Dentro a MET

Lo sapevate che alcuni dei casci da ciclismo più sicuri e performanti, tra cui quello del campionissimo Tadej Pogačar, vengono progettati e testati a Talamona, in Valtellina? Abbiamo trascorso una giornata a scorrazzare per i corridoi, gli uffici e i laboratori di MET per scoprire tutta l'umanità che c'è dietro alla professionalità di chi ci lavora.

Interviste e voce: Claudio Ruatti
Sound design: Brand&Soda


Mattia De Marchi, un corridore diverso

La prima puntata della stagione 2023 è una chiacchierata ruvida e spettinata con Mattia De Marchi, corridore gravel e ultracyclist. Dal caldo e dal caos di un garage di Feltre, un viaggio a parole che ci porta in continenti e strade diverse, tra gioie, crisi e sogni.
L'ideale per rimettersi in viaggio.

Intervista e voce: Claudio Ruatti
Sound design: Brand&Soda


DS Gaspa

La stagione del ciclismo su strada è ormai conclusa e per tutti sono stati mesi di gioie, di delusioni, di emozioni. Lo sono stati per i tifosi, per i corridori, ma anche per chi corridore non è più, e in questo 2022 ha conosciuto un nuovo esordio.
Per la nuova puntata di Parole Alvento siamo andati in Canton Ticino, a trovare Enrico Gasparotto, che ha appena portato a termine la sua prima stagione da direttore sportivo. Una lunga chiacchierata che parla di un Giro d’Italia vinto dall’ammiraglia ma anche e soprattutto delle relazioni umane che si instaurano in una squadra, e di come sia fondamentale coltivarle e tutelarle.

Intervista e voce: Filippo Cauz
Sound design: Brand&Soda


Silk Road Mountain Race

Con i suoi 1850 chilometri e 32.000 metri di dislivello, la Silk Road Mountain Race è verosimilmente la gara di adventure cycling più dura al mondo. E forse definirlo ciclismo è persino sbagliato, perché tra le brulle montagne del Kirghizistan capita che la bicicletta diventi persino un impiccio, un’ingombrante compagna di viaggio da spingere a piedi, su e giù per le pietraie, sperando di trovare presto il terreno per rimontare in sella. Un viaggio duro e selettivo ma non per questo meno spettacolare e affascinante, che lo si affronti in corsa o fuori. Federico Damiani e Claudio Ruatti si sono incontrati in Kirghizistan, uno reduce da una travagliata gara, l’altro in viaggio in bicicletta. Complice una bottiglia di prosecco, hanno condiviso con noi il loro racconto.

Voci: Claudio Ruatti, Federico Damiani
Sound design: Brand&Soda


Colombia es Pasion!

C’è chi ha lavorato nei campi, chi ha venduto biglietti della lotteria e chi si è svegliato all’alba per fare il giro dei mercati. C’è chi è cresciuto tra le bombe e con il rombo degli elicotteri militari e chi è stato costretto sin dall’infanzia a percorrere chilometri ogni giorno, su strade dissestate e pericolose.
La storia del ciclismo colombiano è una storia di fatica e di dolore, ma anche di coraggio e di tenacia. È la storia di una generazione di ciclisti che è riuscita a partire alla conquista del mondo dello sport, cambiando per sempre le vicende del proprio Paese. La raccontiamo insieme a Matt Rendell, autore dell’ultima uscita della collana Pagine Alvento, Colombia es pasión!

Voci: Filippo Cauz, Gino Cervi
Ospite: Matt Rendell
Sound design: Brand&Soda


Il fuciliere di Goodwood

È passata alla storia con un nome noto ad ogni appassionato, “la fucilata di Goodwood”. Ma dietro alla vittoria di Beppe Saronni al Campionato del Mondo del 1982 c’è una lunga storia fatta di sconfitte brucianti, di rivalità ricucite, di grandi maestri, di compagni pazienti, di piani riusciti. A 40 anni di distanza, e in occasione della settimana in cui si assegnano le nuove maglie iridate, torniamo a vivere quella corsa attraverso il racconto di Marco Pastonesi, intervallato dai ricordi in prima persona del protagonista iridato.

Testo e interpretazione: Marco Pastonesi
Ospite: Beppe Saronni
Intervista: Filippo Cauz
Sound design: Brand&Soda

TESTO INTEGRALE DELLA PUNTATA

La fucilata scatta a 300 metri dall’arrivo. Le prime quindici pedalate in piedi sulla bicicletta. La fucilata sibila a 200 metri dall’arrivo. Quattro pedalate seduto in punta di sella. La fucilata echeggia a 150 metri dall’arrivo. Nel vuoto degli avversari, nel pieno degli spettatori. La fucilata va a segno già a 50 metri dall’arrivo. Le mani in alto, le braccia al cielo, i capelli al vento, il sorriso alla storia. La fucilata di domenica 5 settembre 1982. La fucilata dei Mondiali di ciclismo professionisti su strada. La fucilata mondiale di Beppe Saronni. La fucilata di Goodwood.

Eppure la fucilata di Goodwood non è quella di un giorno e non dura solo un giorno. Comincia più di un anno prima e non finirà mai. Comincia il giorno dopo i Mondiali di Praga, domenica 30 agosto 1981, tutto in un solo giorno (donne, dilettanti, cronosquadre dilettanti, professionisti), quando la spedizione italiana torna in patria. Il volo sull’aeroporto della Malpensa. Alfredo Martini, il commissario tecnico degli azzurri, deve recuperare la sua macchina, alla Volkswagen di San Vittore Olona. Con Martini c’è (ci sarà sempre) Franco Vita, autista e molto altro: da meccanico a collaboratore, custode, confidente, testimone, in una sola parola amico. Con senso di rispetto e spirito di fedeltà, dal primo momento in cui si sono legati all’ultimo istante in cui si sarebbero lasciati. Ma prima di infilarsi in autostrada, per una vecchia sana abitudine, i giornali. Vita accosta, scende, acquista. La Gazzetta dello Sport, il Corriere dello Sport, Stadio, Tuttosport. I quattro – era un primato, quello italiano – quotidiani sportivi. Mentre Vita riprende il volante, Martini considera, subito, le prime pagine. E riconsidera la foto dell’arrivo, dello sprint, della volata. Primo Freddy Maertens, il belga, secondo Giuseppe Saronni, l’azzurro, terzo Bernard Hinault, il francese. Martini nota come Saronni tenga le mani alte sul manubrio, non basse. Alte da scalatore, non basse da velocista. Alte offrendo più resistenza all’aria, e al tempo, e alla storia, e non basse sfuggendo, sottraendosi, incorporandosi. “Una pugnalata alla schiena – sospira Franco Vita, ripensando alla muta e sofferta espressione di Martini – gli sarebbe stata meno dolorosa”.

Goodwood. Letteralmente: il legno buono, il bosco buono. Goodwood è una località, la residenza di campagna per i duchi di Richmond. Qui, nel 1802, un ippodromo. Qui, dal 1901, un campo da golf. Qui, durante la Seconda guerra mondiale, un aeroporto. E qui, nel 1948, intorno all’aeroporto, un circuito automobilistico e motociclistico. Qui, a un centinaio di chilometri e un paio d’ore in macchina da Londra, la sede dei Mondiali di ciclismo del 1982. Dalla loro istituzione, a Copenaghen in Danimarca nel 1921, solo una volta i Mondiali di ciclismo sono stati ospitati nel Regno Unito: a Leicester, nel 1970 (e a Leicester, anche in questo 1982, si disputa la rassegna iridata su pista). Così questa è la seconda volta, in una sessantina d’anni, che il Regno Unito ospita i Mondiali.

