Strade più o meno brute
Il mattino del primo sabato d’ottobre del 2018, il mattino dell’edizione zero di Strade Brute - Franciacorta Gravel - preannunciava uno di quei temporali che fanno paura. Sentieri che diventano strade di fango e ruscelli che diventano fiumi in piena. L’idea di organizzare l’evento è nata solamente pochi mesi prima. Seduti a un tavolo a bere un bicchiere di vino c’era quel gruppo di amici “indecisi” tra la mtb e la bici da strada. La Gravel non andava ancora di moda e, a noi, sembrava il mezzo ideale per esplorare i sentieri, le strade sterrate, i boschi, le montagne e i vigneti della provincia di Brescia. Senza esperienza e , soprattutto, senza sapere cosa fosse davvero un evento Gravel abbiamo deciso di provarci. Credevamo che all’appuntamento ci saremmo presentati solamente noi, quelli del bicchiere di vino, magari pochi altri amici. Quando si sono presentate più di cento persone, stupiti dal numero di biciclette ed entusiasti, siamo saliti in sella e siamo partiti. La pioggia, il vento e il fango l’hanno resa una fantastica tragica prima volta e, sull’onda dell’entusiasmo - nostro e dei partecipanti - ci siamo dati da fare e sono cominciati i preparativi per l’anno successivo.
All’inizio il percorso era unico ed uguale per tutti. Con il tempo abbiamo pensato a altre opportunità perché, diciamoci la verità: “quanto è bello esplorare le strade di casa. Trovare ogni volta quella variante alla quale non avevi mai pensato perché così nascosta che nemmeno chi su queste strade pedala ogni domenica nota? ” Abbiamo quindi deciso di proporre due itinerari.
“Strade Brute”: 80 chilometri e 1500 metri di dislivello. Impegnativo. Adatto a chi può contare su allenamento e buona tecnica perché si troverà ad affrontare terreni tecnici con qualche tratto di portage.
“Strade (meno) Brute” più breve e accessibile. Dislivello abbastanza contenuto, una traccia per tutti diciamo.
Ogni anno gli itinerari vengono modificati ma, entrambe le proposte, sono giri ad anello che partono e arrivano nel cuore della Franciacorta. Sempre su strade sterrate poco note (e molto brute). Entrambi i tragitti portano ad affrontare salite e discese nel paesaggio collinare dei celebri vigneti. Le tracce attraversano anche la Riserva Naturale delle Torbiere del Sebino, riconosciuta a livello internazionale come un'area prioritaria per la biodiversità nella Pianura Padana lombarda, monasteri di interesse storico culturale e vedute spettacolari del lago d’Iseo.
Strade Brute si svolge sempre il primo sabato di ottobre. Chi va in bici sa che questo è il momento migliore dell’anno. La temperatura è perfetta. Il sole inizia ad essere sempre più pigro, ma quando sorge sa regalarti quel tepore che tanto basta per farti togliere lo smanicato dopo pochi chilometri.
Lo spirito con cui organizziamo questa giornata è rimasto quello dell’edizione zero. Vogliamo divertirci. Non ci sono pettorali, non abbiamo un cronometro e non guardiamo i KOM. Ma abbiamo voglia di ridere, di chiacchierare uno di fianco all’altro, di sfidarci con una mezza ruota e di aspettarci un chilometro dopo. Di fotografare i colori dell’autunno appena iniziato, quei colori che rendono i vigneti della Franciacorta un posto magico in cui pedalare, che cambiano nel silenzio interrotto solo dal rumore delle ruote che girano sul brecciolino.
Strade Brute non è una gara, Strade Brute è l’occasione per fare ciò che più ci piace; andare in bicicletta con i nostri amici e, alla fine del giro, bere un bicchiere di vino.
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Contributo da parte de: I gnari di Strade Brute
Qui potete trovare i loro profili social:
https://www.instagram.com/strade_brute/
https://www.facebook.com/stradebrute
Qui potete trovare la raccolta delle tracce fatta su komoot:
https://www.komoot.com/it-it/collection/1855027/-lungo-le-strade-brute-scopri-il-fascino-piu-nascosto-della-franciacorta
Le nuove strade gravel di Valverde
Quanti aggettivi si sono usati, nel tempo, per descrivere Alejandro Valverde? "L'Embatido" è, forse, quello che più si ricorda, ma il ciclismo di Valverde è sempre stato affollato di aggettivi e non era un caso: servivano per descrivere ciò che accadeva, a renderne l'idea, a darne una forma, uno schizzo, quasi si trattasse di una bozza di un pezzo o di un dipinto. Talvolta si dice che gli aggettivi vanno tolti, che non bisogna esagerare, noi, invece, crediamo all'altra scuola, quella di Gianni Mura, ad esempio, secondo cui gli aggettivi servono, sono necessari, e si può anche abbondare, a patto che ne valga la pena, a patto che siano quelli giusti.
Per Valverde, in questi giorni, ad esempio, ne abbiamo in mente un altro. Strano, forse insolito. Però ci piace dire che Alejandro Valverde è gravel. Sì, non abbiamo sbagliato. Poi andremo oltre, perché lì vogliamo arrivare, ma partiamo dal fatto: Alejandro Valverde è davvero un ciclista che si dedica al gravel, o, almeno, lo sarà fra qualche giorno, quando disputerà la prima gara su sterrato con Movistar, la "Indomable", ad Almeria, il 23 aprile. Ciclista lo è da tempo, anche se si è ritirato lo scorso ottobre: guardate la sua pagina Instagram, reca ancora la dicitura "ciclista professionista", può essere disattenzione, può essere altro. Legame, ad esempio. E se è legame, come tutti i legami, si sottopone al tempo che passa e a quanto il tempo, agendo, cambi, modifichi.
Dire che Valverde è gravel non significa solo dire che Valverde correrà ad "Indomable" e, poi, a "The Traka", il 29 aprile. Dire che Valverde è gravel significa raccontare una storia che prosegue, significa dare una possibilità alla circolarità delle cose e permettere alla parola fine di avere un altro senso. Finisce una carriera, non un modo di essere, di vedere le cose: quello si reinventa da un'altra parte e continua a parlare lo stesso linguaggio.
