Testo e interviste: Filippo Cauz
Interpretazione: Filippo Cauz, Claudio Ruatti
Sound design: Brand&Soda
Tra Hornaing e Wandignies la strada, se così la possiamo chiamare, scorre parallela a un fosso. È un tratto comune a tante strade nelle campagne di questa zona del nord francese, a ridosso del confine belga, sempre che si possa chiamarle proprio strade. Anche il dubbio lessicale, in effetti, è un tratto che le accomuna tutte.
Ciclisticamente si chiamano settori. Sono numerati a scalare e contraddistinti da stellette come fossero alberghi. Ma se nel turismo le stelle vanno di pari passo col comfort, alla Parigi-Roubaix sono il metro di valutazione del disagio. Sulla mappa della corsa, il settore numero 17, Hornaing à Wandignies, è indicato con quattro stelle, ovvero: vade retro.
La strada – continuiamo a chiamarla così – è una riga grigio-beige di pietre scomposte. Al centro, la terra e il fango illudono sull’uniformità delle pietre, ma verso i margini i blocchi di pavé scoprono spigoli vivi come denti aguzzi in un sorriso minaccioso. Tra una pietra e l’altra, naufragati in canyon profondi pochi centimetri, si affacciano dei sassolini e qualche detrito. Qualcuno ha rabberciato i tratti peggiori con piccole colate di cemento, sporadiche lingue più grigie del grigio che si ricongiungono come flussi lavici agli irregolari margini stradali, perlopiù invisibili, nascosti dalle pozzanghere e dal fango.
E quando si alza lo sguardo ai lati della sede stradale, i panorami si alternano senza alcuna fantasia. A sinistra i cespugli, qualche albero sbatacchiato dal vento, una casa o una stradina qua e là, un po’ di pali elettrici. A destra i campi, quasi solo i campi, con le reti che li delimitano e due grandi silos che si stagliano nell’orizzonte. In mezzo, tra la strada di pietre sconnesse e le reti che segnano i confini dei campi, c’è il fosso.
Stranamente, il fosso è asciutto. Il clima umido, il cielo grigio e il fango marrone, farebbero pensare diversamente. Tanto che è dentro al fosso che due famigliole della zona si sono appostate per veder passare la corsa.
Hanno parcheggiato il passeggino di uno dei piccoli faccia alla direzione di gara e al vento, un altro bimbo lo hanno preso in braccio, gli ultimi due ragazzini saltano e si rotolano nel fosso.
Il freddo spinge le mani in fondo alle tasche, solo uno dei padri cede all’impulso di immortalare il passaggio con la fotocamera di un cellulare. I ragazzini hanno giacconi pesanti e ridono. Quante centinaia di volte gli sarà capitato di buttarsi nei fossi nella loro infanzia di campagna? Eppure il gioco resta intatto, la gioia uguale, come se intorno non stesse accadendo nulla di nuovo. E mai percezione fu più falsa, perché lì davanti qualcosa di nuovo sta accadendo eccome.
Arriva la corsa, la si sente prima nelle orecchie, poi nel mulinare dell’aria, quindi in una sorta di vibrazione elettrica. Arriva la corsa ed è un esordio per tutti, tranne che per il gioco del fosso: è il primo settore in pavé della prima edizione femminile della Parigi-Roubaix. Ed è la prima ciclista a transitare di lì. Prima tra le prime il giorno della prima.
I bambini si issano dal fosso: dritti sulle gambe o accovacciati osservano con un certo stupore lo spettacolo naturale di un corpo così atletico ed efficace. Non sanno che Lizzie Deignan, partita all’attacco quasi involontariamente all’imbocco del settore 17, non cambierà mai la sua posizione in classifica. E non sanno, o forse non considerano, la straordinarietà di questo momento. Ma scrutano stupiti, strizzano gli occhi per schermarli dal vento e cercano di vivere questo istante esatto. Forse lo ricorderanno a lungo, forse l’hanno già scordato troppo presi dal richiamo del fosso. Non sempre ce ne si rende conto quando la storia ci passa davanti. Non sempre, ma in questo sabato di inizio ottobre sì, più che mai, questo sabato si fa la Storia.
