Chi cerca davvero, non sa che cosa cerca. Non so proprio che cosa aspettarmi, mentre accompagno fuori la SuperX. In autunno ci sono scorci di malinconia che, di solito, mi piace stare semplicemente ad osservare. È la mia stagione preferita. In questo ottobre 2020, però, c’è qualcosa di diverso: con due bambini piccoli, la paura di un contagio e l’esperienza alienante dello smart working ad oltranza, il nostro lockdown non è mai finito e l’autunno ci ha sorpresi già stanchi, storditi. Refrattari. Ci chiediamo spesso se siamo realmente noi questi qua.
Fuori di casa fiuto l’aria: freddo, ricordi di gioventù, di nebbia e pallone, odore di campagna umida e corse campestri, di sudore e terra sembrano scendere verso di me direttamente dalle colline intorno, immerse nella foschia. Sudore e terra. Ci sono idee che, se provi a spiegartele, perdono tutto il loro senso. Bisogna accoglierle e crederci. È una fede. Parto così, senza sapere ma con in cuore la speranza che funzioni anche stavolta: la bicicletta è per me da sempre una risposta, anche quando la domanda non è chiara.
La ciclabile che corre lungo il Tanaro è perfetta per cominciare: regolare, quasi piatta, un fondo ben compatto. Pedalo agile e ascolto il fiume alla mia destra, ne sento l’energia. Ho imparato dagli albesi a convivere con questa forza misteriosa, a rispettarla, a non dimenticarmi mai che c’è.
Dopo un breve strappo su asfalto, a Roddi prendo il sentiero che cavalca la collina e in un istante realizzo che sto facendo la cosa giusta. Ancora non so che cos’è: so solo che ho voglia di sentire quegli odori, affondare le mani – o le ruote? – in qualcosa di concreto, uscirne più simile alla natura che attraverso.
Con vari saliscendi supero il nuovo, grande ospedale. A La Morra risalgo la stretta via che porta al belvedere; la luce d’ottobre mi investe sulla piazza ed esalta i colori delle colline: verde, giallo, rosso, marrone, colori caldi in un mattino che sa già d’inverno.
Per scendere le alternative si sprecano, sia su asfalto che su sterrati di vario tipo. Ma stavolta non voglio sforzarmi di capire ciò che ho in mente. Non scelgo la destinazione, è la destinazione che mi sceglie e io ne vengo inevitabilmente attratto, come risucchiato. Metafisica della bicicletta o assoluta libertà?
Mentre penso a quanto sarebbe bello applicare questo metodo di non-scelta nella vita, giungo nei pressi della cappella delle Brunate: è una piccola chiesetta – mai consacrata – con le pareti esterne dipinte di tanti colori diversi; opera di Sol LeWitt e David Tremlett, gode di una certa notorietà sui social come sfondo per le foto. Ma non è un giro da selfie questo, per me.
A Barolo, mentre finalmente l’aria si fa tiepida, inizio a capire. Sfilo tra i vigneti in fermento, brulicanti di uomini e donne come formiche operose. Qualcuno canta una canzone che non conosco; è una canzone allegra in una lingua che non capisco, eppure mi sembra di cogliere il sentimento che le fa da sfondo: ho voglia anch’io di cantare. La vendemmia è al suo apice, l’atmosfera è quella di un Natale, gioia e mistero si uniscono mentre abbandono l’asfalto, scendo e spingo la bici su per una capezzagna.
Mio fratello Michael e la sua compagna Francesca, quando li raggiungo, mi confermano coi loro sorrisi che sono nel posto giusto. L’espressione stanchi ma felici me la porto dietro dai temi delle elementari, ma è così che descriverei i loro volti. Invidio la loro abbronzatura e quei segni che hanno addosso – qualche graffio sulle braccia, le mani screpolate. Penso agli ultimi mesi: chiuso in casa davanti ad un computer, a lavorare molto e sentirmi, comunque, sempre incompleto.
Non che qui sia tutto rose e fiori – e viti. Mi informano che stamattina c’erano sette gradi, quando io ero ancora nel mio letto e che si andrà avanti finché si vedrà qualcosa. Mi fermo un po’ con loro, così, per dire che c’ero anch’io quando nasceva questo Barolo. Già, qui nasce il più nobile tra i vini nobili: eppure, in giro vedo ciò che si vede in qualsiasi vigna, ovvero erba e borse con il pranzo, giacche appese qua e là e facce stanche che spuntano tra i filari.
