Arance ad orologeria

Certo, doveva essere volata: volata è stata. Certo, doveva essere fuga iniziale da lasciare a tiro: non ci si è spostati di un millimetro da questa legge scritta. Una tappa dallo svolgimento arcinoto e lineare come la forma di uno sbadiglio. Fino all'epilogo: veloce, incerto, convulso.

Si parte col cielo grigio: l'oscurità impregna visi e contorni, e le facce dei corridori si distendono, paradossalmente, solo dopo il via. La partenza ha un nome e un numero: Wouter Weylandt – 108. Dieci anni esatti da quel tragico 9 maggio 2011, giusto ricordarlo anche con poche righe. Oggi, idealmente, la mano a formare una “W”, come fece il suo amico fraterno Farrar nella sua unica vittoria al Tour. Era il 2011 e arrivò a due mesi da quella tragedia. Oggi, mentre Wouter non c'è più, Tyler si dedica agli altri come pompiere.

Si parte con uno in meno: Krists Neilands. Ricordate la vittoria di Nibali alla Sanremo? Nibali fu attirato dall'attacco del corridore lettone, che resta impresso nell'immaginario per quel giorno, ma sarebbe ingiusto non rammentarlo anche per altro. Ha vinto poco, ma l'ultima volta, nel 2019 al Gp de Wallonie, fu un colpo superbo; piace Neilands, per la provenienza atipica, la Lettonia, la stessa di Skuijiņš che non perde mai occasione per ricordare come la cioccolata e la birra fatta dalle sue parti sia la più buona del mondo. Piace, Neilands, perché completo. Qui al Giro poteva togliersi il gusto di qualche fuga, magari vincente, e invece entra nei record di questa edizione per essere il primo corridore a lasciare il Giro. Il come poi, bizzarro, quasi irritante: cade rientrando in albergo dopo la cronometro. Fine della storia? No, fine della corsa per lui: portato in ospedale con la clavicola rotta.

Si parte da Stupinigi, nome buffo, e si attraversa uno scenario di vita rurale che poi si susseguirà per tutta la tappa, tra rotonde con gente che banchetta, verde intenso un po' ovunque che si alterna alle risaie; uccelli che volano rasenti al suolo, preti vestiti di rosa, cani che inseguono il gruppo, mucche dipinte, asini mascherati: sembra un felliniano tuffo nel passato, come una pellicola grottesca che ostenta sprazzi di colore alternandolo a immagini in bianco e nero. Da una parte il borghese caos del gruppo, dall'altra la quieta anima contadina tra cortili e aie, trattori e galline.

Si parte, e dopo il ricordo, lo sguardo volge al futuro. La fuga va e nessuno accenna nemmeno ad annusargli la ruota. Albanese, Marengo e Tagliani, protagonisti. Tre corridori, tre maglie, tre storie. Quella di Albanese parla di un ragazzo talentuoso che sembrava potesse diventare qualcosa in più. Vinse tra i professionisti che era ancora dilettante e poi tra i professionisti non ha più vinto. Dice di aver perso quattro anni, e che ora è arrivato il momento di mostrare chi è. Un problema meccanico lo costringe ad abbandonare la fuga prima degli altri.

Tagliani: ieri dilettante, oggi al Giro. Ieri primo a partire e terz'ultimo al traguardo, oggi primo assoluto a muoversi, ultimo a mollare. Quella di Marengo è un'altra storia di corridore che da giovane faceva incetta di traguardi, veloce quanto gli bastava. Oggi si cava il suo spazio in fuga e se non altro le telecamere indugiano sul suo elegante stile di pedalata. Lo scorso anno, in tempo di lockdown, Marengo si è messo ad aiutare gli altri consegnando cibo in bicicletta.

Ma la corsa cresce di interesse e velocità più ci si avvicina al traguardo di Novara: mancano 26 chilometri quando i due superstiti vengono ripresi. Poi tutto esplode come arance ad orologeria: è il caos della volata. Preparazione, treni, pulsazioni elevate. Remco e Ganna sprintano per il traguardo volante: bello e inaspettato. Il finale mescola le squadre come al campetto, soffioni grossi che sembrano borracce volano dappertutto.

Capitani e velocisti, gregari e pesci pilota: si sbanda perché tutti hanno ancora gambe piene e motivazioni al limite. La volata è caos: Molano la combina grossa, stringe il suo capitano alle transenne. Nizzolo prende la ruota giusta, quella di Merlier, ma il belga quando parte lungo è imbattibile. In primavera lo è stato in Belgio, oggi al Giro, e due anni fa era praticamente senza contratto. Al traguardo mette la mano a “W” e in sala stampa i giornalisti belgi urlano come pazzi. Dietro di lui Nizzolo, Viviani, Sagan, Groenewegen. Bravi Moschetti e Fiorelli, sesto e settimo. Doveva essere volata: volata è stata.