Valverde che ha continuato a correre fino a 42 anni non è così diverso da chiunque, in un giro in bicicletta. Da quando si dice: "arriviamo fino a lì e poi torniamo" ed invece si va avanti e l'imprevisto è, se volete, una scusa per cercare altro divertimento. A noi viene in mente il ritorno di Valverde sul luogo della caduta alla Vuelta 2021, la precisione con cui ha ricordato il momento della scivolata, della caduta, del timore, per tutti, anche per lui e quel ritiro dolorante. Non solo nel corpo. Viene in mente il fatto che a 41 anni si potrebbe anche pensare di lasciare stare dopo un rischio simile, perché di rischi se ne corrono sempre tanti, ma a quarant'anni fanno più paura. Invece no. Un altro anno e poi un altro ciclo, la curiosità di vedere cosa si prova nel gravel.

L'Embatido è gravel per quello sguardo che ha sempre avuto in sella; qualcosa a metà tra il prendere in maniera maledettamente seria il pedalare ed il cercare un altro spazio che sia più leggero, più fantasioso. Eravamo a Innsbruck, al Mondiale da lui vinto nel 2018, e ricordiamo quello che ci disse un amico: "Don Alejandro ne ha fatta un'altra delle sue". Ed essere gravel ha anche a che vedere con il "combinarne qualcuna", affrontare uno sterrato e sentirsi a proprio agio, fare qualcosa di assurdo, magari anche pedalare fino a notte, cercare un luogo nuovo, magari scoprirlo, come da ragazzini quando si tornava a casa felici per aver visto un passaggio nuovo, salvo poi sapere che già tutti lo conoscevano, ma non importava, perché per te era nuovo.
Alejandro Valverde è gravel per il suo rapporto con le emozioni, per la capacità di farle trasparire sempre e di arrivare anche così dall'altra parte, dalla parte di chi guarda. È gravel il suo rapporto con il pubblico, con i tifosi, con le persone che, a ben guardare, possono essere anche loro gravel: se gravel significa condividere un tragitto, costi quel che costi, e uscirne a pezzi, ma interi o ricomposti. A pezzi per i muscoli, interi per ciò che ritorna nella testa quando il corpo fatica. Quella forma di felicità, di entusiasmo quasi originario.
Certo, saranno gare e si lotterà anche per vincere e pure lì Valverde sarà gravel, come tutte le volte in cui, magari, non ha vinto, però di lui si ricordano tutti, talvolta più che del vincitore. Essere gravel rientra in una certa modalità di fare le cose e pure nella memoria, nel ricordo che si lascia.
Con tutto questo, Valverde partirà per "Indomable" e per "The Traka", un altro ciclo. Ciclo da circolare, da ciò che gira e rigira. Da ciò che cambia giro, ma non finisce. Alejandro Valverde, signore e signori.
L'iride Gravel
È stata una lunga fuga quella di Gianni Vermeersch e Daniel Oss. Loro due, segnati da quei cognomi onomatopeici, quasi a simulare il rumore delle ruote nella terra, se ne sono andati dopo appena quaranta chilometri, durante la prima edizione del Campionato del Mondo Gravel, e nessuno li ha più rivisti, almeno fino al traguardo. Eppure andare via così presto è spesso un azzardo, una follia, un gioco ad alto rischio: a Vermeersch e Oss, ieri pomeriggio, non interessava. Qualcosa di simile al rock 'n roll il loro gesto e il gravel somiglia al rock perché unisce sonorità, possibilità, strada e terra, idee e desideri.
Il gruppo naufraga: quattro minuti, cinque minuti, ad un certo punto anche sette minuti. La nazionale italiana e quella belga sono perfette, Mathieu van der Poel, che pur tutti aspettavano, si trova imbrigliato, in una trappola, in una tela, non può far nulla se non affidarsi al gruppo che questa volta, diversamente da tante altre volte, nulla può fare, nulla riesce a fare. Ad un certo punto, davanti, Vermeersch si accorge che Oss perde qualche metro, poco, ma è un segnale, un segnale che l'avversario, appena coglie, cerca di portare all'esasperazione. Accelera Vermeersch, belga con un nome che più italiano non si può, qualcosa di caratteristico perché non è il primo.
Oss cede, prima qualche metro, poi sempre più. Le mura di Cittadella non sono poi così distanti. È pomeriggio ma si avverte l'arrivo della sera: i tramonti qui sono una lunga attesa, mentre i raggi di luce sfumano sulle pietre, sui mattoni, sui loro colori e, proprio qui, il gravel fa ciò che meglio gli riesce. Creare qualcosa di nuovo, di inaspettato. Gianni Vermeersch vince, diventa il primo Campione del Mondo Gravel: è felice, come non esserlo, forse ancora di più perché questa è una possibilità che avrebbe potuto non esserci anche per lui che si trova a proprio agio nel terreno in cui corre una bicicletta gravel. Gianni Vermeersch ha rischiato di non poterlo proprio dire: «Sono Campione del Mondo Gravel». Da ieri può dirlo.
Racconta molto di Vermeersch quell'oro e racconta altrettanto di Daniel Oss il suo argento. In assoluto l'argento è meno pregiato dell'oro, ma il valore non è il prezzo, il costo, il listino. Il valore è ciò che l'essere umano riconosce, assegna, percepisce. Così per Oss è una giornata speciale, un momento importante, un sogno, mentre sceso di sella va verso le premiazioni e batte il cinque al pubblico che lo chiama. Una giornata speciale è anche per chi ha scelto di stare a guardare, di cercare il luogo giusto per vedere spuntare da una curva i ciclisti o per sentire le loro ruote quasi traballare sul pavè del centro di Cittadella. Una festa, un'altra.
Terzo arriva Mathieu van der Poel, a seguire Greg Van Avermaet e, fra gli azzurri, Alessandro De Marchi e Davide Ballerini. Anche De Marchi è rock o, se preferite, gravel. Per come si butta in ciò che fa, per il fatto che solo sabato fosse in fuga sulle strade del "Lombardia" e poi di corsa in Veneto. Settimo sul traguardo.
Essere gravel è questa cosa qui. Essere gravel è divertirsi e far divertire, è il buon umore della fatica, della sfida che è anche prova, novità. Essere gravel è rock, è un centro storico e una birra, è la prima volta delle cose importanti.
I giorni dopo Erratico Gravel
Il giorno dopo è il giorno delle idee, dei pensieri. Così è accaduto anche per Erratico Gravel e tutto ciò che è stato quel fine settimana di inizio ottobre nel Canavese non sta nelle parole. Paolo Ciaberta e Simone Bracco, fra gli organizzatori dell'evento, hanno voglia di raccontare, una voglia che, in realtà, appartiene a tutti dopo giornate così. «Vengono e ti dicono semplicemente che sono felici- spiega Paolo- poi ti spiegano la loro giornata, i momenti più belli e quelli più difficili». Simone nota che questa è una forma di condivisione, come tante altre: «Guardate le storie sui social: è come spartirsi un poco di acido lattico. Spesso le persone non si aspettano queste cose da una bicicletta, rimangono stupite e, quando rimangono stupite, fotografano, spiegano, raccontano. A chiunque».
