Pazzi per Pantani

Alessandro ed Emanuele sono vicini di casa. Alessandro è un enologo; andava in motocicletta finché un malanno al ginocchio non lo costrinse a pedalare, e a conoscere la bicicletta. Emanuele invece il ciclismo lo ha da sempre in famiglia; è stato a vedere Pantani sullo Zoncolan e ha un fratello che, nato nel '95, è stato chiamato Marco. Oggi fa il maestro di religione, «così posso passare ogni mese di luglio a casa a guardare il Tour».

Alessandro ed Emanuele sono vicini di casa, si sono conosciuti facendo i volontari nella parrocchia del loro paese in Friuli, ma a farli partire per un'avventura è stata la bicicletta. Non una qualsiasi, è stata la bicicletta di Marco Pantani. Un giorno a casa di Emanuele infatti è arrivata una Bianchi XL EV2, la stessa bici dei grandi trionfi del Pirata, e Alessandro, che aveva ormai cominciato a interessarsi del collezionismo ciclistico, gli disse "fammela studiare un attimo". Era curioso, perché aveva notato subito quanto quel telaio fosse diverso da quello che compariva nelle foto di Pantani. Una curiosità che si acuì quando si imbatté in un commento a un post di Davide Cassani sui social network. Era il periodo dell'asta fallimentare della Mercatone Uno, e Cassani era riuscito, insieme ad altri ex corridori, ad acquistare una bici da donare alla Fondazione Pantani. Il commento diceva: "è sicuramente la bici della seconda parte del Tour, quella del Ventoux, perché ha l'adesivo sulla forcella è un po' più alto".

«Rimasi colpito e decisi di informarmi meglio, entrai in una comunità che non conoscevo, e grazie a loro scoprii che Pantani quasi ogni giorno cambiava una virgola, un dettaglio della sue bici, soprattutto nel periodo 99-2001, ovverosia quando Pantani era già diventato Pantani. Era una storia che meritava di essere documentata e condivisa, e così è cominciato tutto».

Quel tutto è un percorso di esplorazione e scoperta che ha portato alla nascita di Pantabike, un sito collaborativo che testimonia la minuziosa storia delle bici del Pirata. Per fare tutto ciò, però, Alessandro conosce un metodo solo: sporcarsi le mani. Recuperare pezzo per pezzo e montare ogni singola bici, per poterla vedere intera. Questo significa andare sul mercato e comprare varie bici, smontare i pezzi che servono e rivendere il resto, e una volta completato il puzzle assemblarla. Quelle fatte finora sono esposte al museo della bicicletta di Renato Bulfon, a Mortegliano (in provincia di Udine), ma l'intero progetto lo ha regalato ad altri: alla Fondazione Pantani.

«Ho capito subito che nel collezionismo pantaniano girano tanti soldi e interessi, mentre invece allo Spazio Pantani non era ancora stato fatto un approfondimento filologico delle sue bici. Quelle esposte erano quelle che Tonina aveva trovato in cantina, montate com'erano in quel momento. Io ritengo che in molti abbiano preso da Pantani ma pochi abbiano dato, così ho voluto togliere tutto ciò dal mondo dei collezionisti e ho chiamato la Fondazione, ho lasciato la proprietà intellettuale del progetto a loro. Sono rimasti sorpresi e contenti del nostro lavoro».

Il 2024 è l'anno dei 20 anni dalla scomparsa di Pantani, ma sono anche 30 anni dalla sua esplosione sul grande palcoscenico con i podi a Giro e Tour. Pantabike ha deciso di omaggiare questa ricorrenza ritornando alle prime bici di Pantani, per celebrare un'altra storia umana: quella delle Carrera di Davide Boifava, il primo DS del romagnolo ma anche colui che tornò da lui a fine carriera, quando l'urgenza era di recuperare l'uomo prima del ciclista Pantani.

Anche Pantabike è una storia di persone prima che di biciclette. Due amici, due vicini di casa, ma anche un mondo di relazioni che si è creato intorno all'idea di testimoniare un aspetto forse meno noto di Pantani. C'è voluta tanta dedizione e tanta fortuna, perché, come raccontano «c'erano dettagli che sembravano impossibili da ricostruire, come i contachilometri, ma quando avevamo perso la speranza dopo infinite notti a cercare, ecco che comparivano». Un aiuto dal destino che è anche e soprattutto il contributo di tanti, ma che testimonia anche tanti ostacoli sulla strada. «Ci sono sempre zone grigie, anche qui, non è sempre tutto limpido. Tante volte abbiamo dovuto fare anche passi indietro, isolarci, per non finire ad avere a che fare con qualcosa di non buono. La nostra era un'idea semplice, ma ha incontrato tantissime difficoltà. Però abbiamo anche trovato una soluzione pratica: quando non sappiamo cosa fare, andiamo a Cesenatico. Mi basta una serata là, una cantata al karaoke con Jumbo, vecchio amico di Marco, e torno a casa che ho le idee chiare».

