Il Tour dell'Annapurna in bicicletta

Elisa Roux è andata a vivere da sola quando aveva poco più di vent'anni. All'inizio erano tutti monolocali, case accoglienti, ma piccole, così piccole che sua sorella Stefania, quando passava a trovarla, le diceva sempre: «Bello qui, ma non c'è spazio nemmeno per una bicicletta». Lei non capiva e non capisce tutt'oggi il perché di questa frase, tanto più che, in quei momenti, non pedalava per nulla e le biciclette non le interessavano nemmeno. Stefania, però, quelle parole gliele ripeteva sempre, ad ogni cambio di abitazione: erano tutte case carine, ma una bici non ci sarebbe mai entrata. Sarà per questo motivo che, nella casa nuova, in cui Elisa vive, da qualche tempo, con Giorgio, lo spazio per le biciclette l'ha trovato, l'ha lasciato: anzi, in cucina, è stato ritagliato una sorta di ripostiglio, un bussolotto in cui è posta una vecchia Colnago del 1973, ritrovata nella clinica psichiatrica dove Elisa lavora. Nel giardino c'era una capanna destinata agli attrezzi e ad altre "vecchie cianfrusaglie", in un angolo, tuttavia, erano riposte una decina di biciclette, ormai conciate da buttare via, donate alla clinica dai volontari. Un tempo, vi pedalavano i pazienti della clinica, per svagarsi, ma, quando vennero effettuati dei lavori di ristrutturazione e quel giardino divenne sempre più bello, per le biciclette non ci fu spazio: si dovevano buttare via. «Tutte non potremo mai salvarle, ma una sì, una puoi prenderla e le troveremo un posto»: parola di Giorgio, il compagno di Elisa. Quell'unica bicicletta era proprio la Colnago 1973, custodita nella loro cucina. Stefania, purtroppo, è andata via nel 2017, a causa di una malattia, ma ora in casa c'è spazio per una bicicletta, anzi, per più di una bicicletta sola ed Elisa sorride, tra la malinconia e una lieve felicità.

In fondo, sembra passato così tanto tempo dalla prima bicicletta, ma non sono trascorsi neppure tre anni: era il gennaio del 2021. Elisa aveva appena conosciuto Giorgio Emanuel e sapeva della sua passione per il ciclismo, di quanto fosse bravo in quello sport. Interessarsi al ciclismo era, di fondo, un modo per trascorrere degli istanti assieme, per condividere una passione e quindi aumentare il lasso di tempo condiviso. Era stato proprio Giorgio a dirle, passando da un negozio: «Ho visto la tua bici, devi prenderla, è perfetta per quello che sei!». Già, quella bicicletta era davvero bella: un grigio opaco difficile da descrivere che, però, la rende ancora oggi quella di cui Elisa Roux si ricorda meglio. Nelle sue idee non avrebbe voluto spendere più di cinquecento euro per la prima bici, quasi fosse un tentativo, una prova, perché non sapeva come sarebbe andata, non sapeva quanto l'avrebbe effettivamente usata. Spenderà circa cinque volte quella cifra e oggi sa di aver fatto la cosa giusta. Ci pensa soprattutto in qualche pomeriggio in clinica, mentre fuori il cielo è di un azzurro che acceca ed i raggi del sole rimpallano in ogni dove, fra gli alberi ed il prato: è certa che lei potrà uscire, forse pedalare, di certo respirare l'aria là fuori. Sa altrettanto bene che quei pazienti vivono ventiquattro ore al giorno fra quelle mura, molti sono giovani, dopo la pandemia, sono sempre più giovani e quel cielo e quei bagliori di luce non possono che guardarli da dietro un vetro, senza alcun progetto. In quegli istanti, si sente fortunata, aumenta la sua capacità di guardare, di vedere. La stessa cosa accadde anche al Cammino di Santiago, quando partì sola per colmare la mancanza di Stefania, pur non essendo per nulla sportiva, con ancora nelle orecchie la voce della madre che le diceva di come le sue cugine fossero bravissime a sciare, di come le amiche fossero campionesse in qualche disciplina. Lei no, lei pensava ad altro, eppure quei giorni lontano, da sola, l'hanno cambiata, come la bicicletta ha cambiato il suo modo di leggere il mondo. Con Giorgio affronterà il Tour, in bicicletta, della Toscana, scalerà i Pirenei, senza valigie piene di vestiti, solo con i fondelli e un paio di ricambi, scoprirà vette nuove, meno conosciute, più aspre di quelle famose, ma, ancora prima, esplorerà sentieri e vialetti che portano alle colline e alle montagne vicino a casa, in Piemonte. Poi il Nepal, l'ultimo viaggio, compiuto poche settimane fa.

Nell'immaginario e nella realtà, che spesso coincidono, talvolta si scambiano, il Nepal è il luogo degli 8000 metri, ma non solo. L'arrivo a Kathmandu sorprende Elisa: «Le folle che si spostano in città sono immense: macchine, pullman, moto che viaggiano senza alcun apparente senso logico, nella mobilità, in un caos che fa restare immobili, senza parole. Ci sono cani che passano e attraversano la strada e palazzoni giganti, in cui le scale sono in bambù e gli operai lavorano scalzi, mentre le biciclette sono un mezzo di lavoro, trasportano tappeti, carni, anche polli. Il senso di spaesamento è inevitabile». L'orientamento, in realtà, si perde spesso, di fronte a quei monti che sembrano essere la fine del mondo, della strada, del viaggio, e, poi, a quelle vallate che, da un momento all'altro, si aprono e sono infinite. Ma anche al cospetto della giungla in cui bisogna fare attenzione al rischio sanguisughe, sino al Mustang, alla sabbia che pare quasi un deserto. In totale, il Tour dell'Annapurna si comporrà di circa 278 chilometri, più di undicimila metri di dislivello e circa cinquanta ore in sella. Proprio in quelle ore, tutti guardavano le biciclette e provavano curiosità, anche solo per quei colori vivaci, azzurro e giallo, mentre le loro erano vecchie, rovinate, arrugginite. Qualcuno vuole provarle: «Eravamo a circa 4800 metri, diretti ai 5400 metri, con un sentiero a strapiombo su un fiume, in cui anche noi dovevamo fare attenzione, per i rischi ed il senso di vertigine che invade. Ad un certo punto, da una casetta, nel nulla, esce un ragazzino indiano: capelli lunghi fino al collo e maglione di lana. Sale sulla mia bicicletta ed inizia a correre a mille, avanti ed indietro, concedendosi anche un'impennata prima di restituirmela. Sarà stata una delle prime in cui provava una bici, ma il suo era un talento naturale, genuino». Qualcuno in vetta, nemmeno chiede, accarezza la bicicletta e prova a pedalare, molti gridano «in bici, in bici!», ovvero «avete visto? Sono saliti in bici».