Il circuito ciclistico di Goodwood è lungo una quindicina di chilometri, in parte ricavato nel circuito automobilistico e motociclistico, e ha l’altimetria di un’onda, con una salitella prima e dopo l’arrivo. In 3 chilometri si sale da quota 41 a quota 161 metri. Nei primi millecinquecento metri la pendenza è dolce: una media del 3 percento, con punte che non sfiorano neanche il 4 percento. Nella seconda metà, altri millecinquecento metri, la pendenza si fa più dura: una media del 6 percento, con punte che non superano il 7 percento. E qui, dopo una curva a destra e un’altra a sinistra, il traguardo. Poi si rimane in quota, con un falsopiano, finché la strada scende. Quella salitella è la chiave del percorso. Lo sa Martini, lo sanno tutti. Gli esperti definiscono quella salitella come “pedalabile”, termine indefinito, generico, vago. Una salitella da fare con il rapportone, quello da pianura. Solo così si può fare la differenza. Interpretando la salitella come se fosse un vialone piatto. Ingannandosi. Perché, sia chiaro, questo non è un muro, non è uno strappo, non è neppure uno zampellotto. E’ solo una salitella. E’ materia da velocisti, da passisti veloci, da scattisti, da finisseur. E’ materia per esplosivi e resistenti, resistenti nell’esplosività, esplosivi nella resistenza. E’ materia da Saronni. Gli inglesi prevedono un “uphill sprint”: letteralmente, una volata su per la collina. Comunque – data la distanza: 18 giri di un circuito lungo una quindicina di km, totale più di 275 km – questa corsa sarà sempre materia da fondisti.

La squadra italiana è ufficializzata dopo la Coppa Placci. I nostri avversari la chiamano “la Squadra”. Sul suo diario, Martini ha già scritto la storia. Così.

1 Gavazzi Pierino Atala

2 Amadori Marino Famcucine

3 Argentin Moreno Sammontana

4 Baronchelli G. Battista Bianchi-P.

5 Bombini Emanuele (R) Hoonved-B.

6 Ceruti Roberto Del Tongo

7 Chinetti Alfredo Inoxpran

8 Contini Silvano Bianchi-P.

9 Leali Bruno Inoxpran

10 Masciarelli Palmiro Famcucine

11 Moser Francesco Famcucine

12 Petito Giuseppe (R) Alfalum

13 Saronni Giuseppe Del Tongo

14 Torelli Claudio Famcucine

E poi il personale: meccanici, massaggiatori, medico e, per la prima vota, il responsabile del settore alimentare. Si chiama Sergio Chiesa e anche lui sarà prezioso per creare armonia, equilibrio, eleganza, rispetto. Dalla tavola alla bici, dal riposo all’agonismo, dalla cucina al ciclismo, non è poi così grande la distanza.

La Squadra è costruita su Moser e Saronni con Gavazzi possibile terza punta. Da campione italiano merita rispetto. Moser è il più antico dei corridori moderni, o forse il più moderno dei corridori antichi, e sarà anche, fra qualche anno, pur sempre da corridore contadino, il primo corridore scientifico e tecnologico. Ha, nelle sue caratteristiche, un vantaggio che è anche uno svantaggio: per vincere, deve arrivare da solo. Gli riesce a crono, ovviamente, ma anche in linea. E le vittorie per distacco, in solitudine, sono quelle più gloriose. E’ in forma, ma non in formissima. Ed è al suo nono Mondiale: vanta una vittoria (nel 1977 a San Cristobal, in Venezuela) e due secondi posti (a Ostuni nel 1976 e al Nurburgring nel 1978). E’ un gigante, un monumento, un campione. Lo chiamano “lo Sceriffo”: detta legge.

Saronni, lo scrive Mario Fossati (“Il Giorno” del 4 giugno 1979), “è una sintesi del corridore ciclista. Possiede uno scatto da velocista e un corredo tecnico da pistaiolo. Si inciglia quando occorre nelle ruote del plotone e sempre quando occorre se la fila con un’esplosione di americanista”. E ancora: “L’intelligenza di Saronni non è unicamente funzionale. Saronni non è cresciuto in fretta. E’ semplicemente milanese ed essere milanese o milanese dell’hinterland è una soda esperienza”. Aggiunge: “Fuori dalla corsa il suo cervello fila”. E chiosa: “Come Moser, Saronni pensa a voce alta”. Ragazzo-prodigio, sfrontato il giusto, non accetta sudditanze. Professionista a 19 anni, sembra già appartenere al futuro: l’origine metropolitana, la simbiosi (e l’osmosi) fra pista e strada, la guida di uomini geniali come Ernesto Colnago artista-industriale della bicicletta e collaudati come Carlo Chiappano laureato all’università della strada prima da corridore poi da direttore sportivo. Beppe è già al suo sesto Mondiale: il primo, quello vinto da Moser, lo ha corso da “stagista”, e ha chiuso nono, poi quarto, ottavo, ritirato e secondo. Una vocazione per i piani alti.

Il circuito di Goodwood si adatta più a Saronni che a Moser. Martini lo sa. E lo sa anche Moser. Ma Martini – come avrebbe confidato in una puntata di “Sfide” per Rai3: “Non erano due che andavano a prendere il caffè insieme” – fa grande opera di diplomazia. Tre gregari a Franz: Amadori, Masciarelli e Torelli. Uno solo a Beppe: Ceruti. Alla ricerca dell’equilibrio fra Moser e Saronni, Martini ha previsto anche un meccanico per Francesco e uno per Beppe, un massaggiatore per Francesco e uno per Beppe. Le due riserve, Bombini e Petito, vengono ufficializzate il 30 agosto. Martini è un maestro anche di buon senso: sono giovani, non vanno caricati di responsabilità e bruciati per inesperienza, avranno altre occasioni con la maglia azzurra. Un po’ di delusione, ovvio. Ma proteste, zero.

Moser e Saronni costituiscono l’ultimo grande dualismo del ciclismo. Girardengo e Binda, Binda e Guerra, Bartali e Coppi. Ma anche Anquetil e Poulidor, Gimondi e Merckx, Merckx e Ocana. Più diversi di così, Moser e Saronni, difficile immaginarli. Trentino, Moser, e lombardo (anche se nato in Piemonte, a Novara), Saronni. Obbligato a una corsa dispendiosa e generosa, Moser, e costretto a una corsa calibrata e astuta, Saronni. Più forte e resistente, Moser, più veloce ed esplosivo, Saronni. Più vecchio, Moser, sei anni (1951 contro 1957) valgono quasi una generazione. E a questo punto 31 anni, Moser, e neppure 25 Saronni. Differenze nate subito. Di una civiltà contadina, meleti e vigneti, Moser, e di una industriale, calzaturifici, Saronni. Comunque appartenenti a due famiglie innamorate del ciclismo. Una rivalità vera, quella fra Moser e Saronni: autentica, genuina, istintiva, rusticana. Una rivalità che contrappone il tifo, separa gli spettatori, divide perfino giornalisti e fotografi.

Sul suo diario Martini precisa il “Programma”.

Partenza per l’Inghilterra

Partenza da Milano giorno 31 ore 9.35 volo AZ 458 dalla Malpensa arrivo a Londra

Partenza pullman per Goodwood

Giovedì 2 settembre

Preparazione con alcuni giri del circuito

Decidere per i rapporti

Venerdì 3 settembre

Preparazione con alcuni giri del circuito

Domenica 5 settembre

Goodwood – campionato del mondo

Hotel: Avisford Park Hotel Ltd

Walberton Arundel, West Sussex

Tel. Yapton 551215 STD Code 0243

Prima di partire per l’Inghilterra, Saronni ascolta un richiamo del cuore. E va a trovare Carlo Chiappano. E’ il suo direttore sportivo, anzi, era il suo direttore sportivo. Morto in un incidente stradale, il 7 luglio 1982, dalle parti di Casei Gerola. Sarebbe passato da Colnago, a Cambiago, poi sarebbe andato da Saronni, nel Varesotto, invece quel tragico incontro con il destino. Saronni: “Un colpo terribile. Il mio maestro, anche un amico di famiglia. Un giorno, senza dire niente a nessuno, vado alla sua tomba. E lì, davanti a lui, sento di poter vincere il Mondiale, sento di vincerlo, per me, per lui, per noi”. Di questa visita si saprà solo molto tempo dopo.