Può sembrare strano, ma molta della fortuna di questo territorio nasce proprio da qui.
Mi raccontano che negli anni ’60, quando il nonno di Francesca ha iniziato l’attività, in pochi avrebbero scommesso una lira su di lui e sulla sua idea. Quella terra valeva poco, allora. Fortuna, sì, ma soprattutto impegno e coraggio. Una fuga dal solito gruppetto che non ci crede e tu, che in un momento di grazia hai detto il tuo sì migliore e te ne sei andato per la tua strada. Oggi, Cascina Rocca è una bella realtà che propone ottimi vini (non solo Barolo), un posto comodo dove fermarsi per qualche giorno di escursioni nelle Langhe e un’atmosfera che è davvero famigliare, perché anche la Terra del Barolo, vista da vicino, è pur sempre terra.
Mi congedo con mezzo grappolo d’uva in mano e con qualche indicazione per non dover tornare sui miei passi. Piccolo avvertimento: da queste parti nessuno ha mai inseguito o perseguito i ciclisti che si avventurano tra i filari, come ho fatto io stesso; valgono ovviamente le regole del buon senso e del rispetto. Quindi, avuto il permesso, mi butto in picchiata sul versante opposto a quello di salita, giù per una capezzagna, con i filari che sfilano a destra e a sinistra, come un pubblico silenzioso e ordinato, con mani verdi che salutano, mosse dal vento.
La statale scorre veloce e insipida sotto gli pneumatici da trentacinque millimetri; tra poco potrei essere a casa, arrivato, ma questo giro non ha ancora finito con me. Al bivio prendo a destra e salgo al castello di Grinzane Cavour. Breve sosta panoramica e si riparte, in salita, verso Diano d’Alba. D’altronde, secondo me, il profilo migliore del castello è quest’altro, quello che si vede dalla strada di Diano, quando è incorniciato tra le montagne e il cimitero, tra la terra verde e marrone e la strada grigia e il cielo e le nuvole. A girare da queste parti capita anche questo, che un normale giro di “allenamento” somigli ad un giro turistico e che, per forza di cose, si debbano ignorare luoghi affascinanti, soffermarsi poco o nulla di fronte a scenari che meriterebbero più d’un pomeriggio. Forse è banale, ma anche così la bicicletta è metafora della vita.
E proprio come nella vita, capisco questa cosa eppure continuo, corro, testa e pancia giù, su per la salita di Diano. Alle mie spalle so che fanno capolino il Monte Rosa ed il Cervino, ma non mi volto, non addolcisco questa fatica che voglio proprio così, dura, brutta, arrogante come pensare di stabilire un nuovo KOM sulla salita di Diano con una bici da ciclocross che pesa dieci chili.
In discesa l’aria rimane tiepida, ogni curva a sinistra permette di scorgere Alba, là sotto, a destra, adagiata nella sua conca. Arrivarci dopo le Langhe mi fa sempre pensare ad una nave persa nel mare in burrasca, che finalmente avvista terra. Anche la città, che ho sempre un po’ snobbato, dopo il lockdown la guardo con occhi diversi, come una compagna che ha visto le mie stesse cose, che nel silenzio ha accolto le mie paure, che mi conosce da sempre ma ora un po’ di più.
Pedalando verso il centro mi fermo in coda nei pressi di una rotonda, un vigile regola il traffico e io devo aspettare il mio turno. Penso alla prima coda fuori dal supermercato, alla guardia che chiamava i numeri per entrare, alla pioggia leggera che mi bagnava e io che apposta non aprivo l’ombrello. “So di chiuso”, dicevo sempre a mia moglie, in quel periodo. Mi annuso. Ho deciso che sudore e terra saranno la mia cura e ho bisogno di continuare. Mi viene in mente che non sono mai stato al Bricco delle Capre, così torno sullo sterrato della collina albese e in poco tempo scendo a San Rocco Seno d’Elvio, quindi risalgo verso Treiso sfilando accanto alle Rocche dei Sette Fratelli, suggestive formazioni marnose che paiono creste di montagne in miniatura. Una voragine paurosa ed affascinante.