Quest’ingombrante presenza con la S maiuscola, termine dentro al quale sono racchiusi tutti gli avvenimenti che hanno interessato la specie umana negli ultimi due milioni abbondanti di anni, si aggirava in maniera ben percepibile nel centro di Denain, sabato 2 ottobre 2021. In quasi un migliaio di anni di vita, la cittadina francese aveva avuto poche occasioni per incrociarsi con la Storia.
Sia ben chiaro, ogni luogo e ogni essere vivente ha la sua storia, e sono tutte storie importanti, ma andando a ritroso negli annali di questa cittadina campagnola del Dipartimento del Nord si trova poco più di una singola traccia: la Battaglia di Denain, che nel 1712 vide l’inizio della controffensiva francese durante la Guerra di Successione. Fino al 2 ottobre 2021, quando il richiamo dell’eternità irrompe nel parcheggio di Rue de Villars dove fino a poco prima girava solo un furgoncino dai cui altoparlanti si annunciava lo spettacolo de Le Cirque Français, in programma alle 16.
Uno dopo l’altro si allineano i mezzi delle squadre e ne escono a ondate cicliste sorridenti e orgogliose. Because something is happening here, direbbe Bob Dylan. Qualcosa sta accadendo, e sta accadendo esattamente qui e ora.
Annemiek van Vleuten è assediata dai microfoni, ed è felice, perché «possiamo mostrare che le donne tenaci possono correre gare dure come la Roubaix».
Anche Elisa Balsamo è circondata, gli occhi seguono il candore di una maglia iridata fresca di una settimana, il cui bianco durerà ben poco: «alla fine oggi faremo la storia, quindi correre con questa maglia è qualcosa di incredibile».
Un’opinione condivisa da tutte, a partire dalla più titolata, Marianne Vos: «Credo che sia una cosa grande essere qui», dice Vos.
Una corsa il cui valore va oltre il semplice evento sportivo, come nota Marta Cavalli: «È una bella occasione per noi perché è un altro passo verso l’essere considerate uguali al mondo maschile».
E questo passo non è stato completato in un giorno. C’è voluto tanto lavoro e tanta pazienza. Anche tanta attesa, per una gara che era stata annunciata il 5 maggio del 2020, inserita a sorpresa per l’autunno in un calendario rivisto dopo l’arrivo della pandemia, e infine rinviata di nuovo alla primavera successiva. E poi di nuovo in autunno. Finalmente, dice Elena Cecchini.
«Sono felice che finalmente ci sia questa gara. Perché l’abbiamo voluta tanto e aspettata altrettanto. Il nostro movimento sta migliorando e sviluppandosi di più anno dopo anno. Abbiamo sempre più gare, per cui questo era un grande obiettivo per noi. Penso che ci meritiamo questa classica oggi».
Tanto che ciò che si percepisce alla partenza è soprattutto emozione. Elisa Longo Borghini trema.
«È sicuramente emozionante essere qui oggi. Un po’ tremo per il freddo e un po’ per l’emozione, per la verità. L’ho sempre pensato realizzabile. Oggi è un bellissimo giorno per il ciclismo, e spero che anche voi possiate godervi lo spettacolo».
C’è tensione, c’è emozione, c’è paura e c’è curiosità al via di Denain. C’è soprattutto attenzione. Marta Cavalli non aveva mai visto un’attenzione del genere.
«Abbiamo avuto a che fare per quattro giorni con giornalisti da tutte le parti, cosa mai successa. A livello mediatico ha un bacino d’utenza enorme che non avevamo mai visto. Quindi tra di noi scaturisce anche un po’ più di tensione per questo punto di vista».
Eppure la corsa è la corsa, e anche la storica emozione si stempera mano a mano che le squadre si susseguono al foglio firme e le cicliste si dispongono in strada, pronte a partire.