Nell’Avisford Park Hotel, Saronni è in camera con Ceruti, Moser con Masciarelli. Due gregari – Ceruti e Masciarelli – per custodire segreti, alleggerire tensioni, individuare strategie. Venerdì sera, a 36 ore dal pronti-via, nel segreto della loro camera, Moser e Masciarelli si confrontano. Se aiutiamo Saronni, lo sanno e se lo dicono, lui vince e noi perdiamo lo sponsor. Famcucine contro Del Tongo: guerra, duello, derby, sfida concorrenziale nell’ambito delle cucine componibili. Ma se non lo aiutiamo, lo sanno e se lo dicono, lui non vince e noi facciamo una figuraccia. Tutti quanti: Moser e Masciarelli, e tutti gli azzurri, Martini e i suoi collaboratori, il ciclismo italiano, altro che le notti mondiali del calcio. Masciarelli ricorda ancora quando alla porta della camera bussa Di Rocco. Non è momento da grandi giri di parole. Di Rocco, che per Martini e l’Italia si prodiga anche lui in un’opera diplomatica, domanda quali intenzioni abbiano. I due gli rispondono, all’unisono: se noi aiutiamo Saronni, lui vince, e se Saronni vince, noi perdiamo lo sponsor. Di Rocco li rassicura, qualcosa si farà, lui ha buone conoscenze, come Giovanni Giunco, mecenate del basket a Roseto degli Abruzzi, a Giulianova dirige la Gis Gelati, chissà, indagherà, chiederà, proverà. Forse per patriottismo, o forse tranquillizzato dalla mediazione di Di Rocco, Moser decide di aiutare Saronni. E Masciarelli, uomo-squadra, farà da collegamento, da interprete, da trait d’union. Perché i due, quei due, Moser e Saronni, continuano a ignorarsi, a evitarsi, a non parlarsi. Al momento opportuno, Masciarelli prende da parte Saronni e gli dice: se vuoi vincere il Mondiale, devi rischiare di perderlo. Gli ricorda, come se ce ne fosse bisogno, quello che è successo a Praga, e lo ammonisce: non correre dietro a tutti, non sprecare una pedalata. Gli impone la strategia: non ti muovere fino agli ultimi due giri, poi vedrai che la squadra ti aiuterà in tutto e per tutto. E Saronni si convince. Sapere di non avere Moser contro è un vantaggio, sapere di averlo con è un doppio vantaggio.

Gli avversari, e a indicarli non è soltanto Martini, si chiamano Bernard Hinault, francese, Greg LeMond, statunitense, e Sean Kelly, irlandese. Poi gli irlandesi. Fa meno paura il campione uscente, Freddy Martens, belga. Maertens è stato il nostro castigatore: mondiale nel 1976, su Moser, e mondiale nel 1981, su Saronni. Maertens si aggrega alla squadra dei belgi a Mondiali in corso, un paio di giorni prima della prova iridata, si dichiara in forma, ma non lo è, i compagni lo accettano, ma non lo accolgono.

La mattina del Mondiale, a colazione, anche lo chef-gastronomo-cuoco-albergatore Chiesa avverte la pressione e concede qualcosa alla tradizione invocata da Martini: prepara riso in bianco, filetto di vitello, spinaci con olio extravergine e parmigiano-reggiano grattugiato, caffè. Tuti già concentrati sulla volata perfetta. Un progetto, un obiettivo, un dogma. Tutti gli azzurri sanno che è indispensabile la volata perfetta.

Intanto Martini ha radiografato il circuito e organizzato la corsa. Tre i box: uno all’arrivo, gli altri due lungo il percorso, ma solo all’arrivo i corridori possono prendere borracce. Tre i box, dunque, tre gli uomini a presidiare quei punti fissi come sentinelle e come spie. Siccome non esistono telefonini né auricolari, Martini s’inventa un nazionalpopolare telefono senza fili: altri tre uomini (lungo il percorso per studiare le facce, captare gli sguardi, riferire impressioni in un collegamento con i “walkie-talkie”, le radio ricetrasmittenti. E non è tutto: ogni volta che s’imbocca il circuito automobilistico, Marino Vigna accosta l’ammiraglia, Martini ne scende, osserva personalmente gli azzurri e il gruppo, sente l’atmosfera, annusa l’aria, forse interroga – com’è sua abitudine – il tempo, scarpina per due-trecento metri, quindi si fa riprendere da Vigna al nuovo passaggio. Non è solo con la corsa, Martini, ma nella corsa, dentro la corsa. La vive, la respira e – a suo modo – la corre. A proposito: la delegazione italiana ha già anche ottenuto una piccola ma significativa e pratica vittoria: le auto al seguito della corsa tengono la destra, come in Europa, e non la sinistra, come nel Regno Unito.

Ed eccoci. Domenica 5 settembre. Cielo inglese. Tempo variabile. Sole, pioggia, nuvole, vento, caldo, umido, fresco. Ventimila, forse trentamila spettatori lungo il percorso. Camper, roulotte, auto. La zona della partenza. I corridori. Centoquarantuno iscritti, centotrentasei partenti, per venti nazioni. Saronni si è spillato il dorsale 96. Lo “starter” è Jimmy Kain, ha 98 anni, li porta con leggerezza, ed è stato un pioniere del ciclismo in Inghilterra. Ore 10. Pronti. Via. Il primo giro è di studio. Al secondo giro va in fuga, da solo, Bernard Vallet. Ventotto anni, francese, guadagna tempo e spazio, centinaia di metri e manciate di minuti, saranno al massimo 6’15” al sesto giro, quando Hinault accosta, si ferma, scende dalla bici, sale su un’altra bici e rientra in gruppo. Chissà se, forse scosso proprio da questa sostituzione, il gruppo alza la velocità e si avvicina al fuggitivo.

Gli azzurri controllano la corsa. C’è sempre qualcuno in testa al gruppo e c’è sempre qualcuno vicino a Moser e a Saronni. Moser e Saronni, finché possono, devono salvare la gamba, risparmiare le energie, conservare le forze. La corsa è economia, e anche ragioneria, non solo agonismo. La corsa inanella giri, trattiene emozioni, misura sentimenti. La cronaca è minima. E l’attesa s’ingigantisce. Lungo il percorso ci sono anche i nostri dilettanti e le nostre donne diventati spettatori.

All’ottavo giro si ferma Freddy Maertens. Vuoto, si è spento. Il re è nudo. Intanto, davanti, ci prova Tommy Prim. Ventisette anni, svedese, abita nel Bergamasco, corre per la Bianchi, è arrivato quarto al Giro d’Italia del 1980, secondo a quelli del 1981 e del 1982. Dietro, si ferma Hinault, ma stavolta quando scende dalla bici, non risale, si ferma e abbandona, abbandona e spiega che non è giornata. E’ l’undicesimo dei 18 giri. Martini tira un sospiro di sollievo: un pericolo in meno. Intanto, davanti, Vallet è stato al vento per 140 chilometri, e adesso il vento lo divide con Prim, un minuto sul gruppo. Hinault, il vento, un vento gelido e pesante, ce l’avrà invece dentro, senza sapere neanche il perché, certe giornate sono storte e basta. Vallet si esaurisce e al dodicesimo giro Prim, rimasto da solo, viene catturato e si ritira. Al quattordicesimo giro allunga Serge Demierre, svizzero di Ginevra. A quattro giri e una sessantina di chilometri dall’arrivo, la corsa entra nel vivo. I gregarioni italiani presidiano la testa del gruppo. Si ferma il primo degli azzurri: Leali. Ci sta. Ha dato. A tre giri e più o meno 44 chilometri dall’arrivo, in discesa allunga Moser: il primo dei favoriti a muoversi. “Lo Sceriffo” fa la prima selezione. L’andatura regolare ha mascherato la stanchezza e prolungato l’autonomia. Ma adesso la corsa esplode, il gruppo si allunga, si ricompone, finché si spezza, si frattura, si frantuma. Chi c’è, c’è. Fra chi non c’è, l’olandese Gerrie Knetemann, che proprio a Moser ha scippato il Mondiale del 1978 disputato in Germania lungo un altro circuito automobilistico e motociclistico, il Nurburgring, ma non ci sono neanche Argentin e Contini. Gli altri azzurri resistono. Ceruti è sempre l’ombra di Saronni, scivolato in coda al plotone. I due vengono affiancati dall’ammiraglia. Martini non si rivolge mai direttamente a Saronni, forse per non disturbarlo, forse per non deconcentrarlo, ma passa sempre attraverso Ceruti. Come sta?, gli domanda Martini. Bene, lo rassicura Ceruti. Perché siete in coda?, insiste Martini. E senza aspettare la mia risposta, aggiunge: manca poco. Ceruti e Saronni rimontano.