Alternando una dorsale di Langa a tratturi polverosi arrivo a casa di Roberto. “In montagna ci si lega per la vita e per la morte”, diceva Walter Bonatti. Io e Roberto ci siamo legati molte volte per la vita e vorrei che fosse così anche questa volta, sebbene con una corda invisibile.
Il Monviso ci osserva col suo solito cappello di nuvole, mentre sediamo sul terrazzo, io con un panino in una mano e una Coca Cola nell’altra.
Il vino preferito da Roberto è il Barbaresco, ma non si apre un Barbaresco con un panino in mano a metà di un giro in bici, alle due di pomeriggio.
Roberto mi parla del suo motto: “vino autentico”. Niente di speciale, no? «Eh, no» mi dice. «È importante. In un mondo sempre più dominato da assemblaggi, che tentano di soddisfare il cliente in ogni modo, io credo che il vino debba restare vero con sé stesso, parlarti del proprio vitigno, della propria indole. Come dire: questo sono io: se ti piaccio, bene. Il vino è esperienza». Un giorno Roberto avrà una sua cantina e questa sarà la sua filosofia.
Mi accompagna per un po’ lungo la strada con la sua Columbus azzurra in acciaio, presa da poco; ci salutiamo ad un bivio, al termine della discesa, con la promessa di un giro insieme. So che non succederà. Oggi è come un sogno, un giro che non esiste, un momento vero ma sospeso, rimasto appeso da qualche parte nel tempo.
La strada per Neive è un balcone su una Langa elegante e raffinata; anche qui è chiaro che, senza lavoro, non ci sarebbe nulla. Lo vedo nei trattori che incrocio, nelle loro tracce di terra che entrano ed escono dalla striscia d’asfalto, da e verso pendii scoscesi e pericolosi. Auto lussuose con targhe di ogni provenienza mi sorpassano e, quando sono abbastanza lontane, torno a sentire il mormorio frenetico, tormentato della vendemmia: motori che sbuffano, voci, a volte canti, altre volte bestemmie.
Ne parlo con Giorgio Negro, sulla terrazza panoramica della sua Cantina Negro Giuseppe. Qui è un po’ come essere a teatro, solo che gli spettatori stanno sul palco ed ammirano la platea: una platea verde con corridoi precisi e ordinati, silenziosa eppure calorosa, di una bellezza sofisticata e rustica al tempo stesso.
Siamo al centro di questo anfiteatro verde con un rosé in mano, Giorgio mi spiega come suo papà, Negro Giuseppe appunto, avesse giusto questo pezzo di terra, comprato con il lavoro in fabbrica. Mi chiedo se dopo anni in fabbrica avrei voglia di comprare della terra da lavorare, e non piuttosto una casa con piscina. Intuisco quest’idea che la fatica alla fine ripaghi sempre, che non va mai persa o sprecata; la volontà di lottare momento per momento, con fiducia. Dopo tutta la giornata spesa in giro, con i polpacci sporchi di terra e polvere e il sudore che opacizza la barra in carbonio nero della mia bici, finalmente mi sento al mio posto. Dopo tutto il fermento respirato su e giù per le colline, la calma di Giorgio e di questo angolo di Langa, insieme alla luce che cambia nel pomeriggio di ottobre, fanno bene all’anima.
Rimonto in sella, la SuperX è bellissima nella sua veste nera con schizzi di fango e con il suo cerone di Langa.
Rimane Barbaresco, con la sua torre e i suoi turisti, che osservo solo da lontano: ci vorrà un po’, per me, per accettare di nuovo la folla, la calca. Ma dopo oggi, grazie alla bici (e agli amici) so che questo non significa essere solo.
Torno a casa cercando le tracce dell’Ecomaratona, sul sentiero dei partigiani lungo il Tanaro e poi su per la collina di Altavilla. Scollino, riecco Alba, resto per un attimo ad osservarla: mi sembra più vera, onesta, come un vino autentico.
La sera, la terra è stata lavata via dal carbonio della mia bici e dai miei muscoli stanchi. Ma sull’asfalto delle vie rimarrà fino alla prossima pioggia.
Foto: Alessandro Foglia