Non è solo un lavoro: intervista a Rachele Barbieri

Sin dalle prime pedalate, Rachele Barbieri ha sempre avuto ben chiara una cosa: il ciclismo non avrebbe mai potuto essere un lavoro come tutti gli altri. «Di essere ciclista non smetti mai. Si tratta di un lavoro che ti assorbe completamente, da cui non esistono pause. Anche quando la stagione finisce, tu non puoi dimenticartene. Non esistono ferie dal ciclismo, per un semplice motivo: se ti dimentichi di essere ciclista, il ciclismo te la fa pagare. È un privilegio, qualcosa per cui essere grati, ma è faticoso, talvolta molto faticoso». Rachele è certa che, per comprendere al meglio queste parole, sia necessario vivere la realtà di un professionista, così ci porta subito qualche esempio. «Come tutti sanno la nostra alimentazione è controllata nei minimi dettagli, così quando ci sediamo a tavola, nei ritiri, tutto è dosato. Persino la quantità di Parmigiano per la pasta nella formaggiera. Talvolta succede che qualche ragazza ne prenda poco di più e per le altre non ne resti abbastanza. A noi è capitato di discutere per questo. Niente di grave, ci mancherebbe, ma la tensione porta anche ad esasperare certe situazioni».

Rachele Barbieri ammette di essere sempre stata una ragazza molto competitiva: «Del resto chi non lo è? Ogni volta che veniamo a Montichiari ad allenarci, in fondo, ci giochiamo un posto per un traguardo importante. Ognuna di noi vorrebbe ottenere la maglia azzurra di un Mondiale o di un'Olimpiade, così battagliamo per riuscirci. Non credo sia un problema. L'importante è che ci siano dei limiti ben definiti e che si abbia anche chiaro quale sia la cosa migliore per la squadra». In questo, prosegue la ventiquattrenne di Pavullo nel Frignano, aiutano particolarmente due aspetti. «Sappiamo bene di avere tutte dei valori importanti, così, se viene preferita un'altra ragazza, per quanto la delusione sia forte, si ha la certezza che farà bene, perché si conosce il suo valore. D'altra parte, nella vita, non solo nel ciclismo, è necessaria una buona dose di onestà intellettuale per riconoscere quando qualcuno sa fare qualcosa meglio di te. Che non significa che tu non vali nulla, solo che qualcuno, in questo momento, è più adatto di te per quel ruolo».

Barbieri ha un modo particolare di vivere il rapporto con la maglia azzurra. «Quando non sono stata convocata al Mondiale, ho preso la maglia, l'ho chiusa in un cassetto e non l'ho più guardata per diversi giorni. Sentivo mia quella casacca e non poterla indossare mi ha lasciato nello sconforto. È difficile da spiegare, ma tu senti tua la maglia azzurra quando hai la percezione di poter fare qualcosa di importante indossandola, diversamente può anche far paura».
Della pista, Rachele continua ad amare ciò che nei primi tempi la spaventava. «Se ho trovato il coraggio di salire in sella, la mia prima volta a Cento, è stato solo perché, essendo competitiva, non potevo sopportare che le altre bambine ci riuscissero ed io no. Poi ho scoperto quanto sia bella l'imprevedibilità dei velodromi, quella continua serie di scatti e rilanci che lasciano tutto incerto sino all'ultimo secondo. Pensa per uno spettatore cosa deve significare potersi sedere in tribuna e aver sempre sott'occhio tutto ciò che accade. Nel ciclismo su strada non succede mai, vediamo secondi, frammenti, la pista ti mostra tutto, anche il dietro le quinte».

Sorride quando pensa all'Olimpiade e torna ad analizzare, nel continuo tentativo di capire e migliorare. «Credo di avere nello spunto veloce un punto di forza, per questo preferisco gare brevi, come lo scratch, che mettono in risalto questa mia capacità. L'omnium è il sogno di tutte. Io sto lavorando sulla resistenza perché vorrei far parte anche della madison, non solo del quartetto. Sono 120 giri in cui devi essere a tutta, con l'unico sostegno della tua compagna, ed è impensabile affrontarla senza un gran lavoro alle spalle». Ma i Giochi Olimpici, per Barbieri, significano qualcosa in più. «Dire che sono un traguardo ambito per gli atleti è quasi scontato. Mi piacerebbe invece parlare di quanto siano importanti per le persone che ci guardano da casa. Tutti si fermano qualche minuto a guardare le Olimpiadi, anche persone che allo sport non si sono mai interessate. Credo possano essere una buona medicina per non pensare per qualche ora a tutto ciò che ci sta accadendo da un anno a questa parte».

Foto: Paolo Penni Martelli