La fatica è una compagna quotidiana, Elisa Roux si dice che, forse, avrebbe dovuto prepararsi meglio. In realtà, le strade sono sconnesse, secche, bisogna pedalare piano, fare attenzione e, certi giorni, proprio non si vorrebbe ripartire, perché anche solo quindici chilometri paiono interminabili. Anche a sera è necessario adattarsi: in camera, c'è una turca, un secchio d'acqua, niente carta igienica, niente riscaldamento, l'acqua per la doccia è fredda, molte cose sono improvvisate, come il trasporto dei loro borsoni su una jeep, a sera, li ritrovano in albergo unti di olio motore, chissà dove viaggiavano. Nella hall di un albergo, alcuni scatti, molto semplici, del proprietario dell'hotel, ritraggono il leopardo delle nevi, un animale bellissimo, maestoso, capace di mimetizzarsi alla perfezione, di cui sono sopravvissuti solo venti esemplari: «Sento ancora il profumo dei mandarini, nei trasferimenti. Così verdi da sembrare acerbi, in realtà maturi, piccoli, buonissimi, completamente diversi dai nostri. L'altro profumo è quello delle spezie, in abbondanza sulla carne. Il verde domina nei boschi, nelle foreste, dove il sole filtra a tratti, si vedono le liane e la tentazione è di fermarsi a fotografare ogni dettaglio, lassù i ghiacciai, bianchi, la neve, talvolta la sabbia, la ghiaia. A ridosso del cielo». Lassù sorge il sole.

Elisa e Giorgio erano nei dintorni di Poon Hill, nei giorni conclusivi del loro viaggio, era sera, in programma, per il giorno successivo c'era la salita di ben 260 scalini per vedere l'alba. La partenza è prevista per le cinque, ma già alle quattro di notte l'hotel è in fermento: «Non riuscivo a capire, a me sembrava già prestissimo partire a quell'ora, visto che il sole sorgeva alle sei e diciassette. Addirittura, nella sala colazioni era già quasi tutto esaurito e, come siamo arrivati, la guida ci ha messo fretta. Bisognava partire immediatamente». Il motivo lo capiranno su quegli scalini, che tormentano i muscoli, quasi li martellano e lasciano segni per giorni: scalini che impiegheranno circa tre quarti d'ora a percorrere, in mezzo a duecento, trecento persone che rincorrono il sorgere del sole: «Ci hanno detto che tutti i giorni si ripete questa scena, anche se ci sarebbe, accanto, una collinetta in cui si potrebbe vedere addirittura meglio, ma questa è la loro usanza. Lì vicino c'è una capanna, offre del tè, una bevanda calda per tutti, poi sorge il sole, all'ora prefissata, nonostante ogni rincorsa e tutta la fretta».

Momenti belli che, condivisi, aumentano il loro valore, il loro potenziale e quei quasi tre anni in sella paiono essere molti di più, come se la bicicletta ci fosse sempre stata, come se quei monolocali, piccoli, minuscoli, ora avessero un angolino per tutte le bici che avrebbero potuto esservi parcheggiate. Come voleva Stefania, come vuole Elisa.


Un padre e una figlia a Istraland

Pensate al verde dei monti, a quel verde intenso della vegetazione più rigogliosa, spaziate, poi, nel blu delle acque, in tutte le sue sfumature, fino alla superficie cristallina, dove si vede il fondo e sembra di poterlo toccare. Non fermatevi, andate alle bianche falesie a picco sul mare, alle vene di calcare, argilla e marna, e, più sù, ai paesi arroccati sulle colline, ai vigneti e agli ulivi. Metteteci colori, profumi, sapori, metteteci notti e giorni di avventure, di ruote di biciclette che girano e si fermano ad aspettare, aggiungete anche il vento, la brezza più o meno forte che spira accanto alle onde e continuate a sognare. Probabilmente state pensando di partire, già, ma per andare dove? Ve lo diciamo: la descrizione narra l'Istria, la sua costa. I sensi sono quelli di chi pedala, perché così ve la raccontiamo, in bicicletta. L'occasione è Istraland: 400 chilometri di gravel e 5500 metri di dislivello, da Sežana, in Slovenia, a Sežana, tra polvere, salita e campagna, sole e salsedine, a fine settembre. Eppure, quando Lucio Paladin ha pensato di iscriversi a questa manifestazione, tutto questo, per quanto bello, non era il primo pensiero.

Il primo pensiero era invece una frase che con la figlia Asja, appassionata ed esperta di avventure simili, si era detto molte volte: «Sarebbe bello fare qualcosa solo io e te, assieme. Padre e figlia, insomma». L'aveva detto ad Asja e Asja l'aveva detto a lui, ma si sa come vanno queste cose, anche i desideri più forti, più desiderati, per l'appunto, si fanno spesso attendere. Allora serve un'occasione, un compleanno, ad esempio, ed il compleanno della figlia arriva. «Perché no? Andiamo, papà». Lucio e Asja partono. Se è la prima volta per questo genere di viaggio, non è la prima volta che la bicicletta li lega: quando Asja era bambina e correva, Lucio era il suo direttore sportivo. Orecchie attente e si ascolta: «Ricordo che mi fidavo ciecamente di quel che mi diceva, perché era il direttore sportivo e perché era mio padre. Ho imparato fidandomi a pedalare». Già, questa volta, però, è tutto diverso, questa volta l'esperta è Asja e Lucio, alla partenza, è agitato, preoccupato, quasi si trattasse di una competizione in cui dover primeggiare, della gara della vita: «Papà, a me non interessa nulla vincere, arrivare prima. A me interessa essere qui con te, certo, arrivare alla fine ma farlo con te. Basta. Vorrei tu pensassi a questo e ti prometto che ce la faremo. Ti fidi?». Le parole della figlia sono più che mai necessarie ed il padre ascolta, si fida. Ciecamente.