A due giri e una trentina di chilometri dall’arrivo, il gioco si fa duro. I francesi sono stati ghigliottinati del loro capitano Hinault, i belgi orfani di Maertens sembrano divisi dalle rivalità campanilistiche, gli olandesi appaiono come i più convinti e organizzati, si temono avversari incomodi e scomodi come gli spagnoli e gli statunitensi. Tentano la sorte gli arancioni d’Olanda Theo De Rooy, Hennie Kuiper e il più temuto di tutti, Jan Raas. Se gli olandesi attaccano, gli italiani difendono. Un catenaccio ciclistico. Davanti, Chinetti si prodiga. La vita del gregario può assomigliare alla vita del mediano. Un lavoro di spola e di servizio, oscuro e sporco. Nelle parole di Gian Paolo Ormezzano: “Il ciclismo è la fatica più sporca addosso alla gente più pulita”.

A un giro e una quindicina di chilometri dall’arrivo, un uomo solo al comando, ma di poco e per poco, lo spagnolo Marino Lejarreta, basco, soprannominato “il giunco di Bérriz”. Ma il gruppo tiene Lejarreta, come si dice, a bagnomaria: lo vede, lo controlla, lo lascia cuocere. Stavolta gli azzurri sono fratelli d’Italia. Masciarelli ha promesso che negli ultimi due giri la Nazionale sarebbe stata intorno, accanto, unita per Saronni. Così è. E così sarà.

Saronni ha resistito alla promessa di non sprecare energie, ma adesso non resiste alla tentazione di provarsi. E sulla salitella salta sui pedali e si specchia. Uno-due, uno-due, uno-due. La gamba c’è. In quelle tre pedalate sente il motore rombare, la bici schizzare, gli avversari trasecolare. Si ferma. Basta così. C’è.

L’ultimo giro è ancora attesa. Più snervante, più spasmodica. A 2 chilometri dall’arrivo Saronni è, più o meno, da solo. Fino a questo punto Moser e compagni lo hanno tenuto al coperto. Ma adesso, concluso il lavoro, all’andatura che sale, al ritmo che si impenna, agli scatti che si moltiplicano, gli azzurri si sfilano.

Ai piedi della salitella scatta ancora Lejarreta. Irriducibile e orgoglioso come un basco. Guadagna qualche metro. Chinetti, per istinto, ormai per abitudine, si alza sui pedali. Ma ha le gambe dure e si fa da parte. Adesso il gruppo, davanti, è frazionato. Per scattare è troppo presto. Saronni decide di continuare con il suo passo. E con il suo passo, riprende e salta chi lo precede. L’ultimo, da solo, davanti, è l’americano Boyer. E’ scattato a ottocento metri dall’arrivo, forse meno. Ha ancora una cinquantina di metri di vantaggio. Ma la sua azione si appesantisce, la sua bici oscilla, e lui s’ingobbisce. Dietro c’è l’olandese Johan Van der Velde, poi anche LeMond. E’ a questo punto che la corsa di Saronni non è più di attesa. E’ qui che comincia la sua volata perfetta.

La fucilata scatta a 300 metri dall’arrivo. Le prime quindici pedalate in piedi sulla bicicletta. La fucilata sibila a 200 metri dall’arrivo. Quattro pedalate seduto in punta di sella. La fucilata echeggia a 150 metri dall’arrivo. Nel vuoto degli avversari, nel pieno degli spettatori. La fucilata va a segno già a 50 metri dall’arrivo. Le mani in alto, le braccia al cielo, i capelli al vento, il sorriso alla storia. La fucilata di Goodwood.

Adriano De Zan, in diretta tv (Rai), emula quello che Nando Martellini ha fatto per gli azzurri per la terza volta mondiali nel calcio, ma personalizzandolo: “Saronni campione del mondo! Saronni campione del mondo! Saronni campione del mondo!”.

Primo, Saronni: 6h, 42’22”, a 41,022 km/h. Secondo, a 5”, LeMond. Terzo, a 7”, Kelly. Con lo stesso distacco seguono l’olandese Zoetemelk, Lejarreta, il belga Pollentier, lo spagnolo Fernandez, il tedesco Thaler. Nono è Gavazzi. Decimo Boyer. Moser è ventiseiesimo a 23”. Masciarelli e Ceruti arrivano insieme, trentaseiesimo e trentasettesimo a 1’39”. Argentin è quarantasettesino a 6’. L’ultimo è l’australiano Shane Sutton, a 20’22”. Cinquantacinque arrivati su centotrentasei partiti.

A chi andrebbero i diritti d’autore dell’espressione “la fucilata di Goodwood”? A Fulvio Astori. E’ lui, sul “Corriere della Sera”, il primo a consegnare la fucilata alla storia: “Alla destra dei due, come una fucilata, scatta Saronni con un rapportone irresistibile. Sembra un sasso lanciato da una fionda”. Martini, nel suo libro “Un secolo di ciclismo”, è definitivo: “Uno sprint come quello che fece Saronni, sulla rampa di Goodwood, non l’ho mai visto fare da nessuno”. E ancora: “Quella progressione negli ultimi 200 metri fu sorprendente, credo che sia uno dei gesti atletici più belli nella storia del ciclismo”.

E Saronni? Saronni ha il dono della leggerezza. Per sdrammatizzare, racconta come, dopo il traguardo, esca dolorosamente dallo stato di grazia per colpa di un terribile mal di piedi. Si è stretto i piedi nelle scarpe e le scarpe e nelle gabbiette dei pedali per cercare la massima aderenza e non disperdere energie. Ma stretti così tanto, da non far quasi circolare più il sangue. Così slaccia i cinghietti, estrae le scarpe dalle gabbiette, mette i piedi a terra. Intanto viene circondato dal servizio d’ordine, quello dei ‘policemen’, i poliziotti inglesi. Sei o sette energumeni, grandi e grossi. Lui piccolo, e ancora contratto nello sforzo, rannicchiato nella volata. Loro alti due metri. Lo proteggono, lo custodiscono, gli fanno ombra. Se Saronni alza lo sguardo, vede un pezzo di cielo. Se guarda in basso, vede le loro scarpe, sono scarponi neri, lunghi come pinne, numero – minimo – 50. Insieme camminano verso il traguardo, il podio, il palco. La gente si accalca, si addensa, spinge. I poliziotti si stringono e stringono Saronni. Finché uno di loro, involontariamente, con quel suo scarpone nero e quel suo peso da rugbista gli pesta il piede, quello destro, proprio quello che più gli duole. Saronni urla. La gente forse pensa che sia un urlo di felicità o di liberazione. E’ invece un urlo di dolore. Istintivamente, Saronni si toglie tutte e due le scarpe e rimane con i calzini bianchi. E sul podio iridato sarà immortalato così.


People from BAM! 2022

È stata l’estate del boom per il bikepacking. Ciclisti di tutti i livelli hanno scelto di andare in vacanza in bicicletta. Chi super tecnico, con obiettivi ambiziosi e sfide impegnative, chi per provare l’ebbrezza una volta nella vita di sentirsi libero, con due borse attaccate ad un telaio e il minimo indispensabile. A tre mesi dall’edizione del 2022 del BAM!, il festival di riferimento in Europa per i cicloviaggiatori, vi raccontiamo questo evento con le voci in presa diretta, in modo che lo possiate mettere in agenda fin d’ora per l’edizione 2023.