[Il lavoro di Alessandro ed Emanuele è tutto su pantabike.com. Alle biciclette di Marco Pantani è dedicato anche un brano di "L'ultima volta che se n'è andato Pantani", il diario collettivo che abbiamo pubblicato la scorsa primavera per raccogliere fondi per la Romagna alluvionata. Lo trovate su alvento.cc, in libreria e anche allo Spazio Pantani di Cesenatico].


Quegli occhiali, quella maglia rosa: intervista a Giulio Pellizzari

Uno dei protagonisti di queste ultime giornate di Giro d'Italia è, senza alcun dubbio, Giulio Pellizzari. Lo abbiamo intervistato diverse volte durante il Giro e questo è quello che ci ha raccontato.

Giulio, come è stato esordire al Giro d’Italia?

Emozionante sin dalla prima tappa, non avevo mai visto così tanta gente. C’è tanto tifo, davvero tanto tanto tanto. Pedalare al Giro è incredibile.

In tanti parlano di te come una nuova speranza per il ciclismo italiano. Ti fischiano un po’ le orecchie?

Ma a dire il vero no. Sono tranquillo. Dormo benissimo!

Stai scoprendo tutto del Giro. Sei stato anche al Processo alla Tappa. Come è stato?

È una trasmissione che ho sempre guardato sin da ragazzino. È stata una bella esperienza, dai.

In gruppo hai anche tanti compagni giovani come te, si vede che già nelle categorie giovanili sono nate delle amicizie.

Siamo amici prima che avversari, ed è sempre bello ritrovarsi. E vanno tutti fortissimo, siamo una generazione forte.

Hai 20 anni e stai correndo il Giro con Domenico Pozzovivo che è il più esperto del gruppo.

È un grande. Ci insegna un sacco di cose, ci racconta tanti aneddoti. Ogni volta che parla c’è qualcosa da imparare. Siamo felici di averlo con noi.

Pozzovivo è anche una specie di guida vivente a ogni strada d’Italia. Tu hai una tappa in particolare che puoi dire già di conoscere bene?

Sì, quella che parte dalla Val Gardena, che inizia col Sella, poi Canazei. Prima del Giro sono stato a fare altura al Passo San Pellegrino e ho pedalato un sacco su quelle strade. Tranne il Brocon: quello l’ho fatto solo per un pezzetto perché stavano asfaltando la strada.

E in stanza con chi sei?

Con Enrico Zanoncello, il velocista più forte al mondo.

La prima parte di Giro non è stata facilissima per te, ora sembra che tu abbia recuperato.

Sì, nella prima settimana ho avuto un po’ di raffreddore e tosse, prima di Napoli. A Prati di Tivo mi sono ritrovato senza gambe. Ho provato a tenere duro ma non ce la facevo, così mi sono rialzato. Pensavo di aver recuperato nel giorno di riposo, ci voleva, con un’oretta di pedalata e una pausa bar per un bignè al pistacchio e un cappuccino. Invece anche la seconda settimana è stata ancora difficile. La sera dell’undicesima tappa ero già con un piede a casa: ho chiamato Massimiliano Gentili per dirgli che volevo ritirarmi. Invece grazie a lui, alla mia famiglia, a Leonardo Piepoli e alla mia fidanzata sono rimasto.

E alla sedicesima tappa, a Santa Cristina Valgardena, hai sfiorato la vittoria.

Al giorno di riposo di Livigno stavo molto bene, infatti la paura era di non sentirmi più così in forma il giorno dopo. Ma sono ripartito speranzoso. Me la sentivo da subito, e sono contento del mio secondo posto. È Massimiliano Gentili che mi ha detto di non mollare. Quel risultato lo devo a lui.

Alla prima tappa, invece, eri stato il primo a seguire l’attacco di Tadej Pogačar.

Sapevo bene che non l’avrei tenuto, però sono andato di istinto. Quando l’ho visto passare mi sono buttato dietro, ci ho sperato. È stata un’emozione forte, c’era un sacco di pubblico che urlava, avevo la pelle d’oca.