Mentre ce lo racconta, la voce di Asja vibra, quelle vibrazioni date dall'orgoglio, dalla felicità: «Non ha mai messo in dubbio una parola di ciò che dicevo ed ha fatto tutto quello che gli ho chiesto, anche se per chi viene dalla strada non è sempre facile. Non si può capire quanto mi abbia reso contenta vedere papà avere quella fiducia». Il discorso va in profondità: «A volte, forse soprattutto da ragazzini, vediamo nei genitori qualcuno di opposto a noi, quasi ci remassero contro. In certe età è normale, però non è così. Dobbiamo capirlo ed avere la certezza che loro credano così tanto in noi non sai quanto possa cambiare la quotidianità». Asja guarda spesso Lucio: capisce quando sta facendo fatica ma la nasconde dietro ad un sorriso, ad uno scherzo, per non farglielo vedere, per non farla preoccupare. Intuisce i momenti in cui non ha fame, allora gli si avvicina: «Mangia qualcosa lo stesso, è importante». Certe volte è più faticoso, altre è un inno alla gioia.

«Sai che, quando andavamo a dormire, a sera, era stanchissimo, però era ancora più felice, se possibile, perché era arrivato alla fine della giornata, perché era ancora con me». Soraya, sua sorella, è sul percorso, le fornisce qualche indicazione, le dice come cambia il tempo, dove tira il vento, per il resto c'è una mappa fornita dall'organizzazione con ogni indicazione necessaria, sui punti in cui si trova acqua e cibo e sui chilometri in cui, invece, bisogna fare rifornimento perché si è più lontano dai centri abitati. Asja Paladin spiega che è l'evento giusto per chi vuole iniziare a cimentarsi con il gravel: abbastanza duro, ma non durissimo, godibile, piacevole. La gente che si incontra saluta, chiacchiera, anche a cena si può stare con tanti appassionati di bici, a ridere e scherzare, a dimenticare le difficoltà della giornata, a rilassare i muscoli. «Il primo giorno ci siamo imbattuti in una discesa molto rotta, rovinata, ci abbiamo messo molto a scendere. Ho pensato: "Se non inizia a detestarmi qui, non inizia più"». Scherza così Paladin.

A casa c'è sua madre, non esattamente entusiasta della gita: «Sono sempre in pensiero quando parti tu per queste esperienze, se ora inizi anche a portare papà, siamo apposto». Carmen, però, ha cambiato idea. I monti, il mare, Pula, la terra rossa che resta negli occhi, e poi i vigneti, Gli ultimi quaranta chilometri non passano più: sembra davvero di non riuscire ad arrivare al traguardo, anche se ormai manca talmente poco che pare impossibile: laggiù, in fondo, sbuca qualcuno. Si tratta della mamma e del ragazzo di Asja: «Papà pedalava come fosse il primo chilometro, con addosso un'energia pazzesca, incredibile. Un piacere da guardare. Mamma mi ha cercato dopo l'arrivo: "Grazie per questa giornata, grazie per la felicità tua e di papà". Ricorderò sempre queste parole». Quell'avventura rincorsa per molto tempo era diventata realtà e lo aveva fatto nella miglior forma possibile.
Ora ripensate a tutto quello che vi dicevamo, tornate all'Istria, a fine settembre, in bicicletta, ma guardate bene. Da qualche parte ci sono un padre e una figlia che non vedevano l'ora di pedalare assieme. Questo si può anche descrivere, ma bisogna provarlo, sentire quel desiderio e poi quella gioia. Asja e Lucio Paladin lo confermano.


Strade più o meno brute

Il mattino del primo sabato d’ottobre del 2018, il mattino dell’edizione zero di Strade Brute - Franciacorta Gravel - preannunciava uno di quei temporali che fanno paura. Sentieri che diventano strade di fango e ruscelli che diventano fiumi in piena. L’idea di organizzare l’evento è nata solamente pochi mesi prima. Seduti a un tavolo a bere un bicchiere di vino c’era quel gruppo di amici “indecisi” tra la mtb e la bici da strada. La Gravel non andava ancora di moda e, a noi, sembrava il mezzo ideale per esplorare i sentieri, le strade sterrate, i boschi, le montagne e i vigneti della provincia di Brescia. Senza esperienza e , soprattutto, senza sapere cosa fosse davvero un evento Gravel abbiamo deciso di provarci. Credevamo che all’appuntamento ci saremmo presentati solamente noi, quelli del bicchiere di vino, magari pochi altri amici. Quando si sono presentate più di cento persone, stupiti dal numero di biciclette ed entusiasti, siamo saliti in sella e siamo partiti. La pioggia, il vento e il fango l’hanno resa una fantastica tragica prima volta e, sull’onda dell’entusiasmo - nostro e dei partecipanti - ci siamo dati da fare e sono cominciati i preparativi per l’anno successivo.

All’inizio il percorso era unico ed uguale per tutti. Con il tempo abbiamo pensato a altre opportunità perché, diciamoci la verità: “quanto è bello esplorare le strade di casa. Trovare ogni volta quella variante alla quale non avevi mai pensato perché così nascosta che nemmeno chi su queste strade pedala ogni domenica nota? ” Abbiamo quindi deciso di proporre due itinerari.
“Strade Brute”: 80 chilometri e 1500 metri di dislivello. Impegnativo. Adatto a chi può contare su allenamento e buona tecnica perché si troverà ad affrontare terreni tecnici con qualche tratto di portage.