Già, una delle tante forme di condivisione perché già solo ritrovarsi tutti assieme e pedalare significa condividere. «Fotografando- osserva Paolo- li guardavo quei volti. Era incredibile: più aumentava la fatica, più la terra e il fango addosso, più la fatica, più aumentava la felicità». Perché? È una domanda spontanea. «Perché siamo molto abituati a una fatica mentale che logora e prendere una bicicletta, scegliendo di faticare, quasi purifica, risana, cura. Un'ora, due ore, e le cose prendono un'altra dimensione, quella giusta. Vivibile». Tutti assieme, che significa campioni, esperti, profani e chi ha iniziato a pedalare da un anno, talvolta da meno. Simone parla del rugby: «Il terzo tempo nel rugby è una delle parti più belle. In un evento come questo, il terzo tempo è ovunque: in un ristoro, in quelle chiacchierate, anche nelle paure, nei dubbi. Alla fine, a tavola, si sta tutti assieme e stare a tavola assieme è unico: non importa quello che sai fare, quanti watt sviluppi, quanto tempo ci metti, si pranza assieme».
Lo ha notato anche Patrick De Lorenzi, ironman che ha partecipato a Erratico Gravel: «Lui che con il fisico può fare qualunque cosa, che non ha problemi di resistenza o fatica, ha scritto che Erratico è stata "un'esperienza brutale e meravigliosa". Crediamo renda l'idea, crediamo basti per raccontare la scoperta di una terra attraverso due giorni di divertimento». Qualcosa di simile si può narrare anche passando dal velodromo Francone di San Francesco al Campo.
Simone dice che gli addetti del velodromo, inizialmente, apparivano quasi perplessi, certamente dubbiosi da questa forma di ciclismo "nuova" che poi nuova non è, che affonda le sue radici nelle basi di quello che è una bicicletta. «A loro faceva strano non parlare di podi, di tempi, di classifiche, di barrette energetiche e gel, ma di ristori con cibo tipico e, perché no, un bicchiere di vino. Eppure, alla fine, erano incuriositi, interessati e chiedevano, facevano domande. C'è stato uno scambio e questa essenza del ciclismo li ha colpiti». Probabilmente, chiosa Paolo, il gravel ha aiutato, questa disciplina a metà strada che permette nuovi viaggi, nuove esplorazioni, certamente ad attirarli è stata un'altra questione.
«Spesso, quando pensiamo al ciclismo, pensiamo al ciclismo professionistico e va bene così perché lì cerchiamo l'epica, la straordinarietà delle gesta, qualcosa che non ci faccia sentire tutte le fragilità e le debolezze di cui siamo fatti. Il punto è che come uomini e donne, spesso, siamo distanti da quelle gesta, non siamo capaci di fare certi numeri e dobbiamo ammettere che questo non è un problema. Anzi, è bello anche andare lentamente in bicicletta, fermarsi, non competere con nessun se non con te stesso, se vuoi. Prima o poi, arriviamo tutti a questa scoperta: continuano a emozionarci le gesta dei campioni, ma ci emozionano anche i nostri piccoli miglioramenti, il nostro crescere». Di quella lentezza è fatta, ad esempio, l'osservazione del territorio di cui, a forza di correre, si rischia di non rendersi conto.
«Il Canavese è una terra straordinaria, bosco, sottobosco, natura e strade da scoprire ogni giorno, perché c'è ancora tanto che non si conosce. Ci piacerebbe che questa terra si volesse un bene maggiore, riconoscendo la sua bellezza e andandone fiera. Perché chi passa da qui, anche se distratto, resta meravigliato. Sempre».
Una meraviglia che non grida: Canavese Erratico Gravel
Le terre del Canavese sono silenziose e in quel silenzio si può vedere molto a patto, però, di scoprirlo. Perché la meraviglia, lì, non urla, parla a voce bassa e bisogna ascoltare per riconoscerla. Erratico Gravel (www.erraticogravel.it) nel fine settimana del 1 e 2 ottobre, proverà a mettersi in ascolto di questa meraviglia timida: «La bicicletta è, in primis, un modo di scoprire, le sue radici sono nella scoperta: una via, un sentiero, un modo per arrivare dall'altra parte di una salita o di una discesa. Il fatto che il Canavese non sia così conosciuto fa sia che sia un luogo ideale per pedalare».
Ci spiega così Paolo Ciaberta, tra gli organizzatori di questo evento, e aggiunge qualcosa che, anche se detto a bassa voce, grida, tanto è giusto, importante: «Crediamo che ogni sentiero, ogni traccia, ogni mulattiera o strada militare di questo paese debba avere un evento ciclistico off road dedicato per permetterci di conoscerlo e poi magari tornarci o portarci gli amici».
Due giorni, tre percorsi, rispettivamente di 83, 132 e 216 chilometri. Gravel e Mtb, per il più lungo è possibile scegliere il bikepacking e percorrerlo in due giorni. «Si può andare da soli in ogni luogo e può essere avventuroso. Andarci insieme restituisce una sensazione diversa: c'è qualcuno che ti accompagna in un posto, che te lo mostra, prova a raccontarti cosa c'è in quel castello, fra quelle case, fra quei campi. Magari ti fa assaggiare un prodotto tipico e ti spiega come viene cucinato». Andare in bicicletta sui sentieri del Canavese, in quei giorni, sarà soprattutto questo.
Guardare la Serra Morenica che sembra affettata con un coltello tanto è delicata, quasi fragile, e pensare che, una volta, qui c'era il mare. Si chiama Erratico Gravel proprio in ricordo dei massi erratici, di un bacino marino, del ghiaccio. Oggi c'è la natura: laghi, campi, vegetazione folta che cambia più volte mentre si pedala. Il verbo allora diventa condividere: «Un bicchiere di Erbaluce, un vino bianco di queste zone, i torcetti, il salampatata, i formaggi della Val Chiusella o i baci di dama: in tutti i casi, dopo la fatica, si cerca un sapore, più o meno conosciuto, per ritrovare energie». Poi si parla, si ride, si scherza, davanti a un piatto di pasta, un alimento che parla di bicicletta, di sudore, di una terra e della sua storia.
L'autunno sarà appena iniziato e quei colori che cambiano, nel silenzio interrotto dal rumore delle ruote che girano e dei pedali che frullano, ricorderanno ancora una volta a tutti perché stare in sella fa stare tanto bene.