Come Icaro, a star troppo vicino al Sole (ovvero Pogačar), si rischia di bruciarsi. E rimbalzare.

Esatto. Stessa fine. Ma credo sia una fine comune a parecchi corridori. Ma almeno posso aggiornare l’album delle mie foto con lui. Ne feci una insieme già nel 2019, alle Strade Bianche: era la sua prima gara nel World Tour e io ero là come spettatore, con un amico. Già lo conoscevo perché avevo seguito la sua vittoria al Tour de l’Avenir. Al mio amico dissi: “fatti una foto con lui, che diventerà forte”. E il mio amico: “ma no, ma chi è questo?”. Fu divertente. Non c’era nessuno che lo cercava al bus oltre a me. Ci facemmo una foto insieme, e direi che ha portato bene.

Quando a Santa Cristina Valgardena l’hai visto arrivare cosa hai pensato?

Bastardo! Ancora lui! (ride). Avrei voluto vincere, ma andava bene così. È andata meglio che a Torino sicuramente, sono contento.

Ti ha regalato i suoi occhiali e la maglia rosa, dopo averti ripreso negli ultimi chilometri.

(Ride ancora). Mio fratello il giorno prima mi aveva scritto: "Trova il modo di rimediare gli occhiali di Pogačar". Così all’arrivo sono andato al gazebo delle interviste e glieli ho chiesti. Lui me li ha dati e mi ha dato anche la maglia. Gli auguro il meglio. È il migliore della storia.


Ha det bra: intervista a Magnus Sheffield

Uno dei giovani più interessanti, non solo qui al Giro, ma anche in assoluto nel gruppo, è Magnus Sheffield.

Buongiorno, Magnus.

Buongiorno!

Splendida pronuncia italiana, allora ha ragione Jean Smyth, l’addetto stampa della Ineos, quando dice che parli molte lingue.

Ho imparato qualcosa nella prima settimana di Giro. Ma di lingue ne parlo bene soltanto due, però è vero che conosco le poche parole chiave in un po’ di altre.

Sei mezzo norvegese e mezzo statunitense; qual è la tua parte norvegese e quale quella statunitense?

Ah, bella domanda. A essere onesti, sono davvero metà e metà. Mi sento molto americano ma sono anche molto orgoglioso di essere norvegese. È difficile a dirsi, magari qualcuna delle mie scelte alimentari preferite è più scandinava, e forse si può dire la stessa cosa anche riguardo alle cose che amo fare nel mio tempo libero. Ma mi sento davvero 50/50.

Facci qualche esempio di cibo scandinavo che ami.

Ooh, ad esempio il brown cheese [che dovrebbe essere il Brunost, un dolce caramelloso, NdR] e il caviale. Adoro il caviale, o, come lo chiamiamo noi: il dentifricio norvegese.

Sei cresciuto a Pittsford, un sobborgo di Rochester, nello stato di New York; come sei arrivato al ciclismo negli Stati Uniti?

Sono sempre andato in bici, sin da quando ho imparato a camminare. È una cosa che facevo con la mia famiglia, lungo i canali. Abbiamo anche fatto dei viaggi in bici in Norvegia. È davvero un’attività che ho sempre amato. Da ragazzino mi piaceva lanciarmi sulle strade vicino a casa, così come uscire con la mountain bike. Ma tutto è cominciato davvero quando ho incontrato gli August, il mio compagno di squadra A.J. e suo padre, che ha un negozio di biciclette e mi ha invitato a partecipare alla mia prima gara di ciclocross. È così che mi sono innamorato anche del ciclismo agonistico. Da lì ho cominciato con la mountain bike, il ciclocross, la strada… e tutto è cresciuto come fosse una valanga.

Quindi niente football americano o baseball.

In realtà ho praticato parecchi sport. Anche il football, ma nel senso del soccer, come chiamiamo il calcio. E poi baseball, nuoto, sci... amo soprattutto la neve.

E sei anche un tifoso?

Di calcio no, anche se sono il più competitivo della squadra. Nel football americano invece assolutamente Bills! Buffalo Bills!

E come hai preso la recente cessione di Stefon Diggs?

Eh, è uno dei miei giocatori preferiti, quindi sono ancora un po' toccato da questo fatto, ma credo che la cosa importante sia insistere su Josh Allen.