“Strade (meno) Brute” più breve e accessibile. Dislivello abbastanza contenuto, una traccia per tutti diciamo.
Ogni anno gli itinerari vengono modificati ma, entrambe le proposte, sono giri ad anello che partono e arrivano nel cuore della Franciacorta. Sempre su strade sterrate poco note (e molto brute). Entrambi i tragitti portano ad affrontare salite e discese nel paesaggio collinare dei celebri vigneti. Le tracce attraversano anche la Riserva Naturale delle Torbiere del Sebino, riconosciuta a livello internazionale come un'area prioritaria per la biodiversità nella Pianura Padana lombarda, monasteri di interesse storico culturale e vedute spettacolari del lago d’Iseo.

Strade Brute si svolge sempre il primo sabato di ottobre. Chi va in bici sa che questo è il momento migliore dell’anno. La temperatura è perfetta. Il sole inizia ad essere sempre più pigro, ma quando sorge sa regalarti quel tepore che tanto basta per farti togliere lo smanicato dopo pochi chilometri.

Lo spirito con cui organizziamo questa giornata è rimasto quello dell’edizione zero. Vogliamo divertirci. Non ci sono pettorali, non abbiamo un cronometro e non guardiamo i KOM. Ma abbiamo voglia di ridere, di chiacchierare uno di fianco all’altro, di sfidarci con una mezza ruota e di aspettarci un chilometro dopo. Di fotografare i colori dell’autunno appena iniziato, quei colori che rendono i vigneti della Franciacorta un posto magico in cui pedalare, che cambiano nel silenzio interrotto solo dal rumore delle ruote che girano sul brecciolino.

Strade Brute non è una gara, Strade Brute è l’occasione per fare ciò che più ci piace; andare in bicicletta con i nostri amici e, alla fine del giro, bere un bicchiere di vino.

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Contributo da parte de: I gnari di Strade Brute

Qui potete trovare i loro profili social:

https://www.instagram.com/strade_brute/
https://www.facebook.com/stradebrute

Qui potete trovare la raccolta delle tracce fatta su komoot:

https://www.komoot.com/it-it/collection/1855027/-lungo-le-strade-brute-scopri-il-fascino-piu-nascosto-della-franciacorta


Le nuove strade gravel di Valverde

Quanti aggettivi si sono usati, nel tempo, per descrivere Alejandro Valverde? "L'Embatido" è, forse, quello che più si ricorda, ma il ciclismo di Valverde è sempre stato affollato di aggettivi e non era un caso: servivano per descrivere ciò che accadeva, a renderne l'idea, a darne una forma, uno schizzo, quasi si trattasse di una bozza di un pezzo o di un dipinto. Talvolta si dice che gli aggettivi vanno tolti, che non bisogna esagerare, noi, invece, crediamo all'altra scuola, quella di Gianni Mura, ad esempio, secondo cui gli aggettivi servono, sono necessari, e si può anche abbondare, a patto che ne valga la pena, a patto che siano quelli giusti.
Per Valverde, in questi giorni, ad esempio, ne abbiamo in mente un altro. Strano, forse insolito. Però ci piace dire che Alejandro Valverde è gravel. Sì, non abbiamo sbagliato. Poi andremo oltre, perché lì vogliamo arrivare, ma partiamo dal fatto: Alejandro Valverde è davvero un ciclista che si dedica al gravel, o, almeno, lo sarà fra qualche giorno, quando disputerà la prima gara su sterrato con Movistar, la "Indomable", ad Almeria, il 23 aprile. Ciclista lo è da tempo, anche se si è ritirato lo scorso ottobre: guardate la sua pagina Instagram, reca ancora la dicitura "ciclista professionista", può essere disattenzione, può essere altro. Legame, ad esempio. E se è legame, come tutti i legami, si sottopone al tempo che passa e a quanto il tempo, agendo, cambi, modifichi.

Dire che Valverde è gravel non significa solo dire che Valverde correrà ad "Indomable" e, poi, a "The Traka", il 29 aprile. Dire che Valverde è gravel significa raccontare una storia che prosegue, significa dare una possibilità alla circolarità delle cose e permettere alla parola fine di avere un altro senso. Finisce una carriera, non un modo di essere, di vedere le cose: quello si reinventa da un'altra parte e continua a parlare lo stesso linguaggio.
Valverde che ha continuato a correre fino a 42 anni non è così diverso da chiunque, in un giro in bicicletta. Da quando si dice: "arriviamo fino a lì e poi torniamo" ed invece si va avanti e l'imprevisto è, se volete, una scusa per cercare altro divertimento. A noi viene in mente il ritorno di Valverde sul luogo della caduta alla Vuelta 2021, la precisione con cui ha ricordato il momento della scivolata, della caduta, del timore, per tutti, anche per lui e quel ritiro dolorante. Non solo nel corpo. Viene in mente il fatto che a 41 anni si potrebbe anche pensare di lasciare stare dopo un rischio simile, perché di rischi se ne corrono sempre tanti, ma a quarant'anni fanno più paura. Invece no. Un altro anno e poi un altro ciclo, la curiosità di vedere cosa si prova nel gravel.

Tour de France Saitama Criterium 2022 - Saitama - 06/11/2022 - Alejandro Valverde (ESP - Movistar Team) - photo Kei Tsuji/SprintCyclingAgency©2022

L'Embatido è gravel per quello sguardo che ha sempre avuto in sella; qualcosa a metà tra il prendere in maniera maledettamente seria il pedalare ed il cercare un altro spazio che sia più leggero, più fantasioso. Eravamo a Innsbruck, al Mondiale da lui vinto nel 2018, e ricordiamo quello che ci disse un amico: "Don Alejandro ne ha fatta un'altra delle sue". Ed essere gravel ha anche a che vedere con il "combinarne qualcuna", affrontare uno sterrato e sentirsi a proprio agio, fare qualcosa di assurdo, magari anche pedalare fino a notte, cercare un luogo nuovo, magari scoprirlo, come da ragazzini quando si tornava a casa felici per aver visto un passaggio nuovo, salvo poi sapere che già tutti lo conoscevano, ma non importava, perché per te era nuovo.

