Le ferite guariranno: intervista a Francesca Pisciali

Francesca Pisciali ricorda sempre ciò che le dice il suo allenatore: «Il livello nel ciclismo femminile si è alzato molto, non puoi pensare di vivacchiare. Essere atleta ti impone dei sacrifici, se vuoi fare bene, devi accettarli tutti, altrimenti resti a metà strada. Non riesci ad affermarti come atleta e allo stesso tempo sei costretta a privarti di molte cose che, diversamente, potresti fare. Devi scegliere». Per questo non si è mai iscritta all'università, perché con i ritmi che le impone il suo sport rischierebbe di non riuscire a studiare e, a ventidue anni, non ci si può permettere di non avere le idee chiare. «Mi piace talmente tanto il ciclismo che voglio provare fino all'ultimo a farlo diventare il mio lavoro. Però non sono un'illusa, non voglio restare qui a tutti i costi. Se mi renderò conto di non riuscirci, abbandonerò questa via e ne sceglierò un'altra. L'idea di avere magari venticinque, ventisei anni, e non avere concluso nulla mi spaventa terribilmente. Non fa per me, per quanto vivere senza la bicicletta sembri un incubo in certi momenti».

Pisciali, quest'anno accasata alla Isolmant Premac Vittoria di Giovanni Fidanza, parla con serenità anche di un possibile abbandono e, quando le chiediamo come faccia, non ha dubbi. «Perché ho già provato a smettere. Avevo quindici anni e a Bolzano non c'era una realtà adatta a me. Ho smesso controvoglia e, forse, non ho mai smesso del tutto. Due anni dopo lavoravo in un bar in cima a un passo alpino e andavo al lavoro in bici. Quella pausa mi ha fatto bene. Il ciclismo è un mondo che ti ingloba e rischia di farti perdere il contatto con ciò che c'è fuori».

Attraverso l'indipendenza imparata correndo in bicicletta, Francesca Pisciali si è resa indipendente nella vita di tutti i giorni. «In alcune gare delle categorie minori mi sono iscritta autonomamente, mi sono preparata il cibo ed i rifornimenti, sono andata a ritirare i dorsali, ho controllato la bici e sono partita. Fai fatica, ma cresci, impari. Questo ti resta e fa parte di te. Non ho più smesso di correre, ma ho sempre continuato a lavorare. Con i risparmi mi sono comprata la macchina e mi sono tolta tanti piccoli sfizi».

Francesca sembra una ragazza di altri tempi. Dice che guarda poco il cellulare ed alcune volte lo lascia persino a casa. «Se dobbiamo incontrarci ad una certa ora, io mi faccio trovare per quell'ora. Non ho bisogno di una conferma qualche minuto prima. Con me preferisco avere un buon libro, così mentre aspetto posso leggere». Ci confessa che la sera, prima delle gare, legge sempre ed è tranquilla. «Quando è la giornata giusta, lo sai, lo senti. Sei serena e ti riesce tutto più facile. A me è capitato di andare in fuga con una facilità assoluta, mentre molte ragazze provavano senza riuscirci. C'è qualcosa di naturale in certi giorni».

Altre volte è l'istinto, la rabbia, il nervosismo a segnare la gara. «Quando mi arrabbio, vado più veloce. Una volta sono scattata pur non stando bene. Mi avevano fatto innervosire ed avevo deciso che sarei stata davanti. Ho preso la volata in terza posizione, una velocista l'avrebbe vinta con una gamba sola, io sono arrivata settima, ma è stato un buon risultato».

Le piace allenarsi sulle strade delle Dolomiti, ma, quando ha del tempo libero, va in Romagna perché lì c'è la sua seconda casa, tra tortellini e piada, "quella spessa" precisa lei, spiegandoci la contesa che c'è in quelle zone sulla vera essenza della piadina romagnola. Una cosa la rende particolarmente felice riguardo al ciclismo femminile: il fatto che, ultimamente, sempre più ruoli vengano ricoperti da donne. «Credo sia un bene, perché sanno meglio di chiunque altro cosa significa essere donna e, se hanno vissuto questo sport, capiscono cosa si prova, come ci si sente. Si tratta di un passo importante per l'emancipazione femminile. Un passo che abbiamo il dovere di compiere noi. Certe volte ho avuto la sensazione che come atlete non fossimo prese sul serio da alcuni uomini. Colpa loro, ma anche colpa nostra. Il primo segnale di una professionalità totale deve venire da noi».

Pisciali descrive benissimo il feeling che si instaura con alcune gare, piuttosto che con altre. «Prendiamo il Trofeo Beghelli. In astratto potrebbe anche essere adatto alle mie caratteristiche, invece no. Quello zampellotto sul finale mi blocca sempre, come se mi respingesse». Qualcosa di speciale, invece, Pisciali lo ha sempre provato per la Strade Bianche e la prova dello scorso sei marzo ne è stata la dimostrazione. Francesca è caduta nelle prime fasi di gara, il ginocchio le sanguinava e tutta quella polvere non era certo l'ideale. «Non sempre le cose vanno come vorremmo, dobbiamo accettarlo. Avrei potuto fermarmi e salire in ammiraglia, non l'ho fatto per rispetto della gara e per l'orgoglio di poterla correre. Al traguardo sono arrivata troppo tardi per rientrare in classifica, ma ci sono arrivata. Ho concluso una prova che avevo iniziato, ho tenuto fede alle mie responsabilità, dal primo all'ultimo chilometro. Le ferite, poi, guariranno».

Foto: Flaviano Ossola, per gentile concessione di Francesca Pisciali