Sono solo 115,6 i chilometri in programma, motivo per cui la partenza è prevista addirittura nel primo pomeriggio. Sul bus della Trek, Lizzie Deignan inganna l’attesa leggendo un libro, ma la stagione è stata lunga e arrivata a inizio ottobre la stanchezza fa sentire la sua presenza più che mai, tanto che Lizzie finisce presto per appisolarsi sul libro. Uno sbadiglio, gli occhi chiusi, il sonno che arriva e si prende qualche momento, quando meno ce lo si aspetterebbe. La sua compagna Longo Borghini se ne accorge, la guarda e pensa: oggi vince lei.
Alla partenza della corsa più attesa dell’anno, attesa da più di due anni per i ripetuti rinvii, Deignan è talmente rilassata che si addormenta. Una trentina di chilometri più avanti sarà già da sola.
Non era programmato l’attacco. Voleva soltanto prendere il pavé davanti per evitare guai.
Non era attesa una fuga vincente di 82 chilometri, più di quanto abbiano mai fatto Tom Boonen, Fabian Cancellara o gli altri grandi interpreti della Roubaix in questo millennio.
E non era prevista l’attenzione di fotografi e giornalisti verso le sue mani prive di guanti, che al traguardo sono colorate di sangue. I guanti, Lizzie non li usa mai, e non li ha indossati nemmeno qui. Come attenzione extra ha deciso solo di sfilarsi l’anello nuziale e attaccarlo ad una collanina al collo.
Non era stato pianificato nulla in questa giornata storica, eppure tutto è andato alla perfezione. D’altronde la Storia raramente è prevedibile, si può girarsi indietro e leggerne i segnali a posteriori, ma quando i fatti accadono lo fanno quasi sempre col fragore della sorpresa. Così Lizzie si avvantaggia appena il pavé fa la sua comparsa in gara. E se ne va.
Transita davanti ai bambini che giocano nel fosso a Wandignies con le avversarie poco distanti, che si interrogano se sia il caso di andarle dietro o si domandano che effetti hanno sortito le prime cadute. Se ne va da sola a Orchies, dove rombano i camion sulla vicina autostrada. Pedala in solitaria a Mons-en-Pévèle, dove la pioggia è cominciata a cadere accumulando a bordo strada pozzanghere d’acqua marrone che l’indomani saranno strabordanti piscine in grado di rendere ogni pietra uno scivolo e ogni volto una maschera. Resiste all’inseguimento a Templeuve, tra tifosi belgi che hanno allestito improvvisati salotti all’asciutto nei cassoni dei camion e abitanti locali che, addossati ad alti ziggurat di balle di fieno, urlano a tutte indistintamente: «Allez! Tout va bien!».
È sola sul Carrefour de l’Arbre, dove le lumache sono tornate a prendere possesso degli umidi campi autunnali, finita la stagione del raccolto delle barbabietole da zucchero che ha reso il panorama più omogeneo che mai. E stringe i denti al comando tra Willems e Hem, settore due ovvero penultimo, dove le pozzanghere si sono mischiate con i liquami che colano dal letame.
È uno sport di merda, diceva un video ciclistico di successo.
Oggi Deignan non sarebbe d’accordo, e con lei nessun’altra delle partecipanti.
La pioggia cade leggera sul velodromo André-Pétrieux di Roubaix quando Lizzie Deignan sbuca in pista. È un’immagine che chiunque segua il ciclismo ha visto decine, se non centinaia di volte: l’ultimo vialetto lastricato in città, la doppia curva, il boato della folla.
No, non è vero, è un’immagine che non aveva mai visto nessuno.
Nell’aprile del 1895 gli imprenditori tessili Theodore Vienne e Maurice Perez cominciarono a costruire un velodromo nel parco che divideva i comuni di Croix e Roubaix, lo chiamarono Roubaisien. Per pubblicizzare il nuovo impianto proposero al giornale parigino Le Vélo di organizzare una corsa, con partenza dalla capitale e arrivo al velodromo.