Alejandro Valverde è gravel per il suo rapporto con le emozioni, per la capacità di farle trasparire sempre e di arrivare anche così dall'altra parte, dalla parte di chi guarda. È gravel il suo rapporto con il pubblico, con i tifosi, con le persone che, a ben guardare, possono essere anche loro gravel: se gravel significa condividere un tragitto, costi quel che costi, e uscirne a pezzi, ma interi o ricomposti. A pezzi per i muscoli, interi per ciò che ritorna nella testa quando il corpo fatica. Quella forma di felicità, di entusiasmo quasi originario.

Certo, saranno gare e si lotterà anche per vincere e pure lì Valverde sarà gravel, come tutte le volte in cui, magari, non ha vinto, però di lui si ricordano tutti, talvolta più che del vincitore. Essere gravel rientra in una certa modalità di fare le cose e pure nella memoria, nel ricordo che si lascia.

Con tutto questo, Valverde partirà per "Indomable" e per "The Traka", un altro ciclo. Ciclo da circolare, da ciò che gira e rigira. Da ciò che cambia giro, ma non finisce. Alejandro Valverde, signore e signori.


Dalle colline si vede il mare: GeoGravel Tuscany

Avete presente la "Ribollita"? Sì, parliamo di biciclette, non preoccupatevi, non di cucina, ma con Paolo Bettini partiamo proprio da questa ricetta: «Sai, si dice sia un piatto semplice da preparare. Non è difficile, ma se non sei attento, anche quelle "verdure ribollite" non prendono il gusto che vuoi. È un piatto povero dell'antica cucina toscana, ma non è detto che sia "facile" nel senso comune del termine». In realtà, l'analisi culinaria non si ferma qui: qualcosa di simile ci diciamo per il pane raffermo della pappa al pomodoro, per quel sapore che il "Grillo livornese" ben conosce, che saprebbe distinguere, perché anche per quello serve una cura particolare.

La stessa cura serve per pedalare, per entrare nella modalità gravel, che, in fondo, è un gioco di equilibri e sintonie.

In bilico tra questi equilibri, con l'orecchio teso a queste sintonie, si parla di GeoGravel Tuscany, delle sue strade grigie, ora e nel fine settimana del 23-24 settembre 2023 quando si svolgerà la prima edizione di quella che è un'autentica avventura, tra boschi inesplorati e lune che paiono calate in terra, ma in realtà sono solo strade non ancora percorse dai più, immerse nella solitudine. «Pedalare, anche lentamente-racconta Bettini- è comunque fare un minimo di fatica, perché stare fermo è sempre più comodo. Alfredo Martini me lo diceva sempre: "Sono quelle endorfine che liberi mentre fai un giro in bicicletta a farti stare bene. Si tratta della fatica bella: bisogna riconoscerla, costruirla, assaggiarla e viverla. Semplice, ma complesso, come sempre le cose facili».

Così, la fine di settembre, in Toscana sarà solo "viaggiare assieme", senza primi e ultimi, senza altro che la ricerca della capacità di apprezzare un viaggio per cui non servono parole: «Succede che pedali per minuti e minuti assieme a qualcuno, magari ore. Non si parla, semplicemente perché sei concentrato sulla strada, talvolta sui pensieri, eppure, appena ti fermi a una fontana, o ad un bar, trovi una confidenza che non capisci da dove sia nata. Da quel silenzio, posso garantirlo». Accadrà quando da una collina, in seconda, in terza fila, vicino ai boschi, ci si volterà e si vedrà il mare, perché la terra toscana sta anche in questo: in uno squarcio inaspettato, che, però, ritrovi quando più ne hai più bisogno.

Il freddo è meno freddo, perché, anche in inverno, cinque o sei gradi ci sono sempre: si può pedalare con le ruote "in spiaggia" a Cecina oppure a Bibbona, poi andare verso Bolgheri, quasi toccare con mano le vigne delle uve che danno gusto ai vini di qui, fino ai boschi, alle colline, ai parchi e ancora alle strade che portano sino a Siena, sino in Piazza del Campo. «Credo che ogni paesaggio- aggiunge Paolo Bettini- assomigli a un carattere: c'è chi ha necessità di vedere l'orizzonte libero e la linea del mare per prendere fiato e chi, invece, si trova bene nelle valli, fra i monti, che sembrano proteggere». Dalla macchia mediterranea ai castagni e ai faggi.

Quattro percorsi: il breve, nel mezzo della riserva naturale di Monterufoli, fra i borghi, il medio, fra gli uliveti, passando a Querceto, luogo di ricordi e vino, il lungo, da Pomarance a Bolgheri, tra mare ed entroterra e l'ultra. Ognuno con un desiderio particolare, ognuno con sensazioni già conosciute e sensazioni nuove da conoscere, da esplorare. Paolo Bettini, che ha calcolato di aver percorso più di un milione di chilometri in bicicletta nella sua vita, in questi boschi ha scoperto oltre settecento chilometri di strade in cui è possibile svoltare quando si è stanchi della quotidianità. Poi vi ha accompagnato amici e la sensazione di essere a casa si è ampliata ogni volta in cui, a metà pedalata, qualcuno gli si è affiancato e gli ha detto: «Ma quanto è bello qui?».

In quei momenti, alla sensazione di libertà, di felicità, si accostava un ricordo, che risale ai primi tempi, dopo la fine della carriera, ai giri con gli amici.

