Omar Di Felice e la Race Across France

Omar Di Felice ha compiuto quarant'anni il 21 luglio, giusto pochi giorni di partire per la Race Across France, 2500 chilometri di pedalata unsupported sulle strade transalpine. «È un compleanno particolare: molte cose cambiano, tu con loro e ti chiedi come sarà il tuo futuro. In Francia cercavo una risposta». Di Felice, l'anno scorso, è arrivato secondo in questa gara e da quel momento ha iniziato a pensare a come avrebbe potuto fare per vincerla. «Avevo corso in maniera conservativa e ho perso con un ritardo di sole due ore, nulla in una gara di ultracycling. Soprattutto, però, non conoscevo bene il mio primo avversario».

Omar ha studiato i suoi rivali e ne ha tracciato i profili: ha visto coloro che di notte hanno maggiore bisogno di recuperare, coloro che non dormono quasi mai, i ritmi gara e le medie. «Io ho bisogno di dormire almeno tre ore a notte, al chiuso, i miei avversari lo sanno. I microsonni, invece, tendo a lasciarli per la parte conclusiva di gare di questa lunghezza per non stressare il corpo. La privazione del sonno è la più antica fra le torture medievali, se non ti regoli bene, ti distruggi».

Già, perché il corpo e la mente sono sempre in un intreccio stretto. «Sono partito a tutta per imporre il ritmo e far capire che avrebbero dovuto temermi. Il punto era uscire dalle Alpi in testa: sono i cambi di tempo in quelle circostanze a definire le posizioni. Gli ultimi giorni sono stati i più importanti e i più difficili: ho logorato mentalmente uno dei principali rivali, fino al suo ritiro, ma quando ero in testa da solo faticavo a trovare le motivazioni per continuare a faticare. Il rilassamento ti frega». Ogni sera un rifornimento in una boulangerie per le ore notturne in cui la crisi è in agguato. «Restare senza cibo è terribile, perdi ore su ore. Anche l'idratazione è fondamentale di notte perché il nostro fisico la richiede anche in questa circostanza». Omar ha vinto: cinque giorni, otto ore e quarantanove minuti e il gradino più alto del podio. Una liberazione.

«Ho capito che la mente può supplire a qualunque limite del corpo. Nel ciclismo moderno, se smetti di vincere, tutti credono tu non valga più nulla. Non è così. La realtà è che, iniziando sempre più presto, si rischia di essere considerati finiti già in giovane età. È un rischio soprattutto per chi non regge queste pressioni e queste tensioni».

Se oggi Omar Di Felice pensa agli anni che passeranno non ha timore. «Verrà il giorno in cui le cose cambieranno e non sarà certo il mio non volerlo accettare a modificare la realtà dei fatti. Credo che sia la predisposizione l'importante. Ho sempre pedalato per scoprire, per imparare e conoscere. Continuerò a farlo a qualunque età, cambieranno i modi, non la sostanza».


La scalata di Omar Di Felice all'Everest

Quando squilla il telefono, Omar Di Felice sta sistemando i bagagli per la partenza ed è proprio di questa idea legata al viaggio che inizia a parlarci quasi confidenzialmente. «Ogni volta che si parte o si riparte si rivive la stessa storia. C’è entusiasmo per la carica di avventura che ti aspetta ma hai paura perché, alla fine, cosa realmente ti aspetta lo sai quando lo vivi». Del resto Di Felice non sta partendo per un viaggio qualunque: in circa tre settimane, senza supporto, raggiungerà il Campo Base dell’Everest a quota 5364 metri. Il 6 febbraio, dopo essersi sottoposto a un tampone molecolare per il Covid, Omar volerà verso il Nepal, verso Kathmandu. Da lì, il 15 febbraio, dopo un periodo di quarantena e un altro tampone, aggancerà i pedali e ripartirà, questa volta in sella. «Devo dire la verità, con il periodo che stiamo vivendo mi riesce sempre più difficile essere certo di ciò che farò. Anche in questo caso, credo che la certezza vera e propria non l’avrò fino alla prima pedalata».