Esordì nel 1896 e oggi, 125 anni più tardi, è il velodromo di Roubaix ad accogliere Lizzie Deignan per il suo rituale di un giro e mezzo. Non più il medesimo velodromo, ma il suo erede, sorto sulle sue ceneri. È una storia che continua: pochi metri più in là, sorge il velodromo regionale coperto Jean Stablinski, quello che due settimane dopo l’arrivo di Lizzie Deignan ha ospitato i campionati del mondo su pista del 2021. Cambiano le architetture, rimane il rituale, il giro di pista.
Una processione ellittica che dopo un secolo e un quarto continua a rendere omaggio a quel velodromo a cui si deve l’idea della Roubaix. Luogo unico e sacro dove il pubblico accede ancora gratuitamente e applaude chiunque irrompa sull’anello di cemento.
Si affacciano una dopo l’altra, sotto una pioggia leggera che si farà diluvio nella notte, e c’è un elemento che riunisce tutte le partecipanti: il sorriso. Dentro quei sorrisi ci sono gioia, stupore e soprattutto orgoglio. Quasi nessuna si accascia subito sul prato, quasi nessuna si precipita immediatamente verso le docce. Tutte vogliono prima abbracciarsi e in ogni abbraccio condividere le emozioni del giorno in cui sono divenute protagoniste della Storia.
Per Deignan l’ingresso in velodromo è stato surreale. Marta Cavalli non riesce a frenare l’emozione e non vede l’ora di riviverla. «Purtroppo ero e sono abbastanza stanca e non me la sono potuta godere a pieno. Probabilmente domani alla televisione me lo riguarderò e potrò dire: io c’ero, ero tra i primi concorrenti che sono entrati nel velodromo».
Audrey Cordon-Ragot è in lacrime. Le atlete e lo staff della NextGen Racing si stringono tutte, tra loro c’è anche Britt Knaven, che completa la Roubaix vent’anni dopo la vittoria di suo padre, Servais, nell’edizione più fangosa di questo millennio.
Teniel Campbell taglia il traguardo fuori tempo massimo mano nella mano con la compagna Jessica Allen. È tentata di salire sulla curva parabolica ma l’asfalto umido la intimorisce un po’. Così si ferma al centro, raggiante. «Ero felicissima. Mi sono divertita così tanto. Ho incrociato le dita e sperato così tante volte di non cadere ma è stato così maledettamente fantastico. Non vedo l’ora che sia l’anno prossimo per rifarla e spero che piova di nuovo, è molto più bella così che con l’asciutto», dice. E ride.
Le condizioni estreme nella corsa che per più di un secolo è stata ritenuta di suo troppo estrema per le cicliste hanno finito per sottolineare il fascino di una gara che, come dice Elisa Longo Borghini «è fatta di caos e cadute; bisogna solo abbracciare il caso e sapere che si sfiderà l’ignoto».
Al suo fianco, ad accompagnarla sul podio, c’è Marianne Vos. Favorita alla partenza ma solo seconda al traguardo, la nederlandese è ugualmente sorridente e consapevole di quanto ha appena vissuto: «non poteva esserci di meglio che la pioggia e il fango, hanno reso questa giornata più epica».
Certo, quella che resta da fare è ancora una lunga strada, sempre che si possa chiamare strada.
Nonostante il peso del suo status, la Roubaix femminile è stata confinata a soli 115,6 chilometri, meno della metà di quanti ne hanno affrontati gli uomini l’indomani.
E non è un caso isolato. Poche settimane dopo l’Inferno del Nord è stato presentato il ritorno del Tour de France femminile, previsto nel luglio del 2022, a 19 anni di distanza dall’ultima edizione completa. Ma sarà solo una settimana di corsa, a fronte delle tre riservate agli uomini.