Unbound
Mentre l’UCI cerca di capire come, dove e quando fare un mondiale Gravel è opinione comune che Unbound sia la gara più importante al mondo quando si parla di strade sterrate.
Lo scorso weekend i più forti atleti gravel (e non) al mondo si sono dati appuntamento ad Emporia, Kansas, per darsi battaglia e celebrare un weekend di ciclismo e divertimento allo stato puro.
Circa 5000 i partenti, divisi su tre distanze di cui quella da 200 miglia (330 km) è indubbiamente l’evento principale del weekend. Al via nomi di spicco come Lachlan Morton, Nathan Haas, Peter Stetina ma anche outsider provenienti da altre discipline come Cameron Wurf e Ashton Lambie. Per la prima volta, anche un buon gruppo interessante di europei oltre al solito Laurens Ten Dam. Mattia de Marchi e Ivar Slik per fare due nomi.
La gara è stata durissima, complicata dai forti temporali che hanno trasformato le lunghissime strade dritte sulle colline in fiumi di fango nella seconda metà del tracciato. Mattia de Marchi e Laurens Ten Dam hanno provato il colpaccio da lontano, prima di essere ripresi e lasciare spazio a quello che restava del “gruppo”. In un finale strettissimo, ad avere la meglio è stato Ivar Slik: una prima volta quasi storica per un atleta europeo.
La festa è per tutti, perché per i più la vera sfida è portare a termine uno dei percorsi a disposizione, che sia quello da 200, da 100 miglia o da 350. Festa e show come solo in America si sa fare, con pubblico in partenza e all’arrivo degno di una gara World Tour. Poi domenica mattina tutto ritorna alla normalità di un modesto paesino di 25000 anime in mezzo ai campi e alle colline del Kansas.
Ian Boswell, come tagli in un tronco d'acero
Il Vermont non poteva che essere casa per Ian Boswell. Da anni, ormai, Boswell abita in una casa rurale, fra i boschi del nord est degli Stati Uniti. Sono stati quei boschi e quelle strade sterrate a dargli il coraggio di dire basta al ciclismo professionistico, nel 2020, dopo il terribile incidente che lo coinvolse alla Tirreno Adriatico dell'anno precedente. Da quel giorno, molte cose che prima sembravano facili sono diventate complesse, parlare con più persone nello stesso momento stancante, ha bisogno di scrivere gli impegni della giornata per restare concentrato e di indossare particolari occhiali per leggere. La commozione cerebrale riportata nella caduta ha causato danni permanenti: Boswell non riesce più a stare in mezzo al traffico e, quando vede qualche gara in televisione, teme la velocità, le cadute. Da quel giorno non è il ragazzo che tutti credono di conoscere, magari solo perché lo hanno visto alzare al cielo le braccia impolverate dalla ghiaia alla Unbound Gravel 2021, solo perché lo hanno visto domare quei chilometri di strade sterrate con apparente facilità.
«All'inizio - spiega in un'intervista a Cyclist UK- accettavo le cadute come rischio del mestiere. Mi dicevo che io ero questa cosa qui e che ero disposto a mettere in conto le cadute, persino la morte. Quando sono caduto, avrei subito voluto tornare in sella, non pensavo ad altro». Ma la realtà ritorna. I primi allenamenti dopo la riabilitazione sono impossibili, Boswell ha bisogno di fermarsi, la fatica è esasperata. Come un'incisione nel tronco di uno dei tanti aceri della terra di cui Boswell è diventato figlio. Così annuncia il ritiro, dice che tornerà in quei boschi, che sente il bisogno di scoprire quelle strade sterrate fuori da casa. Forse avrebbe dovuto credere più in se stesso durante la sua carriera, avrebbe dovuto credere al bambino che era e che sognava, un giorno, di andare al Tour de France ma anche diventare adulti ha un prezzo da pagare. Orgoglioso di aver corso in Sky, di aver vinto e anche di aver mollato.
«Bisogna imparare a lasciare che il corpo sia la nostra guida. È difficile» dice oggi. Perché chi sa delle incisioni nei tronchi d'acero del Vermont, sa anche che da quei tagli si ricava lo sciroppo d'acero. C'è qualcosa da salvare anche nei tagli, anche se Ian Boswell non è più l'uomo di prima e tanti ragionamenti, forse, un tempo non li avrebbe nemmeno fatti. Oggi li fa, mentre taglia la legna e prepara i ciocchi che finiranno nel camino per l'inverno che verrà. «Ci sono molti atleti che percorrono la stretta linea di confine tra velocità e cadute: io non ho più il desiderio di correre quel rischio». Le gare di gravel, quelle che ha scelto per ripartire, lo fanno sentire sicuro perché raramente si finisce nella pancia del gruppo, spesso si arriva da soli, non ci sono volate, non c'è quella velocità e quello sfiorarsi di equilibristi senza rete. «Sono più lunghe, forse più faticose, ma il problema non è la fatica. Non sento più il bisogno di andare come un dannato a tutti costi. Se mi sento insicuro, se ho paura, so che posso frenare, rallentare. Mi prendo questo permesso».
Nonostante ciò, continua ad allenarsi, a correre, a progettare e anche a vincere. Il 5 giugno del 2021 ha superato Lawrence Ten Dam, bruciando tutta l'energia che aveva in corpo nel finale della Unbound Gravel, a Emporia, in Kansas. Ha gridato solo “Yeah”, una liberazione e una conferma. Perché capire, non significa rinunciare.
Già, perché anche il dolore ha un confine da non superare. Oltre quel limite, soffrire non ha alcun senso. Diventa pericoloso. Anche gli aceri con meno di quarant'anni non vengono incisi. C'è una ragione, c'è la ragione da seguire. Se Ian Boswell dovesse cadere ancora, se dovesse picchiare male la testa, i rischi per lui sarebbero ben peggiori di quelli che sta affrontando: potrebbe non risalire più in sella e questo no, non avrebbe proprio alcun senso. «Una volta non me ne accorgevo, ora vedo tutti i piccoli rischi che ci sono sulla strada. Il mio cervello si rifiuta di far finta di niente». Per questo Ian Boswell sa di aver fatto la scelta giusta.
Foto: account IG unboundgravel
Jeroboam 300 - Gravel Challenge
LENT MA SEGUENT
Partiamo dal nome. Jeroboam è la bottiglia di spumante da 3 litri. 300 centilitri che in una metafora ciclistica è "facile" tramutare in 300 chilometri. È "facile" a parole, perché basta chiudere un secondo gli occhi, concentrarsi sul vero significato di una cosa e trasformarlo a proprio piacimento.