Intervista: Claudio Ruatti e Davide Marta
Ospiti: Augusto Baldoni, Andrea Benesso, Michele Boschetti, Piergiorgio Catalano, Federico Damiani, Jacopo Lahbi, Giulio Mancini, Mattia De Marchi e tanti, tanti altri.
Sound design: Brand&Soda


FLANDRIEN CHALLENGE, SFIDA TOTALE

Prendete tre amici, appassionati di ciclismo, dategli un furgone nero, anzi, Nerone! Macinate 1.200 chilometri per raggiungere con brio le Fiandre, il tempio del ciclismo, e condite il tutto con delle barzellette anni ’80, qualche puzzetta e un sacco di risate. Aprite uno Strava fresco fresco e preparatevi a fare il pieno di muri… Ops, segmenti.
Annaffiate il tutto con dell’ottima blanche e ovviamente patatine fritte a volontà. Questa è la ricetta per la felicità, questa è The Flandrien Challenge…
Amigo, i campioni sono così!

Intervista: Claudio Ruatti
Ospiti: Davide Caccia, Stefano Francescutti, Matteo Serone
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IL TOUR A CASA ZILIOLI

Italo Zilioli è stato una delle figure più intriganti, misteriose e persino divertenti del ciclismo a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, gli anni del passaggio dall’epoca eroica alla contemporaneità, tra Coppi e Merckx. Lo scorso luglio siamo andati a trovarlo per farci raccontare la sua storia, dagli esordi in bicicletta alla forte amicizia che ancora lo lega ad Eddy Merckx. Una chiacchierata a 360°, nel salotto di casa sua, prima di accendere la televisione e guardare assieme la tappa dell’Alpe d’Huez (di cui potete leggere sul numero 22 di Alvento).

Intervista: Filippo Cauz e Gino Cervi
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Quando Nibali andò all'inferno

Il cielo è pioggia, la strada è un sentiero, i corridori procedono in fila indiana. E’ una processione dolorosa.
Grande pubblico, due ali di folla che accompagnano i corridori, il popolo del ciclismo incoraggia tutti, dal primo all’ultimo, soprattutto gli ultimi.

Nella sporca dozzina di corridori in testa alla corsa, infangati, c’è anche la maglia gialla del leader della classifica generale. E’ Vincenzo Nibali.
Vincenzo stringe i denti, assottiglia le labbra, affila il naso, riduce gli occhi a due fessure. E allunga. Mancano 10 chilometri al traguardo. Ora, si dice, o mai più.

E’ il 9 luglio 2014. E’ il Tour de France. Ed è la quinta tappa: da Ypres ad Arenberg, in programma 155,5 chilometri con nove tratti di pavè, ma due tratti – quelli di Orchies e Mons-en-Pévèle – vengono subito condonati per le proibitive condizioni del tempo e della strada, è una giornata invernale in piena estate, e i chilometri sono d’autorità ridotti a 152.

Al ritrovo di partenza, a Ypres, in Belgio, e in Belgio il cielo sembra sempre più basso che altrove, bandiere gialle con il leone delle Fiandre che sventolano fra gli ombrelli, davanti alla Lakenhalle, il mercato dei tessuti, capolavoro dell’architettura gotica. L’atmosfera è tesa: quella di oggi è la temutissima tappa del pavé, una parte del percorso comprende le pietre della Parigi-Roubaix, “l’inferno del Nord”. In una giornata asciutta, questa corsa è polvere; in una giornata bagnata, è fango; in una giornata di ciclismo, è – sempre e comunque – guerra. Cento anni prima, proprio qui, si combatteva la Grande Guerra: il dipartimento del Nord era stato il teatro di stragi immani sul fronte franco-tedesco, e la Parigi-Roubaix veniva considerata il suo equivalente ciclistico, una lotta per la sopravvivenza, da cui bisognava sentirsi fortunati a uscirne illesi. E un po’ così, lotta per la sopravvivenza, cento anni dopo, la Parigi-Roubaix continua a esserla. I corridori dicono: portare la bici al traguardo.

Nibali guida la classifica del Tour de France già dal secondo giorno. Ha vinto, a sorpresa, sorprendendo anche sé stesso, la York-Sheffield, la seconda tappa interamente corsa in territorio inglese, sotto la pioggia: uno scatto nel finale aveva sorpreso gli avversari, forse timorosi, forse infreddoliti, forse impreparati a rispondere a quella che sembrava soltanto una provocazione. Si dice che la maglia gialla, così come la maglia rosa, sia importante indossarla l’ultimo giorno, non il primo e neanche il secondo. Ma Vincenzo pensa che sia importante indossarla, prima o poi, meglio poi che prima, ma anche meglio prima che mai. Perché la maglia gialla è onore, è orgoglio, è privilegio, e fa la storia.

Alla firma del foglio di partenza da Ypres gli avversari di Nibali – il campione uscente britannico Chris Froome, con i suoi compagni l’australiano Richie Porte e il gallese Geraint Thomas, e poi gli spagnoli Alberto Contador, Alejandro Valverde e Purito Rodriguez, lo statunitense Tejay Van Garderen… – lo guardano, lo osservano, lo scrutano. C’è elettricità, c’è timore, c’è attesa. La pioggia spoglia, rivela, mette a nudo, a rischio, anche se i corridori indossano le mantelline per proteggersi dalla pioggia, e sotto le mantelline hanno giubbetti impermeabili per non patire il freddo. Più a loro agio sembrano gli specialisti delle classiche del Nord, abituati al freddo e al pavé, e più muscolosi, più pesanti: lo slovacco Peter Sagan, lo svizzero Fabian Cancellara, l’olandese Niki Terpstra…

Al raduno di partenza ci sono, come sempre, anche i campioni di ieri a onorare quelli di oggi: il belga Eddy Merckx, è lui che ha la bandierina a scacchi in mano, perché è lui che darà il via, poi i francesi Bernard Hinault, Bernard Thevenet e Gilbert Duclos-Lassalle, il più amato è il loro vecchio connazionale Raymond “Poupou” Poulidor, che indossa una camicia gialla (lui, che la maglia gialla, in 14 Tour de France, non è mai riuscito a indossarla neppure per un solo giorno), e “Poupou” firma autografi e si concede per i “selfie” dei suoi tifosi. E c’è anche Filippo, il re del Belgio.

Dieci minuti prima del via una campanella ordina ai corridori e al pubblico di abbandonare il villaggio e di portarsi alla partenza. Pronti, via, il via ufficioso alle 13.48 dal cuore della città medievale. Davanti, i leader delle classifiche (la maglia gialla Nibali, la maglia verde Sagan, la maglia a pois Cyril Lemoine, francese, e la maglia bianca Romain Bardet, francese), protetti fino all’ultimo istante dagli ombrelli delle miss. Dietro, tutti gli altri, confusi, uniti, silenziosi. In tutto, 194 dei 198 che hanno cominciato il Tour quattro giorni prima. I corridori pedalano ordinatamente dietro l’ammiraglia di Prudhomme. Il via ufficiale dopo una passerella di tre chilometri e mezzo per le vie della città, alle 13.57, dal cimitero militare. Qui il silenzio si fa ancora più pesante, e consapevole.

Poi, ed è una fortuna, la corsa. Chilometro zero. Striscione. L’andatura è subito forte, si va a più di 50 all’ora. Per spezzare l’attesa, per combattere il freddo, forse anche i timori, se non la paura.

Il Tour de France è la più importante e imponente corsa per i professionisti del ciclismo. Nacque nel 1903, sei anni prima del Giro d’Italia. Consisteva in sei tappe, per un totale di 2428 chilometri. Si iscrissero in 80, partirono in 59, arrivarono in 21. Vinse Maurice Garin, uno spazzacamino valdostano, che però era emigrato in Francia per trovare lavoro e, trovato il lavoro, come per ringraziamento, aveva scelto la cittadinanza francese. Garin era un faticatore inesauribile: in quel primo Tour staccò il secondo, il francese Lucien Pothier, di quasi tre ore, e il terzo, anche lui francese, Fernand Augereau, di quasi quattro ore e mezza.