Le televisioni hanno mostrato soltanto un’ora e mezza di corsa della prima Parigi-Roubaix femminile. Una differenza notevole rispetto alle dirette integrali delle prove maschili, e in questo caso anche un clamoroso buco nell’acqua perché il collegamento ritardato non si è perso soltanto una partenza storica ma pure l’azione che ha deciso la corsa. «È come se nel tennis le dirette delle partite femminili cominciassero dal secondo set», ha commentato la giornalista ed ex-ciclista Kathryn Bertine.
E nonostante l’interesse globale, meno visibilità corrisponde a meno soldi, un problema che appare ben lontano dall’essere risolto. Lo si legge chiaramente nella tabella delle somme spettanti ai vincitori, con i settemila euro di montpremi per la prova femminile che rappresentano un tredicesimo dei novantunomila stanziati per la gara maschile della domenica. Con i suoi 1’535 € Lizzie Deignan ha guadagnato venti volte in meno di Sonny Colbrelli, seppur vincendo la medesima corsa. Persino il sesto classificato Christophe Laporte ha riscosso un premio più sostanzioso.
Eppure il destino ha voluto che la corsa femminile andasse a una ciclista della Trek, la squadra che sin da inizio stagione ha deciso di integrare le differenze, pareggiando la somma dei premi tra gare maschili e femminili. Una bella beffa della Storia, nel giorno in cui si è fatta concreta.
Ci sarebbero tanti elementi in più per definire storica la Roubaix del 2021. Una corsa fissata e rimandata per tre volte e infine disputata in autunno, un’altra prima volta.
Alla giornata memorabile del sabato è seguita una notte di acqua a catinelle e una domenica ancor più infangata. La Roubaix non si correva in condizioni simili dal 2002, e già questo è un fatto eclatante. Così come ancor più sorprendente è assistere a un podio occupato per intero da corridori all’esordio nella classica del pavé: una gara in cui contano fortuna ed esperienza, che non premiava un esordiente dal 1953, di colpo si è concessa ai debuttanti, per un intero weekend.
Usciti tutti dal fango, dal vincitore Sonny Colbrelli, che si rotola inzaccherato per celebrare il risultato più importante di una carriera, sino a Tom Paquot, ventunenne belga della Bingoal che la sua prima Roubaix l’ha conclusa quaranta minuti più tardi. Fuori tempo massimo come altri nove corridori, tra cui il vincitore del 2014 Niki Terpstra, ma ultimo corridore a varcare il cancello del velodromo. Coperto di melma, come Colbrelli, e come lui in lacrime. «Nei cinque chilometri conclusivi ho pianto di più che negli ultimi due anni della mia vita», ha detto Paquot all’arrivo, godendosi un ultimo giro sotto il sole, a differenza di tutti coloro che lo hanno preceduto.
La storia distribuisce i suoi privilegi in maniera imprevedibile. A qualcuno un’accoglienza sotto il sole, a qualcuno un fosso in cui giocare, a qualcuno un trofeo di pietra da esibire in salotto, ad altri soltanto una doccia calda.
Per raggiungere le docce più famose del ciclismo bisogna uscire dal velodromo, attraversare la strada e infilarsi in un anonimo edificio di cemento grigio. Un percorso a cui quasi tutti i ciclisti ormai rinunciano, preferendo i comfort dei bus delle squadre.
Al termine della corsa femminile, però, nessuna ha voluto rinunciare all’appuntamento, che rappresenta il completamento della lunga e strana avventura chiamata Parigi-Roubaix.
Sono trascorsi 125 dall’inizio di questa storia, e per 125 anni ci sono stati solo uomini tra i vincitori, tra i direttori sportivi, tra i dirigenti delle squadre, tra gli organizzatori, tra chi ha governato il ciclismo e chi tutt’ora lo governa. Fino al 2 ottobre 2021.
Per ogni nome entrato nell’albo d’oro della corsa c’è una placchetta di metallo sulla parete di cemento di una doccia. Ora su una di quelle docce c’è anche il nome di donna, Lizzie Deignan, e non ci saranno acqua o fango in grado di cancellarlo. In attesa del prossimo nome, della prossima doccia, della prossima storia.