«Ad un certo punto, gli altri andavano e io mi fermavo da qualche parte, in un punto panoramico: stavo lì e guardavo. Alla fine, non vedendomi più, tornavano indietro.
"Paolo, tutto bene?"
"Sì, ma in che posti siamo? Guardate che meraviglia!"
E loro, fissandomi: "Paolo, nei posti di sempre. Questi panorami ci sono sempre stati, il fatto è che tu non avevi tempo per vederli, per guardarli”. Penso spesso a quella frase. Quanto è vero! C'è chi perde dei dettagli, io non coglievo nulla, in preda ai miei traguardi da raggiungere».

Sì, la natura ed il ritorno a ciò che è natura ed è naturale.
In primis, alla bicicletta usata come mezzo per spostarsi, per unire due luoghi, per permettere l'incontro di più persone e cercare un posto in cui prendere vento in faccia. Attraverso la lentezza, attraverso la sua velocità: senza forzare nulla. Genuino, sì, come la risata e la parlata toscana. Naturale come una festa e la musica che fa ballare. Naturale come il silenzio che appartiene a queste strade grigie e che, ogni volta, permette quella confidenza che nemmeno tante parole consegnano.


L'iride Gravel

È stata una lunga fuga quella di Gianni Vermeersch e Daniel Oss. Loro due, segnati da quei cognomi onomatopeici, quasi a simulare il rumore delle ruote nella terra, se ne sono andati dopo appena quaranta chilometri, durante la prima edizione del Campionato del Mondo Gravel, e nessuno li ha più rivisti, almeno fino al traguardo. Eppure andare via così presto è spesso un azzardo, una follia, un gioco ad alto rischio: a Vermeersch e Oss, ieri pomeriggio, non interessava. Qualcosa di simile al rock 'n roll il loro gesto e il gravel somiglia al rock perché unisce sonorità, possibilità, strada e terra, idee e desideri.
Il gruppo naufraga: quattro minuti, cinque minuti, ad un certo punto anche sette minuti. La nazionale italiana e quella belga sono perfette, Mathieu van der Poel, che pur tutti aspettavano, si trova imbrigliato, in una trappola, in una tela, non può far nulla se non affidarsi al gruppo che questa volta, diversamente da tante altre volte, nulla può fare, nulla riesce a fare. Ad un certo punto, davanti, Vermeersch si accorge che Oss perde qualche metro, poco, ma è un segnale, un segnale che l'avversario, appena coglie, cerca di portare all'esasperazione. Accelera Vermeersch, belga con un nome che più italiano non si può, qualcosa di caratteristico perché non è il primo.
Oss cede, prima qualche metro, poi sempre più. Le mura di Cittadella non sono poi così distanti. È pomeriggio ma si avverte l'arrivo della sera: i tramonti qui sono una lunga attesa, mentre i raggi di luce sfumano sulle pietre, sui mattoni, sui loro colori e, proprio qui, il gravel fa ciò che meglio gli riesce. Creare qualcosa di nuovo, di inaspettato. Gianni Vermeersch vince, diventa il primo Campione del Mondo Gravel: è felice, come non esserlo, forse ancora di più perché questa è una possibilità che avrebbe potuto non esserci anche per lui che si trova a proprio agio nel terreno in cui corre una bicicletta gravel. Gianni Vermeersch ha rischiato di non poterlo proprio dire: «Sono Campione del Mondo Gravel». Da ieri può dirlo.
Racconta molto di Vermeersch quell'oro e racconta altrettanto di Daniel Oss il suo argento. In assoluto l'argento è meno pregiato dell'oro, ma il valore non è il prezzo, il costo, il listino. Il valore è ciò che l'essere umano riconosce, assegna, percepisce. Così per Oss è una giornata speciale, un momento importante, un sogno, mentre sceso di sella va verso le premiazioni e batte il cinque al pubblico che lo chiama. Una giornata speciale è anche per chi ha scelto di stare a guardare, di cercare il luogo giusto per vedere spuntare da una curva i ciclisti o per sentire le loro ruote quasi traballare sul pavè del centro di Cittadella. Una festa, un'altra.
Terzo arriva Mathieu van der Poel, a seguire Greg Van Avermaet e, fra gli azzurri, Alessandro De Marchi e Davide Ballerini. Anche De Marchi è rock o, se preferite, gravel. Per come si butta in ciò che fa, per il fatto che solo sabato fosse in fuga sulle strade del "Lombardia" e poi di corsa in Veneto. Settimo sul traguardo.
Essere gravel è questa cosa qui. Essere gravel è divertirsi e far divertire, è il buon umore della fatica, della sfida che è anche prova, novità. Essere gravel è rock, è un centro storico e una birra, è la prima volta delle cose importanti.


I giorni dopo Erratico Gravel

Il giorno dopo è il giorno delle idee, dei pensieri. Così è accaduto anche per Erratico Gravel e tutto ciò che è stato quel fine settimana di inizio ottobre nel Canavese non sta nelle parole. Paolo Ciaberta e Simone Bracco, fra gli organizzatori dell'evento, hanno voglia di raccontare, una voglia che, in realtà, appartiene a tutti dopo giornate così. «Vengono e ti dicono semplicemente che sono felici- spiega Paolo- poi ti spiegano la loro giornata, i momenti più belli e quelli più difficili». Simone nota che questa è una forma di condivisione, come tante altre: «Guardate le storie sui social: è come spartirsi un poco di acido lattico. Spesso le persone non si aspettano queste cose da una bicicletta, rimangono stupite e, quando rimangono stupite, fotografano, spiegano, raccontano. A chiunque».

Già, una delle tante forme di condivisione perché già solo ritrovarsi tutti assieme e pedalare significa condividere. «Fotografando- osserva Paolo- li guardavo quei volti. Era incredibile: più aumentava la fatica, più la terra e il fango addosso, più la fatica, più aumentava la felicità». Perché? È una domanda spontanea. «Perché siamo molto abituati a una fatica mentale che logora e prendere una bicicletta, scegliendo di faticare, quasi purifica, risana, cura. Un'ora, due ore, e le cose prendono un'altra dimensione, quella giusta. Vivibile». Tutti assieme, che significa campioni, esperti, profani e chi ha iniziato a pedalare da un anno, talvolta da meno. Simone parla del rugby: «Il terzo tempo nel rugby è una delle parti più belle. In un evento come questo, il terzo tempo è ovunque: in un ristoro, in quelle chiacchierate, anche nelle paure, nei dubbi. Alla fine, a tavola, si sta tutti assieme e stare a tavola assieme è unico: non importa quello che sai fare, quanti watt sviluppi, quanto tempo ci metti, si pranza assieme».