Garin – un’aria più vecchia dell’età, i capelli corti e i baffi a manubrio, e un’altezza, 1,62, ideale per intrufolarsi nei camini ma anche per scalare le montagne o superare, ma sotto, i passaggi a livello chiusi – era una stella: nella prima Parigi-Roubaix della storia, nel 1896, era arrivato terzo, poi aveva vinto quelle del 1897 e 1898. E in quei giorni ottocenteschi era ancora italiano! Invece, nel secondo Tour, Garin venne squalificato perché durante la corsa aveva preso il treno… Dalla vittoria di Garin a oggi sono passati 111 anni, e il Tour si è fermato solo per le guerre: dal 1915 al 1918 per la Prima guerra mondiale, dal 1940 al 1946 per la Seconda. Poi si è sempre ingigantito, per fama, gloria, prestigio, anche soldi. Finora, cinque corridori italiani hanno conquistato otto volte il Tour de France: Ottavio Bottecchia nel 1924 e 1925, Gino Bartali nel 1938 e 1948, Fausto Coppi nel 1949 e 1952, Felice Gimondi nel 1965 e Marco Pantani nel 1998.

Dopo la vittoria di Pantani, è cominciata l’era di Lance Armstrong. Il texano ha scritto la storia: sette vittorie consecutive. Ma quando si è scoperto che, per vincere, lui e la sua squadra si erano dopati, le sette vittorie gli sono state cancellate. E pensare che Nibali credeva in Armstrong e nella sua favola: da un letto d’ospedale, operato di cancro al cervello, al podio sui Campi Elisi, padrone del mondo, almeno di quello che va a pedali.

Intanto il gruppo si è allungato. E poi già spezzato. Pozzanghere, rotaie, spartitraffico. Nibali – dorsale 41 – sa che deve concentrarsi soltanto sulla corsa, sgombrare la mente da pensieri e preoccupazioni, liberare il corpo da emozioni e timori. “Qui, oggi, non ci si può distrarre neppure per un solo istante”, ha detto il direttore sportivo Beppe Martinelli, nella riunione del mattino, sul pullman, prima della partenza. “Qui, oggi, ci giochiamo il Tour de France”, ha ripetuto Martinelli, cercando di cogliere lo sguardo dei suoi corridori e penetrare, se non nella loro anima, almeno nella loro testa. Non sono quei 2 secondi di vantaggio di Nibali sui suoi diretti avversari, ma sono quei 13 chilometri di pavé che li separano dal traguardo, e che sono rischiosi, crudeli, infidi, perfino fatali. “Qui, oggi, scriviamo la storia”, ha esclamato Martinelli alzandosi in piedi e chiudendo la riunione, convinto che la storia si faccia anche a forza di pedali.

Il primo ad attaccare è un francese, Samuel Dumoulin. “Occhio!”, urla Martinelli nella radiolina, “la miccia è già stata accesa, la corsa sta per esplodere”. E la pioggia, invece che spegnere gli spiriti, li incendia.

Nibali è circondato dai suoi compagni dell’Astana. C’è il bergamasco Alessandro Vanotti, il suo compagno di camera, magro e saggio. C’è l’olandese Lieuwe Westra, uno specialista nelle corse del Nord. C’è il danese Jakob Fuglsang, fin troppo bello per fare il corridore, che potrebbe fare il capitano, ma in un’altra squadra, e che qui a Nibali ha giurato fedeltà. C’è Tanel Kangert, un estone con la faccia pulita da ragazzino. C’è Andriy Grivko, un ucraino che abita in Toscana. Ci sono i kazaki Maxin Iglinskiy e Dmitriy Gruzdev, impenetrabili. E c’è anche Michele Scarponi, un marchigiano smilzo, allegro, scatenato, soprannominato “l’aquila di Filottrano” perché in salita va forte, qualche volta addirittura… vola. E “Scarpa”, come sempre, cerca di sdrammatizzare: “Ragazzi, ricordiamoci bene questi posti, ché l’anno prossimo veniamo a passarci le vacanze con la famiglia”.

Il secondo ad attaccare è un estone, Rein Taaramae. “Tira vento di guerra”, pensa Nibali. “Dentro!”, ordina Martinelli nella radiolina. Sembra che il comando di Martinelli sia stato ascoltato da tutti i corridori, non solo quelli della sua Astana. Infatti, nella scia di Taaramae, che ha già raggiunto Dumoulin, si lanciano i tedeschi Tony Martin e Marcus Burghardt, il colombiano Janier Acevedo, il francese Tony Gallopin, gli australiani Simon Clarke e Matt Hayman, e poi anche Westra, il compagno di Nibali. Totale: nove uomini in fuga. “E bravo il nostro olandese volante”, commenta Martinelli nella radiolina. Aggiunge: “Tu, Westra, davanti, dai cambi regolari”, “E gli altri, dietro, a ruota, ma sempre in testa al gruppo”. Ricorda: “Tutti per Nibali”. E conclude: “Oggi è vietato addormentarsi in corsa”.

Nibali studia le facce dei suoi avversari. Nel ciclismo le facce non simulano, non fingono, non nascondono: è anche per questo che la maggiore parte dei corridori usa gli occhiali scuri anche in giornate buie. Nibali studia le facce a cominciare da quella di Froome: “Oggi mi sembra ancora più magro, più bianco, più teso, perfino più sgraziato del solito”, pensa Nibali. E conclude: “Su queste strade è a disagio, in difficoltà”. Froome era caduto nella seconda tappa, porta i segni delle ferite e delle medicazioni su gomito e ginocchio, le cadute creano dubbi e certi dubbi sono difficili da nascondere o cancellare. Froome è un corridore misterioso: nato in Kenya, da ragazzo era l’unico bianco in una squadra, anzi, in un gruppo di neri. Al primo Tour de France lottava fra gli ultimi per arrivare entro il tempo massimo, e c’è stato un Giro d’Italia in cui è stato squalificato per essersi fatto trainare da una macchina, poi invece è diventato fortissimo, quasi invincibile: secondo al Tour del 2012, primo in quello del 2013.

Poi Nibali valuta Contador: “In salita è sicuro, spavaldo, spettacolare, un ballerino acrobatico, invece sotto la pioggia sembra paralizzato”. E commenta: “Anche per lui oggi sarà una giornataccia”. Contador è un fuoriclasse: ha già vinto tre Tour de France, due Giri d’Italia e due Vuelta di Spagna, anche se un Tour e un Giro gli sono stati revocati perché risultato positivo a un controllo antidoping. Lui si è difeso sostenendo di avere mangiato bistecche contaminate da farmaci, a sua insaputa.

Intanto il gruppetto dei nove fuggitivi perde i pezzi. Il primo è Acevedo: cade, si ferisce, viene ripreso. Nibali pensa: “Per lui sarà dura arrivare al traguardo”. Il secondo è Burghardt: la sua squadra lo richiama in gruppo perché ha deciso che è meglio che aiuti i suoi capitani Van Garderen e il belga Greg Van Avermaet stando accanto a loro, non davanti a loro. “Invece tu, Westra, rimani davanti, così dietro non dobbiamo tirare”, sentenzia Martinelli.

Bene così – pensa Nibali -, la fuga va”. E per un attimo disobbedisce al comandamento di tenere alta la concentrazione. La bicicletta è una macchina del tempo e della memoria: chi ha detto che pedalare aiuta a ruminare i pensieri?

Nibali ricorda quella volta, la prima volta, la prima corsa: a Sant’Antonino vicino a Barcellona Pozzo di Gotto, dalle parti di Milazzo. “Un circuito da ripetere più volte. La maglia con la scritta Vivai Pietrafitta. La bici Vetta. L’obbligo di rimanere in gruppo il più possibile. Poi quel tizio che scatta, io che lo inseguo, fino all’ultimo giro, quel tizio sempre più imbufalito, io sempre più incollato alla sua ruota, lo sprint, quel tizio primo e io secondo, ma tutti che festeggiano me come se avessi vinto io e non lui. E mio padre che mi confida che il signor Pietrafitta era così emozionato che si è fumato un intero pacchetto di sigarette”.