È meno facile per chi questa idea l'ha curata, tracciata, organizzata e resa vera. L'organizzazione ha preso un termine dell'enologia e l'ha reso pedalabile.
Pedalabile... beh, insomma, non sempre.
Ma i ragazzi in maglia azzurra dello staff sono sinceri sin dall'inizio. Il briefing per la 300 è diverso da quella della 150, principalmente per l'intro lapidaria e inconfutabile. Only three words: «È davvero impegnativa».
Di solito si parte con un forza, un daje, un alè, un mola mia, un dai che ce la fate. Ma così è meglio, perché è un attimo prenderla troppo alla leggera. Alzo il buff a filo del labbro superiore e rispondo dentro di me: "Lent ma seguent".
PECCATI
Anche per questa intro, alla partenza alle 7:30 di sabato mattina mi vien subito da pensare a Geroboamo. Da lui viene il nome. Dal primo re d'Israele, che abbandonò la retta via del Cristianesimo, per venerare il vitello d'oro. Geroboamo il re dei peccati.
E di peccati noi 54 alla partenza del percorso lungo probabilmente ne abbiamo molti da espiare. E infatti la prima parte del percorso è costellata di imprevisti.
Pronti, via, siamo nel gruppo e inizia subito a piovere. Anche lo sterrato è puntuale ed è dietro la prima curva.
Alla prima pausa per cambiare già assetto e indossare il mantello da supereroi weatherproof ci accorgiamo che ho già perso una borraccia. O meglio la falsa borraccia con il GPS tracker.
Bene! Dopo soli 10 km percorsi salutiamo già il gruppo, e sotto l'acqua facciamo rientro verso Erbusco. Fortunatamente incontriamo due ragazzi che stavano tracciando anche il mio percorso. Perdo l'occasione di approfittarne e onestamente metto il mio tracker in un posto più al sicuro, nella sacca sopra il telaio, vicino al cuore pulsante della Canyon Grizl, che già sbuffa: «Simone sei il solito Zaaaai»
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MAI SOLI
La solitudine creata dalla mia ingenuità è in realtà una bolla che ci permette di scegliere il nostro passo, senza alcuna influenza esterna.
Fortunatamente la pioggia smette ed esce un sole timido. La prima vera salita a Polaveno scorre via liscia, come il suo asfalto (che rimpiangeremo) e parliamo anche con un biker locale che ci racconta di come abbia iniziato a spingere in mountain bike per un amico partito troppo presto.
«Voleva fare la Spartacus, anzi era già iscritto. Io non ero preparato per una gara del genere, una specie di Jeroboam in mountain-bike. Ma dovevo farla e l'ho finita. Non ero solo».
E da quel momento, il biker che conosciamo solo per voce e volto, non si è più fermato. Penso al buff che indosso, penso a chi mi ha portato ad essere qui anche oggi ad affrontare una sfida con noi stessi.
Non per vincerla o perderla, ma per affrontarla. Perché quello che rimane, nel bene o nel male, è sempre una piccola consapevolezza in più di poter superare ogni difficoltà. Perché in fondo non siamo mai soli. Nemmeno quando a Bovegno si prende la strada di S. Antonio e si inizia a salire. Nemmeno quando passiamo dalla Santella di S. Antonio, e ci accorgiamo che è vuota. Temiamo che il Santo sia scappato, per quello che ci aspetta. Ed avremo ragione.
LE SETTE CROCETTE
Le sogneremo spesso le sette crocette. Sono lì in cima al passo, al fresco dei loro 2041 metri, dal 1668. Non proprio queste crocette ora in ferro battuto, perché originariamente erano di legno.
Nessuno sa di preciso come mai siano lì, ma per noi sono il primo vero spartiacque della nostra Jeroboam.
Sapevamo che sarebbe stato il passo più duro da affrontare. Almeno sulla carta, ma in effetti sarà così anche sulla ghiaia.
Il muro a secco accompagna i primi tratti di mulattiera, che sfumano gradualmente in sentieri di cresta e in traversi tipici di medio-alta montagna. Non è roba da gravel, ma la Grizl, un po’ pedalata, un po’ spinta, rimane sempre fedele al mio fianco. Così come la Grail di Armin, nonostante un gracchiare costante della catena dilavata dalla pioggia di partenza.
Dalla nebbia che circonda il nostro lento avanzare, spuntano delle presenze, che rompono la monotonia della nostra fatica (e del mal di schiena): davanti a noi due geroboami che arrancano. Non siamo soli.
Poi una baita che invita a comprare il suo formaggio. Uno dei nuovi compagni di viaggio, cade in tentazione e si appesantisce di mezzo kilo di formaggella. Non lo rivedremo più.
Noi chiediamo dell'olio per la catena di Armin. E non è stato facile.
"Avete dell'olio?"
"Olio? Mmm Collio?"
"No, OLIO, olio della catena, della moto"
"Olio? Mmm mah".
"Ghè mia lè de l'ole?"
"L'ole, certo, chel nurmal della motosega o chel de mangià?"
L'olio della motosega rende la trasmissione di Armin un violino. Salutiamo il formaggiaio, con la promessa di tornarci in un giorno di sole, e proseguiamo tra gli asini e le mucche.
Come tutti i passi di montagna, anche le 7 crocette si fanno desiderare. L’atmosfera bucolica e quieta che ci circonda allevia però anche l’attesa più snervante e i polpacci che tirano tra un passo su tacchette d’acciaio e l’altro.
La vista sul monte Ario, sulle 3 Colombine, sul Campione e sul Guglielmo, è incastrata tra le nuvole basse che, come tende spesse e pesanti, non la fanno passare.
Ma poco importa, lo spettacolo è sul nostro stesso sentiero.
Assistiamo perfino allo spettacolo della vita. Una pecorella partorisce da sola, con noi come unici parenti. La incitiamo mentre dà alla luce il piccolo Geroboamo. Sì, ci ha concesso l’onore di scegliere il nome del piccolo.
E come tutti i passi di montagna, anche le 7 crocette sbucano all’ultimo secondo, dandoci perfino un piccolo scorcio del paesaggio immenso circostante. Solo per qualche minuto.
LA SERENITA’
Può sembrare un ossimoro parlare di serenità durante due giorni di pedalate su sentieri poco brevettati per le due ruote non ammortizzate.
Eppure, dalle sette crocette fischiamo in picchiata sull’asfalto freddo ma accogliente del Passo Maniva, che ci prende per mano e ci spinge fino al Bivacco Tita Secchi.
La sua struttura di legno, quasi una protesi della costa rocciosa su cui appoggia, ha in serbo per noi panini con la nutella e salame bergamasco fresco fresco di taglio.