Foto: Dario Belingheri/BettiniPhoto©2021


Tim Merlier: il ritratto della tranquillità

Tim Merlier cresce all'ombra di van der Poel e di van Aert. Non ha il talento del primo, né la tenacia del secondo, eppure, che sia strada oppure cross, da un po' di tempo il suo nome inizia a farsi sentire sempre più forte. Era un sibilo inizialmente. Un discorso da bar tra appassionati di ciclismo, qualche messaggio scambiato sui forum, poi arrivano i primi piazzamenti, le prime vittorie pesanti, come il tricolore belga del 2019 che da quelle parti ha un fascino a volte difficile da comprendere.

Pochi giorni fa il successo in una irriconoscibile Bruxelles che con tutta quella pioggia sembrava un villaggio di gnomi fatto di cera e sciolto nel fondo di una bottiglia. Passa qualche giorno e vince a Senigallia, alla Tirreno-Adriatico, città altrettanto interessante, e di sicuro più luminosa, e Merlier, che arriva dal solito monotono paesello delle Fiandre orientali tutto grano e pavé, si guarda indietro continuamente sparato a settanta chilometri orari, sgrana gli occhi, e lascia il segno. Come abbiamo sgranato gli occhi noi per quanto bella è stata la sua progressione in volata.

Tim Merlier viene dal fango. Probabilmente preferisce mettersi una bici sulle spalle saltando barriere, ma il mestiere su strada lo sa fare egregiamente – e quanto volte glielo ha ripetuto Mario De Clercq, suo compaesano e leggenda del ciclocross. Merlier darebbe la vita per gli altri e si sente frustrato quando un capitano non vince: tempo fa raccontava dell'imbarazzo vissuto nel cross serale di Diegem quando van Aert gli cadde davanti e lui non riuscì ad evitarlo. Lo aspettò per aiutarlo: «Mai avuto un compagno di squadra così in gamba» disse van Aert.

A inizio carriera correvano assieme: i due hanno subito legato. «Sì posso dire che siamo migliori amici» sosteneva tempo fa van Aert, eppure, vittima dell'assurdo, Merlier indossa oggi la stessa maglia di club di van der Poel – si fa per dire la stessa maglia, l'olandese veste quella da campione nazionale, ma queste sono sottigliezze - il più grande dei rivali del suo amico. Forse qualcosa più di rivali: lo yin e lo yang del ciclismo contemporaneo, guerra e pace, uomo e donna. Agli antipodi, ma assolutamente necessari. Due che se potessero farebbero a meno anche di incrociare gli sguardi.

E lui sta in mezzo a prendere qualcosa dell'uno e dell'altro come un fedele rampollo, anche se poi è van Aert a invidiare una caratteristica fondamentale del carattere dell'amico: «La tranquillità che irradia. Sembra che se ne freghi, ma invece è semplicemente fatto così. È sempre in ritardo, ma è la sua forza: non subisce la pressione. A maggio del 2019 si allenava con una maglia nera perché era senza squadra. Pensate che la cosa lo abbia scalfito in qualche maniera? Un mese dopo ha vinto il campionato belga!».

E poi c'è quella sua capacità di stupirsi, che ha qualcosa di fiabesco. Dopo essersi laureato campione belga (su strada), due mesi dopo ancora non se ne rendeva conto. Tirava fuori la maglia dalla lavatrice e sorrideva. La stendeva e pensava non fosse nemmeno la sua. Usciva per l'allenamento: casco, occhiali, maglia tricolore e si ritrovava a guardare il suo riflesso nella finestra per capire se era vero quello che gli stava succedendo. «Semplicemente non ci si abitua, questo è ciò che lo rende così divertente. Io campione del Belgio: immagina. Per anni ho pensato che un giorno avrei potuto diventarlo nel ciclocross. Ma questo... questo batte davvero tutto».

Tim Merlier è un figlio del fango, non un Golem, forse un sassolino, un pezzo di terra che rotola, e in breve tempo diventa strada. Da anni gli dicono «faresti meglio a fare ciclismo su strada, sei più tagliato per quello» e lui risponde: «Io ho due biciclette. Una per il cross e una per la strada. Mi piacciono entrambe, mi diverto: non vedo perché dovrei cambiarle». E chi siamo noi per convincerlo del contrario?

Da un po' di tempo Merlier divide la sua vita con Cameron, la figlia di Frank Vandenbroucke, troppo talentuoso, troppo veloce ad andarsene. «Grazie a lei ho imparato a puntare la sveglia presto la mattina». Quando invece torna a casa, Tim Merlier aiuta sua madre nel bar di famiglia a Wortegem-Petegem, nella piazza vicino la chiesa, a un tiro dal traguardo di Oudenaarde che caratterizza il Giro delle Fiandre. Serve caffè e frittelle nonostante lo status di corridore che da quelle parti equivale a essere una star. «Quando ho vinto il campionato belga hanno iniziato a chiedermi interviste, a dedicarmi prime pagine sulle gazzette, ma io sono rimasto sempre quel ragazzo tranquillo che ama versare il caffè nel bar di sua madre». Quella madre alla quale, poco dopo il lockdown, chiese di organizzare una corsa nel suo paese: «Ho corso così poco con questa maglia che mi sembrava una buona idea» racconta placido a una televisione belga. Se van der Poel è genio e van Aert carisma, Tim Merlier è il ritratto della tranquillità.

Foto: Bettini