Lo ha notato anche Patrick De Lorenzi, ironman che ha partecipato a Erratico Gravel: «Lui che con il fisico può fare qualunque cosa, che non ha problemi di resistenza o fatica, ha scritto che Erratico è stata "un'esperienza brutale e meravigliosa". Crediamo renda l'idea, crediamo basti per raccontare la scoperta di una terra attraverso due giorni di divertimento». Qualcosa di simile si può narrare anche passando dal velodromo Francone di San Francesco al Campo.
Simone dice che gli addetti del velodromo, inizialmente, apparivano quasi perplessi, certamente dubbiosi da questa forma di ciclismo "nuova" che poi nuova non è, che affonda le sue radici nelle basi di quello che è una bicicletta. «A loro faceva strano non parlare di podi, di tempi, di classifiche, di barrette energetiche e gel, ma di ristori con cibo tipico e, perché no, un bicchiere di vino. Eppure, alla fine, erano incuriositi, interessati e chiedevano, facevano domande. C'è stato uno scambio e questa essenza del ciclismo li ha colpiti». Probabilmente, chiosa Paolo, il gravel ha aiutato, questa disciplina a metà strada che permette nuovi viaggi, nuove esplorazioni, certamente ad attirarli è stata un'altra questione.

«Spesso, quando pensiamo al ciclismo, pensiamo al ciclismo professionistico e va bene così perché lì cerchiamo l'epica, la straordinarietà delle gesta, qualcosa che non ci faccia sentire tutte le fragilità e le debolezze di cui siamo fatti. Il punto è che come uomini e donne, spesso, siamo distanti da quelle gesta, non siamo capaci di fare certi numeri e dobbiamo ammettere che questo non è un problema. Anzi, è bello anche andare lentamente in bicicletta, fermarsi, non competere con nessun se non con te stesso, se vuoi. Prima o poi, arriviamo tutti a questa scoperta: continuano a emozionarci le gesta dei campioni, ma ci emozionano anche i nostri piccoli miglioramenti, il nostro crescere». Di quella lentezza è fatta, ad esempio, l'osservazione del territorio di cui, a forza di correre, si rischia di non rendersi conto.
«Il Canavese è una terra straordinaria, bosco, sottobosco, natura e strade da scoprire ogni giorno, perché c'è ancora tanto che non si conosce. Ci piacerebbe che questa terra si volesse un bene maggiore, riconoscendo la sua bellezza e andandone fiera. Perché chi passa da qui, anche se distratto, resta meravigliato. Sempre».


Una meraviglia che non grida: Canavese Erratico Gravel

Le terre del Canavese sono silenziose e in quel silenzio si può vedere molto a patto, però, di scoprirlo. Perché la meraviglia, lì, non urla, parla a voce bassa e bisogna ascoltare per riconoscerla. Erratico Gravel (www.erraticogravel.it) nel fine settimana del 1 e 2 ottobre, proverà a mettersi in ascolto di questa meraviglia timida: «La bicicletta è, in primis, un modo di scoprire, le sue radici sono nella scoperta: una via, un sentiero, un modo per arrivare dall'altra parte di una salita o di una discesa. Il fatto che il Canavese non sia così conosciuto fa sia che sia un luogo ideale per pedalare».
Ci spiega così Paolo Ciaberta, tra gli organizzatori di questo evento, e aggiunge qualcosa che, anche se detto a bassa voce, grida, tanto è giusto, importante: «Crediamo che ogni sentiero, ogni traccia, ogni mulattiera o strada militare di questo paese debba avere un evento ciclistico off road dedicato per permetterci di conoscerlo e poi magari tornarci o portarci gli amici».

Due giorni, tre percorsi, rispettivamente di 83, 132 e 216 chilometri. Gravel e Mtb, per il più lungo è possibile scegliere il bikepacking e percorrerlo in due giorni. «Si può andare da soli in ogni luogo e può essere avventuroso. Andarci insieme restituisce una sensazione diversa: c'è qualcuno che ti accompagna in un posto, che te lo mostra, prova a raccontarti cosa c'è in quel castello, fra quelle case, fra quei campi. Magari ti fa assaggiare un prodotto tipico e ti spiega come viene cucinato». Andare in bicicletta sui sentieri del Canavese, in quei giorni, sarà soprattutto questo.
Guardare la Serra Morenica che sembra affettata con un coltello tanto è delicata, quasi fragile, e pensare che, una volta, qui c'era il mare. Si chiama Erratico Gravel proprio in ricordo dei massi erratici, di un bacino marino, del ghiaccio. Oggi c'è la natura: laghi, campi, vegetazione folta che cambia più volte mentre si pedala. Il verbo allora diventa condividere: «Un bicchiere di Erbaluce, un vino bianco di queste zone, i torcetti, il salampatata, i formaggi della Val Chiusella o i baci di dama: in tutti i casi, dopo la fatica, si cerca un sapore, più o meno conosciuto, per ritrovare energie». Poi si parla, si ride, si scherza, davanti a un piatto di pasta, un alimento che parla di bicicletta, di sudore, di una terra e della sua storia.
L'autunno sarà appena iniziato e quei colori che cambiano, nel silenzio interrotto dal rumore delle ruote che girano e dei pedali che frullano, ricorderanno ancora una volta a tutti perché stare in sella fa stare tanto bene.