Il primo timbro, che è in realtà una firma, ci spinge ancora più dell’asfalto del Maniva e ci proietta in pieghe continue tra i 12 tornanti acutissimi che dal Passo Baremone ci mandano “in ferie” ad Anfo.
Le rive del lago d’Idro sanno di week-end tutto salviettone, piedi a mollo e frisbee.
Ed è qui che ci riprendiamo la nostra serenità. Riusciamo a concentrarci su cosa stiamo facendo, su ogni singolo movimento, respiro e sguardo di questa avventura. La fatica c’è, ma se ne sta zitta in un angolo, almeno per un momento, e ci fa godere appieno della vita.
E poco male se dal fondo del lago d’Idro si torna a salire. E si torna a salire per quasi 1500 metri, prima lisci poi ruvidi.
Il tramonto con vista sul cavalluccio marino che è il lago d’Idro, alternato da curve in un bosco che già profuma di sera, rafforzano il senso di serenità che sta guidando il momento più brillante della nostra giornata.
E nemmeno il buio, squarciato dalle nostre amiche torce, ne la foratura della mia anteriore, ma nemmeno gli ultimi portage imprevisti di giornata ci impediscono di raggiungere il secondo check-point.
ENOUGH CYCLING
Quanto avete pedalato oggi? 13 ore, 130 km asprissimi e 4500 metri di dislivello. Beh, diciamo abbastanza, diciamo enough. Potremmo anche dire che ne abbiamo abbastanza, ma non è così.
L’accoglienza birrosa, festosa, e hawaiana (sì, hawaiana), dei mitici Enough Cycling, alla Malga Corva, sul monte Tombea, rallegra la nostra fame.
Sono quasi tutti qua. Del gruppo che abbiamo abbandonato molto presto mancano alcuni coraggiosi, e mancano certamente il Re e il principe del week-end. Geoffrey Langat e Sofiane Sehili, involati già oltre le sponde del lago di Garda. La regina è Nancy Akinyi, anche lei già riflessa dalle acque calme di Salò.
Noi siamo arrivati un po' tardi alla tettoia rallegrata dalla musica degli Enough. Ci siamo persi salsicce e salamelle cucinati da un Mattia De Marchi in borghese. Sì, tutti nomi di un certo calibro. Noi, per giustificare la nostra presenza tra loro, ci agganciamo umilmente al nostro mantra "Lent ma Seguent".
E ripieghiamo su un piatto di pasta alla Malga Corva.
E per restare fedeli al nostro mantra, dopo un bel cambio rigenerante, ripartiamo.
Inizia ad essere notte profonda, anzi mattina presto. E allora scegliamo Jimi Hendrix per alternarsi ai bramiti dei cervi e per graffiare il buio e il nostro sonno, mentre camminaliamo (un po' camminiamo e un po' pedaliamo), per altri 5 km e 600 metri di dislivello.
La discesa sterrata fino al Lago di Garda è un massaggio shiatsu infinito, e uno slalom tra i rospi giganti immobili in mezzo alla strada che non ci degnano di uno sguardo.
Il primo paese che incontriamo è Piovere. Il nome, e i lampi all’orizzonte ci inducono a proseguire, anzi pure a spingere un po'. Finalmente si può, e il Lago di Garda di notte, senza fari e clacson scivola via che è un piacere. Toscolano Maderno, Gardone Val Trompia e infine Salò.
I sussurri nella testa ci consigliano di riposare un attimo. E così l’entrata di uno studio ortopedico diventa la cuccia per noi e per le fedeli Canyon. Per ben 40 minuti. Suona la sveglia e ci svegliamo. Stanchi sì, ma comunque meno di quando suona in un banalissimo lunedì.
2 ORE DI BUIO
Vero, la notte è durata molto di più. 11 ore abbondanti. Ma due sono state le ore di buio totale, che sono piombate su di noi alla ripartenza da Salò.
Quando si dice: Testa bassa e pedalare. Per due ore per me è stato letteralmente così. Due ore spesso sono tutto quello che hai per pedalare, per allenarti durante la settimana. Qui, nel bel mezzo di questo viaggio in continuo, le due ore sono state un momento di buio lunghissimo.
Non solo metaforicamente ma anche letteralmente.
Accartocciato sulla bicicletta, guardavo il fanalino rosso di Armin, nel buio bagnato di un diluvio anche lui lungo due ore.
Quella lucina intermittente rossa è stata la mia guida e l'unico punto di contatto che avessi con la realtà. Non facevo che copiare meccanicamente le sue traiettorie senza aver le forze per fare altro. Se Armin fosse finito in un fosso, l'avrei fatto anche io. Ma Armin è un drago, non mollava, e non sbagliava una linea, reduce dalle sue passate scorribande di downhill.
Il mio stomaco aveva deciso in autonomia che era il momento di mollare, di tornare a casa al calduccio e per convincermi mi ha tolto tutte le energie, mi ha vietato di mangiare o di bere, e bruciava come un dannato. Ma non ce l'ha fatta.
Io ho smesso di guardare il contachilometri (e quando succede non è un buon segno) se non ogni tanto per vedere l'ora.
Dalle 5 alle 7 mi ripetevo sempre e solo le stesse 6 cose, in un loop che non finiva più:
1) Dai che arrivano le 7.
2) Dai che viene giorno.
3) Dai che smette di piovere
4) Dai che bevi un tè caldo al limone.
5) Dai che si svegliano tutti e vi fanno il tifo controllando il live-tracking.
6) Lent ma seguent
Dicono che il pensiero possa piegare l'universo, alterare la casualità delle cose e farle tendere verso di noi. Non so se sia vero. Forse è solo coincidenza, oppure è il papi che è andato a bussare dal grande capo.
So solo che sono arrivate le 7. È venuto giorno, ha smesso di piovere, ho bevuto un tè caldo al limone (e ho pure fatto un mini sonnellino sul divano comodissimo del bar. "Armin svegliami quando hai finito le tue brioche"), si sono svegliati tutti e hanno cominciato ad incitarci, vedendoci ormai ai meno 100 km, con 6000 metri di dislivello messi in tasca.
IL VOLO DELL'AIRONE
Vero, l'airone per gli sportivi bresciani è Andrea Caracciolo. Ma l'Airone per tutti i ciclisti è Fausto Coppi. E cosa c'entra Fausto Coppi con voi due che arrancate dopo 190 km? Ecco, 190, come i chilometri dell'incredibile fuga di Fausto Coppi al Giro del 1949, nella Pinerolo-Cuneo. E proprio il Campionissimo ci balza in mente nel momento della rinascita e del ritorno della speranza.