Attenzione: Froome è caduto”. E’ il km 29. Nibali viene avvertito da Martinelli, via radio, attraverso gli auricolari. Froome si rialza, è aspettato da quattro compagni di squadra della Sky, che lo aiutano a rientrare in gruppo. Ha una faccia grigia, grigia come la pioggia, come la strada, come il cielo.

Froome sta rientrando”, avverte Martinelli, che sull’ammiraglia siede nel posto del navigatore. Martinelli dice: “Ma si vede che ha una paura boia”. E incita: “Dacci dentro, Vincenzo”.

Vincenzo ci dà dentro. Quando un avversario cade o fora, una volta se ne approfittava per attaccare, invece adesso si è combattuti fra l’istinto dell’attacco e la ragione di attenderlo, senza infierire. Lo chiamano “fair play”, ma tutti sanno che è un concetto vago: dipende da dove succede, da quando succede, da a chi succede.

Si continua a pedalare a 50 all’ora. Si continua anche a cadere, e i tratti in pavé non sono ancora cominciati. E continua anche la fuga dei sette, che però diventano sei, cinque, quattro: Gallopin, Clarke, Hayman e Westra. “Bravo il nostro olandesone”, lo incita Martinelli. Così, dietro, Nibali può sempre risparmiare fiato, sostenuto da un altro compagno, Fuglsang.

La prima ora vola via: 49,2 chilometri. “Siamo matti, siamo tutti matti”, commenta Nibali. “Se non fossimo tutti matti, non avremmo fatto i corridori”, spiega Vanotti. “E matto sarà lo scacco che oggi molliamo agli altri”, profetizza Scarponi.

E’ una gara a selezione naturale. Alexander Kristoff, norvegese, cambia la bici. André Greipel, tedesco, soprannominato “il Gorilla”, cade. Cade anche Arnaud Démare, il campione di Francia. Cade anche il tedesco Marcel Kittel. Si rialzano, tornano in bici, ricominciano a pedalare, ma staccati. Il gruppo perde i pezzi, si sgretola, si sbriciola.

La corsa diventa un martirio, il percorso un calvario.

Altre cadute. A terra anche Tejay Van Garderen e Valverde. E mancano ancora 70 chilometri all’arrivo.

Al km 60 la fuga ha più di tre minuti di vantaggio. Sarà il massimo vantaggio della giornata.

Froome è caduto un’altra volta”, esplode Martinelli alla ricetrasmittente in ammiraglia. “Incredibile”, si lascia sfuggire il direttore sportivo, incollato a radio-corsa e al minischermo televisivo. E’ il km 85. “Stavolta non si rialza… cioè, si rialza, ma non risale in bici… si avvicina all’ammiraglia… stanno parlando… il meccanico gli prende la bici e lui sale in macchina… Froome si è ritirato”.

Il vantaggio dei fuggitivi è già sceso a due minuti e mezzo.

Nibali non ha pensieri, se non quello di lottare, di sopravvivere, di lottare per sopravvivere. Pedala, pedala, pedala. Pedala, e ogni tanto bevi. Pedala, e ogni tanto mangia. Pedala, e ogni tanto pulisci gli occhiali. Pedala, e non perdere mai di vista la strada. Pedala, e cerca sempre la migliore traiettoria. Pedala, e scegli sempre la migliore ruota. Pedala, e pedala sempre come se tu fossi una parte della bicicletta, il motore, ma anche l’anima, o come se la bicicletta fosse una parte di te, le gambe, oppure le ali. Pedala, e senti quello che ti dice il corpo. Pedala, e ascolta se il pedalare non è una musica, un ritmo, un’andatura, un’armonia, una canzone. Pedala, Enzino, pedala e basta.

Sta per arrivare il primo tratto di pavé. Temutissimo. E’ quello del Carrefour de l’Arbre, l’incrocio dell’albero. Il punto decisivo della corsa potrebbe essere proprio questo: è un falsopiano, leggermente in salita, 2100 metri di pietre irregolari e, stavolta, scivolosissime. E’ uno dei punti storici e simbolici della Parigi-Roubaix. Nibali è concentratissimo: suo padre gli ha raccontato, fino alla noia, di quando Francesco Moser si era lanciato verso il primo settore di pavé con tanto impeto da volare a terra non appena la sua ruota aveva toccato le pietre bagnate. Poi, però, si era rialzato ed era andato a vincere.

Comincia la pietraia. Le bici sobbalzano, le ruote rimbalzano, i corridori vibrano. Le pietre sono sconnesse come sulle strade consolari degli antichi romani. I corridori sembrano, forse sono gladiatori. “E’ la prima volta che la faccio in vita mia”, pensa Nibali, quasi impaurito di ammetterlo perfino a sé stesso. “Però”, cerca di incoraggiarsi, “non è poi così diverso dalle strade dove andavo da piccolo”. Strade bianche, sterrate, piene di buche e di sassi, dove era indispensabile fare acrobazie per rimanere in sella. “Finora il pavé l’ho visto sui libri o alla tv, ma da vicino, sopra, addosso, è tutt’un’altra cosa”. La terra trema, la bici trema, tremano anche i corridori. E le borracce schizzano acqua o saltano per aria e ricadono sulle pietre. E fra gli spettatori c’è perfino qualche ragazzino che, sfidando bici e moto, cerca di conquistare le borracce come un trofeo.

L’”ardoisier” – è l’addetto a segnalare i distacchi, seduto dietro un motociclista – mostra la lavagna: adesso fra fuggitivi e inseguitori ci sono due minuti.

Anche la seconda ora è volata via: la media è scesa a 47,8 chilometri orari, ma rimane altissima. Una velocità folle, se si pensa alle condizioni in cui si corre. Davanti ci sono i verdi della Cannondale, la squadra di Sagan, che vuole vincere la tappa. E il gruppo si spezza in due parti: davanti Nibali, Sagan, Contador, Bardet, Lemoine e il portoghese Alberto Rui Costa, dietro Kwiatkowski, Talansky, il francese Pierre Rolland, il lussemburghese Frank Schleck… E Valverde rientra nella prima metà del gruppo. “E’ un cagnaccio”, commenta Nibali.

Comincia il conto alla rovescia. Manca una cinquantina di chilometri all’arrivo. E comincia il secondo tratto di pavé, quello di Pont-Thibault, 1400 metri. Nibali svirgola, derapa, rischia di cadere, ma rimane fra i primi del gruppo, invece Contador e Valverde sono a disagio, tirano i freni, arretrano nella seconda parte del gruppo. Cade Andrew Talansky, americano, un altro dei favoriti al Tour dopo avere conquistato il Giro del Delfinato.

Contador e Valverde sono rimasti indietro”, conferma Martinelli.

Nibali cerca di ricordare quello che ha imparato studiando le imprese di Moser: “Non stringere troppo il manubrio, non affondare troppo le pedalate, non perdere mai di vista la strada”. Nibali cerca di fare quello che ha ascoltato dai racconti di Franco Ballerini: “Trovare quel ritmo, e quella armonia, e infine quella velocità, per poter galleggiare sulle pietre”. Nibali cerca anche di ritrovare quelle emozioni, e soprattutto quella voglia, e quella felicità, di quando andava per i sentieri, da piccolo, in Sicilia, su una mountain bike. E di quando tornava a casa, la sera, sporco e sudato, magari anche con le ginocchia e i gomiti sbucciati per una caduta, e la mamma Giovanna alzava gli occhi al cielo e sospirava, e il papà Salvatore corrugava la fronte e minacciava di segargli la bici.

