridore così lo scorso anno al belga?
Poi ecco il Muur, "abitato di Geraardsbergen" (citazione dovuta), Kapelmuur, oppure detto anche, diamo sfoggio delle nostre conoscenze: il Muro di Grammont, che più che separare i vincitori dai vinti rimescolava le carte e continuava a indurire le gambe. Infine il Bosberg. Accoppiata mitica se ce n'è una, Muur-Bosberg.
Quando van Aert partiva (sul Bosberg) dalla nostra bocca usciva un: "è fatta!", e allora per un attimo ancora uno sguardo sull'altro schermo per notare come entrambi scuotevano le spalle danzando sulla bici: l'azione di McNulty era efficace in salita, tutta gambe, quasi studiata a tavolino grazie a una condizione che da inizio stagione non sembra vacillare; l'azione di van Aert erano watt che si sfracellavano sulle pietre come quando il campione belga mostra la sua forza nel ciclocross. Van Aert andava, eccolo, "è fatta!" e lo rivedevano al traguardo.
A fine corsa la telecamera si soffermava su Mohorič e Colbrelli (2° alla prima gara stagionale, niente male, piaciuto molto sul Berendries quando si è riportato su van Aert, Pidcock, Narvaez e Benoot); Mohorič sembrava dire, allargando le braccia, "quello lì oggi era troppo forte, abbiamo fatto tutto il possibile".
Già, perché le gambe di van Aert se facevano male, facevano male appena - e comunque meno delle nostre - questa l'impressione, mentre si involava verso Ninove tutto solo e ad attenderlo moglie e figlio.