Lì, nel bellissimo parco dell'Airone, a Bedizzole, tra i joggers della domenica, famiglie allegre sorprese del sole nonostante le previsioni pessimistiche della vigilia (che sia colpa del wet bias?), rinasciamo.
Il terreno è finalmente gravel, quella ghiaia che sfrigola al passaggio dei nostri pneumatici, opponendo quella giusta resistenza che rende tutto un po’ frizzantino, ma senza sbalzarci come yo-yo sulla sella.
Il parco lascia spazio a pratoni di erba incolta e fradicia, pattugliati dalle squadre di cacciatori Bresciani con i loro cani da riporto.
Pensiamo che possiamo farcela. Il traguardo è ancora distante e ci sono ancora ben tre salite distinte da affrontare, ma il ritmo è finalmente quello giusto. Pensiamo allora che solo una fucilata mal piazzata possa porre la parola fine. Acceleriamo. Anzi, ora sì, voliamo. Come l'airone.
FANGO E MARMO
Quando si iniziano a vedere le cave di marmo di Nuvolera, pensiamo già al fango che potrebbe accoglierci sulle rampe solitamente cavalcate dai camion pesanti.
Entriamo nella cava, e la strada si colora subito di marrancione (sì, marrancione), ci illude con qualche tratto pianeggiante e poi si inerpica dritto per dritto.
Il fango c'è, e accarezza i sassi bianchi reduci dal taglio del marmo. Il fotografo ci attende, ma nota che sorridere in quella posizione da orango-tango è impossibile. E allora fa partire il drone sulle nostre teste, donandoci un attimo di sollievo con quella brezza al calcare.
Il terzo e ultimo check-point è all'insegna dell'ottimismo. "Ormai ci siete". mancano solo 500 metri di dislivello (parliamone). I ragazzi di 3T mi guardano mentre scolo una bottiglia di coca e non osano sottolinearlo (grazie). Lo faranno solo all'arrivo, ormai certi che qualsiasi problema avessi, ormai era superato.
Superato grazie ad Armin, che inizia a gridare al vento ogni volta che i chilometri all'arrivo diminuiscono di 5.
A Brescia, la salita asfaltata fino a "Brescia Alta" sembra una carezza. La salita sul Monte Picastello un po’ meno. Molto meno. La strada delle trincee è quella tipica salita che "era meglio l'avessero messa all'inizio". Ma ormai nulla può scalfirci. Se fai 300 km, quando ne mancano 30, la testa è già all'arrivo. E nemmeno quando scopriamo che la nostra traccia non porta a Erbusco, ma a 7 chilometri di distanza, non ci scoraggiamo.
Afferriamo la strada provinciale, che è come sedersi su un divano morbidissimo dopo una giornata seduta su una panca di legno, e sorridiamo alla bellissima accoglienza del villaggio di arrivo.
«Vi aspetta la vostra birra». È quello che volevamo sentirci dire. «Ma prima foto di rito e firma sul pannello».
Non sono molte le firme che ci hanno anticipato. Circa una decina. Segno che "Lent ma Seguent" era il passo giusto anche oggi. Oggi e ieri, dato che siamo partiti alle 8 di sabato e siamo arrivati alle 14 di domenica.
Come si dice? «La notte leoni... la mattina... pure! Altrimenti la Jeroboam 300 non la finisci». Ora lo sappiamo per certo.
Quello che Ten Dam ha imparato
Laurens Ten Dam ha corso diciassette anni nel professionismo, eppure ha conosciuto davvero la bicicletta solo qualche settimana fa, quando è arrivato secondo nella Unbound Gravel, duecento miglia unsupported intorno a Emporia.
«Prima di partire per Gravel Locos ho detto a Ted King che doveva essere pazzo a correre a tre settimane dalla rottura della clavicola - spiega a Cyclingnews - Giusto un paio d'ore per capire come tutto fosse diverso».
In realtà, che questo fosse un altro volto del ciclismo, l'ha visto appena ha forato e ha dovuto sistemare da solo la ruota. «Sei abituato a chiedere aiuto ma sei da solo e per ripartire devi arrangiarti».
In Kansas un ragazzo è andato a bussare a una fattoria per chiedere una pompa per gonfiare una ruota, l'olandese l'ha guardato stupito: «Credi possano aiutarti? Quante pompe vuoi che possiedano?». Nel mentre si sfidava con Ian Boswell per il primo posto. «Seccato per il secondo posto, ma ringrazio la bicicletta per tutte le avventure che mi fa vivere e le persone che mi fa conoscere».
Ten Dam vorrebbe raccontare tutte le storie dei folli che corrono queste gare. «Posso raccontare a mio padre cosa ho fatto, però non potrà mai saperlo davvero se non lo proverà. Porterò qui i miei amici: saranno in fondo al gruppo e arriveranno ultimi, ma vivranno questa esperienza e torneranno felici».
Alfabeto Nova Eroica
A come Arrigo VII
Buonconvento è un bel posto per venirci a pedalare. Sterrati, salite, discese, borghi e pievi e castelli. Lo sanno tutti da quando l’Eroica ne ha fatto uno dei capisaldi del “Rinascimento ciclistico”. Un po’ meno per venirci a morire, tanto più se, come pare, avvelenato. Capitò nel 1313 all’imperatore, Arrigo VII di Lussemburgo, nel quale Dante, nell’eterna contesa temporale tra papato e impero, e nelle intestine lotte tra guelfi e ghibellini, riponeva le sue speranze di riscatto politico, sbagliando però clamorosamente “cavallo”. Pare che fosse stato avvelenato da un frate, durante la comunione. Si era in piena estate
(24 agosto) e non c’era verso di rimpatriare il cadavere imperiale in Germania. Si fece ricorso a un’usanza germanica: bollire il corpo del morto per separarne le ossa dal resto delle parti molli. Le ossa vennero trasportare insieme alle insegne imperiali, lo scettro e il globo, nel Duomo di Pisa, dove lo scultore Tino da Camaino eresse un monumento funebre al sovrano. Che da questo fatto derivi il nome della celebre ribollita, noto piatto dei mitici ristori eroici?
B come Berruti, Luciano
Perché son quattro anni che non c’è più ma è come se non fosse mai andato via. Sempre qui. Non c’è quasi bisogno di ricordarlo. E se ce ne fosse bisogno basterebbe incrociare gli occhi di Jacek, suo figlio, e quello che dice e che fa con la schiettezza ereditata da un padre che era anche “il suo migliore amico”. Luciano, numero uno per sempre.