Segargli la bici? Un giorno il papà Salvatore gliela segò veramente. Vincenzo aveva dieci anni quando portò a casa la pagella del primo quadrimestre, su cui era scritto: “Il ragazzo litiga violentemente con i compagni di scuola all’uscita di classe”. Salvatore – che gli amici avevano soprannominato “il Lupo” per il suo spirito anticonformista – annunciò: “Adesso ti sistemo io”. Vincenzo pensava a un castigo, come non uscire di casa, e temeva una pena, come una sberla o una cinghiata, ma il papà Salvatore aveva deciso per qualcosa di peggio. Vincenzo seguì il papà in cantina, e quando il papà aprì l’armadietto degli attrezzi e prese una sega di metallo, Vincenzo capì. Il papà Salvatore avrebbe segato la bici. Dicendo: “E noi che lavoriamo per farti studiare… Adesso ti faccio vedere io…”.

L’”ardoisier” espone la lavagna: 1’18” tra fuggitivi e gruppo maglia gialla, 30” tra gruppo maglia gialla e Contador.

Alé, alé, alé. Lo ripete Martinelli, lo dice con gli occhi Fuglsang, se lo dice anche Nibali. E’ il momento di fare la differenza. Ha 54” di distacco dai fuggitivi, ma 20” di vantaggio su Bardet e Van Garderen, e 45” su Contador. Alé, alé, alé.

Davanti Taaramae cede, e rimangono in sei: Dumoulin, Westra, Martin, Gallopin, Clarke e Hayman. Dietro cadono il belga Jurgen Van den Broeck e l’americano Talansky. E dal gruppo di Nibali evadono l’olandese Lars Boom e il belga Sep Vanmarcke. “Quei due vanno come il vento”, pensa Nibali.

Ai meno 34 all’arrivo, Martinelli ordina a Westra di rallentare e aspettare Nibali. Westra si mette subito a tirare. Ai meno 30 Boom e Vanmarcke sono ripresi, ai meno 26 si esaurisce la fuga, e il gruppo, davanti, è composto da 18 corridori. Contador ha più di un minuto di ritardo. Ai meno 17 davanti sono rimasti 12 uomini, che stanno per affrontare il penultimo tratto di pavé, quello da Wandignies-Hamage a Hornaing, 3700 metri che non finiscono mai. Westra insiste. Quando un corridore va forte, fortissimo, si dice che vada come una moto. Nibali lo vede proprio così: trasformato in una moto. E Westra fa selezione: attaccati alla sua ruota rimangono soltanto Nibali, Fuglsang, Boom, il belga Jens Keukeleire, Cancellara, Lemoine e Sagan.

I corridori hanno maschere di fango.

Meno 10 all’arrivo, ed è qui che Nibali si dice: “Enzino, ora o mai più”.

E’ asfalto. Nibali allunga. Gli tengono dietro solo Fuglsang e Boom. Gli altri mollano: spenti, sfiniti, esauriti, anche chi – come Sagan e Cancellara – non aspettava altro che queste pietre per primeggiare, e questo tempaccio per decollare.

Dai, Enzino”. Sei chilometri e mezzo di strada, e l’ultimo tratto in pavé, da Hélesnes a Wallers, 1600 metri. Boom accelera, veleggia, si allontana. Nibali e Fuglsang lo seguono, non lo inseguono.

Dai, Enzino”. Boom ha qualche secondo di vantaggio, alza le braccia al cielo, e vince: “Bravo”, pensa Nibali. Fuglsang secondo a 19”: “Bravissimo”, gli dice Nibali. Terzo Nibali, dietro a Fuglsang: “E adesso aspettiamo gli altri”. Avvolto da una coperta, rimane sul traguardo. Quarto Sagan a più di un minuto, poi Cancellara. Un altro italiano, Matteo Trentin, a 1’21”. Il tempo passa. Il tempo è dalla parte di Nibali. Arriva un gruppetto di fantasmi: c’è Tony Martin, c’è Gallopin. Sono trascorsi più di due minuti. I secondi scorrono, inesorabili. Ecco finalmente anche Contador: a 2’25”.

Interviste al volo, fra palco tv e zona mista. Boom: “La corsa più bella della mia vita”. Nibali: “Bisogna rimanere con i piedi per terra”. Westra: “Sapevo che Vincenzo avrebbe potuto farcela”. Nibali: “Bisogna vivere alla giornata, tappa dopo tappa”. Lemoine: “Tanto di cappello a Nibali”. Nibali: “Non è successo nulla, tutto può ancora succedere”. Contador: “E’ stata una giornata molto complicata”. Nibali: “Oggi è andata bene a me, domani chissà”. Sagan: “Contento di non essere caduto, ma deluso di non avere vinto”. Nibali: “Il Tour è ancora lungo, lunghissimo, e siamo appena arrivati in Francia”. Dave Brailsford, team manager di Sky: “Una tappa devastante per Froome e tutta la nostra squadra”. Nibali: “Il pavé? In certi momenti mi sembrava di essere dentro una lavatrice”. Scarponi: “Evviva, cento di questi giorni”.

Poi il podio. Mazzo di fiori e bacio delle miss per Boom, vincitore della tappa. Mazzo di fiori e bacio delle miss per Nibali, maglia gialla, primo in classifica. Mazzo di fiori e bacio delle miss per Sagan, maglia verde, primo nella classifica a punti. Mazzo di fiori e bacio delle miss per Kwiatkowski, maglia bianca, primo nella classifica dei giovani. Mazzo di fiori e bacio delle miss per Lemoine, maglia a pois, prima nella classifica della montagna. Premio per la Astana, prima nella classifica a squadre. E premio della combattività a Westra.

Interviste in sala-stampa. Giornalista: “Davvero era la tua prima volta sul pavé?”. Nibali: “Sul pavé sì, sulle pietre no. Da piccolo, sulla mountain bike, che io chiamavo ‘mauntebbai’, non esisteva più un centimetro quadrato, sterrato o accidentato, della provincia di Messina dove non avessi pedalato”. Giornalista: “C’è un segreto da rivelare”. Nibali: “Mio padre diceva sempre che la bicicletta è libertà. E spiegava che quando la vita si fa noiosa, o arrivano le preoccupazioni, per cancellare i cattivi pensieri basta saltare in sella e pedalare forte. Ed è quello che ho fatto anche oggi”. Giornalista: “A che cosa pensavi quando pedalavi sul pavé?”. Nibali: “A quello che ripeteva Albert Einstein: la vita è come andare in bicicletta, se vuoi stare in equilibrio, devi pedalare”. Giornalista: “Sei stato un eroe”. Nibali: “Gli eroi erano quelli che andavano, sono quelli che ancora lavorano in miniera. Noi siamo dei privilegiati, andiamo in bicicletta”. “Ultime due domande”, avverte l’addetto stampa del Tour de France. Giornalista: “E’ stata un’impresa?”. Nibali: “Niente confronto a quello che fece Alfonsina Strada, l’unica donna nella storia ad avere corso il Giro d’Italia, ma quello degli uomini”. Giornalista: “Una dedica a questa maglia gialla?”. Nibali: “Sempre a loro due, mia moglie Rachele e nostra figlia Emma Vittoria”.

Nibali scende dal palco, si nasconde in un angolo, estrae il telefonino e chiama casa. “Vincenzo!”. “Rachele!”. “Bravo, hai vinto”. “Ma no, sono arrivato terzo”. C’è anche la figlia, Emma. “Emma? Sono il tuo papà”. “Pa-pà”. “Emma, sono lontano, ma ti sento vicina. E ti vorrei svelare un piccolo segreto: oggi, in corsa, mi sei stata vicinissima, addosso, dentro, in tasca. Ho preso una tua fotografia, l’ho avvolta in una busta di plastica perché non si bagnasse e non si sciupasse, e l’ho messa in tasca, una delle tasche dietro, e da dietro mi hai spinto fino all’arrivo”. Nibali si asciuga la faccia – era una goccia di sudore o una lacrima sul viso? -, sale sull’ammiraglia dell’Astana, va in albergo, entra in una camera, fa la doccia, si stende sul letto, si affida ai massaggi di Michele Pallini, e finalmente si rilassa, si riposa, chiude gli occhi. Ed è qui che, finalmente, i pensieri si sciolgono in chilometrici sogni. Se il primo sogno è vincere il Tour de France, quel sogno diventerà realtà.

Testo e interpretazione: Marco Pastonesi
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