L’idea viene da lontano, dall’autunno. «L’ultracycling è qualcosa di solo apparentemente individuale, in realtà dietro devi avere delle persone competenti, che credano in te, che credano alla tua idea e che ti aiutino a realizzarla. Certe cose sono possibili solo grazie a loro, anche se poi a pedalare sono io. Alcune idee mi vengono durante le sgambate invernali, poi c’è la realizzazione. Sono queste persone che ti aiutano ad attrezzare tutte le vie di fuga possibili, le uscite di sicurezza, tutto ciò che ti rende più sicuro e rende più tranquille anche loro che magari ti vogliono bene e ti sanno su qualche passo himalayano nel mezzo della notte. Non è facile».

Da Kathmandu, Omar pedalerà verso nord-ovest sino alla suggestiva regione del Mustang. Di Felice spiega che i primi trecento, quattrocento chilometri per quanto difficili saranno su strade percorribili. Il problema arriverà quando si inizierà a salire verso Kora La Pass, 4660 metri, Annapurna e Thorung La, 5416 metri. Da qui, infatti, si giungerà al Campo Base del Tilicho Lake, 4919 metri, e successivamente al Campo Base dell’Everest.

«In molti tratti dovrò per forza procedere a piedi, con la bicicletta in spalla. Per esempio sull’Annapurna, un passo che in inverno non percorre nessuno. Io mi aiuterò con ramponi e scarponi per oltrepassarlo. Sarò l’unico lì in quei giorni. Nello zaino avrò l’essenziale, gomme chiodate, attrezzatura da bikepacking e vestiti adatti, il più compattabili possibile. Non potrò portare molte riserve di cibo o di acqua. Mi affiderò all’ospitalità dei villaggi locali. Le popolazioni asiatiche sono molto accoglienti, lo sappiamo. Chiederò aiuto a loro». Il problema sarà il freddo. «La possibilità di congelamenti non è data tanto dalle temperature di meno venti, meno trenta gradi, è la quota a fare la differenza. Sarò per molti giorni a 4000, 5000 metri, col rischio di rimanere bloccato e di passare lì la notte, magari in mezzo a una bufera di neve».

In questi casi Omar monterà la sua tenda ed utilizzerà il sacco a pelo, il resto delle notti, invece, lo passerà nei villaggi. «In Mongolia mi trovavo in un deserto, qui no. Credo che gli abitanti del Nepal non siano abituati a vedere ciclisti, però si relazionano con alpinisti ed escursionisti. Chissà. Di sicuro stare con loro mi aiuterà a recuperare. Dovrò avere molta pazienza per l’acclimatamento ed in alcuni casi dovrò anche tornare indietro per aiutare il mio fisico». Di Felice si è confrontato con un medico che gli ha sottoposto un protocollo per il freddo. «L’altitudine è imprevedibile. Noi europei non siamo abituati a confrontarci con queste altitudini. Si può andare incontro a edemi polmonari, a edemi cerebrali. Ho dei medicinali che potranno aiutarmi. Spero di non averne bisogno».

Se Di Felice dovesse trovare una chiave di lettura per questo percorso di circa 1300 chilometri e 40000 metri di dislivello, parlerebbe di visione: «Se chiedi a cento persone se sia il caso di affrontare un viaggio come questo, almeno novanta ti daranno del pazzo. Io mi fido dell’appoggio di chi ho accanto e mi scordo il consenso delle persone. Questo ha voluto essere sin dall’inizio un viaggio “verticale”, un’ascesa al tetto del mondo. Quante possibilità c’erano di realizzarlo? Poche, abbiamo visto tutti cosa è successo con questa pandemia. Credo, però, che le possibilità dobbiamo anche essere bravi a crearcele da soli. Essere visionari, in questo senso. Ed io sono visionario».

Omar chiude la cerniera di uno zaino e torna a parlare. «L’istinto è solo la prima fase. Ti immagini un qualcosa e decidi che vuoi provare. In realtà, quando inizi a camminare dentro ciò che hai immaginato, capisci che l’istinto non basta più. Servono persone che non frustrino le tue idee e che ti aiutino a ritrovare i migliori pensieri anche quando non ne hai più. Soprattutto serve la paura. Non sono un uomo invincibile, non sono un supereroe. Posso sbagliare, posso farmi male. Può accadere di tutto anche a me. Per questo una buona dose di paura la avverto sempre. Non è qualcosa di cui vergognarsi. La paura mi ha sempre salvato, la paura mi ha fatto capire quando dire basta, quando fermarmi, quando tornare indietro. Alla paura devo un grazie».

Foto: @6Stili/Luigi Sestili