C come Crine del Carube
Biondo era bello e di gentile aspetto. Oddio, proprio gentile magari no… Però biondo e bello Roberto Lencioni, detto Carube, s’è palesato iersera all’ombra delle mura trecentesche di Buonconvento “a miracol mostrare”. A colpire l’attenzione degli affezionati che lo hanno accolto, erano i boccoli dorati che sfuggivano alla sorveglianza d’un vezzoso cerchietto. “Oh Carube!” stupirono gli amici. “Tranquilli” disse il Gran connestabile del Re Leone “non vedo il barbiere da mesi”. Per poi aggiungere bellicosi propositi che si tacciono per prudenza e decenza.
F come Franchetti
Franco Rossi, detto Franchetti, è il motore organizzativo della gran macchina di Eroica. È la corrente alternata del generatore. Il pullulare di elettroni nell’elemento chimico eroico. È uno e trino. Ubiquo e polimorfo. Pettinato come se la Forestale gli avesse fatto un giro in testa, come dice il Gatto, il re dei numeri de L’Eroica. Elettrico e sempre in tensione. Ma col sorriso.
I come I’ Bbrocci
Tutto questo mondo eroico non esisterebbe proprio se un quarto e passa di secolo fa non si fosse accesa la luce visionaria e donchisciottesca di Giancarlo Brocci da Gaiole. Il Brocci, anzi I’ Bbrocci ha
michelangiolescamente toccato il dito degli eroici adamitici e ha dato il là alla genesi. Molte cose sono successe nel frattempo, anche di grosse e non sempre di dritte. Come tutti i fenomeni di “lunga durata” anche L’Eroica per sopravvivere ha dovuto accettare l’evoluzione: ma è impossibile dimenticare dove e come tutto prese inizio. Se si ha ben presente da dove si proviene, difficile che si perda il senso di dove si vuole arrivare.
L come Lampredotto
C’è ci storce il naso al solo pronunciare il nome di questa umile, enterica ma concreta dimostrazione dell’esistenza di Dio. Ci dispiace per loro. Soffermatevi invece a rimirare il pentolone ribollente di aromi, la maestria con cui viene arpionata la sfuggente materia dissimulata in sembianza ittica, la speditezza con la quale a colpi di coltello viene ridotta a una scomposta minuzia, e l’altrettanto prontezza con cui ratto s’intinge il panino nello stesso brodo, non troppo ammollato per preservarne la forma infrastrutturale del companatico, ma inumidito il giusto per assorbirne i vaporosi umori del sedano, della cipolla e della carota, per poi adornarla della gustosa bagna smeraldina. Lampredotto, m’hai provocato. E mo’ me te magno.
N come Nova Eroica
Nova Eroica è un manifesto alla declinazione della libertà in bicicletta. Le mitiche Strade bianche divenute da oltre venticinque anni patrimonio dell’umanità ciclistica vengono qui affrontate non soltanto dalle biciclette d’epoca, come avviene nell’Eroica primigenia e ottobrina di Gaiole, o in quella primaverile di Montalcino; ma anche dalle bici contemporanee, e in particolar modo dalle gravel, oggi il mezzo più adatto per pedalare su sterrati e fuoristrada, su percorsi dall’altimetrie non proibitive. Nova Eroica è per questo un simbolo del nuovo stile dell’andare in bicicletta che si apra a pubblici sempre più ampi ed appassionati. Il Dolce Stilnovo eroico.
M come Monte Sante Marie
È il Galibier, il Mortirolo dell’Eroica. Un susseguirsi di balzi dalle pendenze cattive, che di solito i veri eroici – quelli del “Lungo” dell’Eroica di ottobre – fanno quasi al termine della loro impresa. Vedendo, come dice il nome della salite, più di una Madonna. E invocandola spesso.
P come Panzanella
Era più o meno la metà del Trecento e nelle campagne del Senese si moriva di fame: pestilenze, carestie e quell’insopprimibile voglia di fare le guerre delle prepotenti città nei contadi avevano messo allo stremo la popolazione rurale. Giovanni Colombini apparteneva a una ricca e potente famiglia di mercanti senesi, che si erano poi dati ai banchi di prestito, diventando infine così ricchi e potenti da essere ammessi tra i nobili cittadini. Ma proprio a metà Trecento, Giovanni e tutta la sua famiglia, fulminati da una crisi mistica, donarono tutti i loro averi, si fecero monaci e vissero in povertà e letizia. In un anno ancor più crudo degli altri, intorno a Giovanni, venerato eremita, si strinsero disperati uno stuolo di contadini affamati. Giovanni li riunì in preghiera e fece il miracolo: le sue lacrime pietose bagnarono quel poco di pane secco che gli
rimaneva, e poi irrorarono un ulivo e poi ancora ridiedero vita all’ortaglia d’intorno, che tornò a produrre verdure di campo. Con l’olio, il pane secco ammollato e i frutti dell’orto sfamò centinaia e centinaia di mendicanti. E nacque la panzanella, la panzanella del Beato Colombini. Ora il nome stesso di questo glorioso piatto povero di riuso non rende forse fede alla leggenda. Però alla panzanella, soprattutto da queste parti, e nelle stagioni calde, non si può rinunciare. Io, modestamente, la faccio buona quasi quanto il Beato. E senza bisogno di piangere.
R come Rubino, Guido P.
Con Guido Rubino, giornalista e fotografo, da più di dieci anni ho combinato tante belle avventure sopra e intorno alle biciclette. Stare al suo fianco è per me garanzia di lavoro ben fatto e autentico divertimento. Guido P. Rubino quando è in forma, più o meno sempre, ti fa piegare dalle risate. Ma Guido non è che un esempio tra i molti del significato autenticamente comunitario e amichevole di Eroica: e quello che scrivo di Guido lo potrei dire, a diverso titolo, per Livio, Angela, Alessandra, Maurizio, Willy, Mauro, Cristina, Roberto, Ale, Vittorio… Tutte le volte che ho partecipato, fosse Gaiole o Montalcino, la Nova o in Limburgo o nelle Dolomiti, la cosa più importante è stata quella di sapere di incontrare i vecchi amici e di farne di nuovi.
V come Val d’Arbia
L’Arbia si colorò in rosso nel 1260, nella battaglia tra guelfi Fiorentini e ghibellini Senesi, per il gran spargimento di sangue. Con Nova Eroica in Val d’Arbia i colori, delle biciclette, delle maglie, dei caschi, degli stendardi e dei tendoni del village sotto le mura di Buonconvento non si contano. Un arcobaleno in bicicletta, a dispetto di un meteo capriccioso che ha ingrigito il weekend di mezzo luglio.