Unbound

Mentre l’UCI cerca di capire come, dove e quando fare un mondiale Gravel è opinione comune che Unbound sia la gara più importante al mondo quando si parla di strade sterrate.
Lo scorso weekend i più forti atleti gravel (e non) al mondo si sono dati appuntamento ad Emporia, Kansas, per darsi battaglia e celebrare un weekend di ciclismo e divertimento allo stato puro.
Circa 5000 i partenti, divisi su tre distanze di cui quella da 200 miglia (330 km) è indubbiamente l’evento principale del weekend. Al via nomi di spicco come Lachlan Morton, Nathan Haas, Peter Stetina ma anche outsider provenienti da altre discipline come Cameron Wurf e Ashton Lambie. Per la prima volta, anche un buon gruppo interessante di europei oltre al solito Laurens Ten Dam. Mattia de Marchi e Ivar Slik per fare due nomi.
La gara è stata durissima, complicata dai forti temporali che hanno trasformato le lunghissime strade dritte sulle colline in fiumi di fango nella seconda metà del tracciato. Mattia de Marchi e Laurens Ten Dam hanno provato il colpaccio da lontano, prima di essere ripresi e lasciare spazio a quello che restava del “gruppo”. In un finale strettissimo, ad avere la meglio è stato Ivar Slik: una prima volta quasi storica per un atleta europeo.
La festa è per tutti, perché per i più la vera sfida è portare a termine uno dei percorsi a disposizione, che sia quello da 200, da 100 miglia o da 350. Festa e show come solo in America si sa fare, con pubblico in partenza e all’arrivo degno di una gara World Tour. Poi domenica mattina tutto ritorna alla normalità di un modesto paesino di 25000 anime in mezzo ai campi e alle colline del Kansas.


Ian Boswell, come tagli in un tronco d'acero

Il Vermont non poteva che essere casa per Ian Boswell. Da anni, ormai, Boswell abita in una casa rurale, fra i boschi del nord est degli Stati Uniti. Sono stati quei boschi e quelle strade sterrate a dargli il coraggio di dire basta al ciclismo professionistico, nel 2020, dopo il terribile incidente che lo coinvolse alla Tirreno Adriatico dell'anno precedente. Da quel giorno, molte cose che prima sembravano facili sono diventate complesse, parlare con più persone nello stesso momento stancante, ha bisogno di scrivere gli impegni della giornata per restare concentrato e di indossare particolari occhiali per leggere. La commozione cerebrale riportata nella caduta ha causato danni permanenti: Boswell non riesce più a stare in mezzo al traffico e, quando vede qualche gara in televisione, teme la velocità, le cadute. Da quel giorno non è il ragazzo che tutti credono di conoscere, magari solo perché lo hanno visto alzare al cielo le braccia impolverate dalla ghiaia alla Unbound Gravel 2021, solo perché lo hanno visto domare quei chilometri di strade sterrate con apparente facilità.

«All'inizio - spiega in un'intervista a Cyclist UK- accettavo le cadute come rischio del mestiere. Mi dicevo che io ero questa cosa qui e che ero disposto a mettere in conto le cadute, persino la morte. Quando sono caduto, avrei subito voluto tornare in sella, non pensavo ad altro». Ma la realtà ritorna. I primi allenamenti dopo la riabilitazione sono impossibili, Boswell ha bisogno di fermarsi, la fatica è esasperata. Come un'incisione nel tronco di uno dei tanti aceri della terra di cui Boswell è diventato figlio. Così annuncia il ritiro, dice che tornerà in quei boschi, che sente il bisogno di scoprire quelle strade sterrate fuori da casa. Forse avrebbe dovuto credere più in se stesso durante la sua carriera, avrebbe dovuto credere al bambino che era e che sognava, un giorno, di andare al Tour de France ma anche diventare adulti ha un prezzo da pagare. Orgoglioso di aver corso in Sky, di aver vinto e anche di aver mollato.

«Bisogna imparare a lasciare che il corpo sia la nostra guida. È difficile» dice oggi. Perché chi sa delle incisioni nei tronchi d'acero del Vermont, sa anche che da quei tagli si ricava lo sciroppo d'acero. C'è qualcosa da salvare anche nei tagli, anche se Ian Boswell non è più l'uomo di prima e tanti ragionamenti, forse, un tempo non li avrebbe nemmeno fatti. Oggi li fa, mentre taglia la legna e prepara i ciocchi che finiranno nel camino per l'inverno che verrà. «Ci sono molti atleti che percorrono la stretta linea di confine tra velocità e cadute: io non ho più il desiderio di correre quel rischio». Le gare di gravel, quelle che ha scelto per ripartire, lo fanno sentire sicuro perché raramente si finisce nella pancia del gruppo, spesso si arriva da soli, non ci sono volate, non c'è quella velocità e quello sfiorarsi di equilibristi senza rete. «Sono più lunghe, forse più faticose, ma il problema non è la fatica. Non sento più il bisogno di andare come un dannato a tutti costi. Se mi sento insicuro, se ho paura, so che posso frenare, rallentare. Mi prendo questo permesso».

Nonostante ciò, continua ad allenarsi, a correre, a progettare e anche a vincere. Il 5 giugno del 2021 ha superato Lawrence Ten Dam, bruciando tutta l'energia che aveva in corpo nel finale della Unbound Gravel, a Emporia, in Kansas. Ha gridato solo “Yeah”, una liberazione e una conferma. Perché capire, non significa rinunciare.
Già, perché anche il dolore ha un confine da non superare. Oltre quel limite, soffrire non ha alcun senso. Diventa pericoloso. Anche gli aceri con meno di quarant'anni non vengono incisi. C'è una ragione, c'è la ragione da seguire. Se Ian Boswell dovesse cadere ancora, se dovesse picchiare male la testa, i rischi per lui sarebbero ben peggiori di quelli che sta affrontando: potrebbe non risalire più in sella e questo no, non avrebbe proprio alcun senso. «Una volta non me ne accorgevo, ora vedo tutti i piccoli rischi che ci sono sulla strada. Il mio cervello si rifiuta di far finta di niente». Per questo Ian Boswell sa di aver fatto la scelta giusta.

Foto: account IG unboundgravel