Dall’attitudine con cui stai affrontando questo Giro, si percepisce che è una sorta di rinascita dopo la caduta dello scorso anno [Sheffield è stato vittima della stessa caduta in cui ha perso la vita Gino Mäder, riportando un trauma cranico che lo ha tenuto tre mesi fuori dalle corse, NdR]. Raccontaci di più di come hai vissuto il rientro alle corse fino ad arrivare al tuo primo grande giro.

Già, è stato tutto fuorché facile. Ho passato parecchio tempo con la mia famiglia, e credo che sia stato davvero utile. È stato molto bello anche rientrare alla fine della scorsa stagione al Giro di Gran Bretagna, che è la corsa di casa della mia squadra. Ho perso l'occasione per fare un grande giro lo scorso anno, ma questo Giro aveva perfettamente senso con la mia crescita, visto che ho solo 22 anni. Rappresenta una bella pietra di passaggio per le ambizioni che ho nella mia carriera. E fin qui non posso che essere soddisfatto delle mie prestazioni e di come ho potuto aiutare G [Geraint Thomas] e Thymen [Arensman].

Ti senti un ciclista diverso, o una persona diversa, dopo l'incidente?

No, non credo. Sono sempre Magnus, non sono cambiato così tanto. Però ho imparato ad apprezzare ancora di più le corse, e forse anche la vita al di fuori del ciclismo. A non dare nulla per scontato. In questi primi anni ho vinto tre gare [nel 2022 ha conquistato Freccia del Brabante e tappe alla Vuelta a Andalucia e al Giro di Danimarca, NdR], due delle quali nei primissimi mesi da professionista. È stato un bell'inizio, ma forse ho dato per scontato che tutto sarebbe andato avanti così. Adesso invece apprezzo molto l'idea di lavorare duro per dei risultati, che arriveranno.

Sui tuoi social compare spesso tua sorella Sunniva, che da quanto ho capito vive in Alaska.

Oh no. Ha studiato là per un po’, ma adesso sta sulle isole Svalbard, dove ha passato gli ultimi mesi in mezzo agli orsi polari. Tra poco però tornerà a Oslo. Mia sorella è una persona incredibile: ama la vita all'aria aperta e ha viaggiato un sacco per i suoi studi [si occupa di scienze ambientali, NdR].

Sei abituato al freddo scandinavo e a stare nella neve… e come ti gestisci il sole italiano?

Sicuramente con un sacco di crema solare!

Abbiamo iniziato con un buongiorno, ora lasciaci con un saluto in norvegese.

Ha det bra!


Una specie di nuova carriera: intervista a Michael Valgren

Tra i momenti più emozionanti di questo Giro non si può non segnalare il commosso arrivo di Michael Valgren a Lucca. Il corridore danese, tra i più importanti interpreti delle classiche dell'ultimo decennio, è infatti al rientro sui grandi palcoscenici dopo un devastante infortunio. Una caduta in discesa alla Route d'Occitanie del 2022 infatti gli procurò una frattura del bacino, la lussazione dell'anca e la rottura del menisco e di entrambi i legamenti crociati, anteriore e posteriore, costringendolo a una lunghissima e faticosa riabilitazione. Lo scorso anno la sua squadra, la EF, lo retrocesse alla formazione Continental per farlo correre senza assilli; ora è nuovamente qua, e al Giro ha trovato la fuga giusta e un grande piazzamento (2°) proprio sulle strade di Lucca, dove aveva vissuto un anno ai suoi esordi.

Buongiorno, Michael. Ci possiamo salutare in italiano, direi.

Sì, il mio italiano è un po' arrugginito, ma questo l'hai capito: buongiorno.

Ci sono altre espressioni italiane che ricordi e magari usi.

Ci sono, sì, ma sai, le cose che so dire in italiano non sono esattamente belle parole, non credo che vorresti registrarle (ride).

La tappa di Lucca ha rappresentato un giorno importante ed emozionante per te. Come hai vissuto quei momenti?

Per me è stato un grande passo per rientrare in serie A. Soprattutto a Lucca, dove ho vissuto un solo anno ma ho splendidi ricordi. Fu un momento speciale, era il mio primo anno tra i professionisti. Conoscevo ancora tutte le strade che abbiamo fatto, siamo passati da una strada in pavé che era la strada preferita di Chris Anker Sørensen (ex corridore danese, scomparso nel 2021, compagno di Valgren alla Tinkoff nel 2014-2015). Entrare a Lucca è stato un momento ricco di grandi emozioni. Sono felice di esserci arrivato facendo del mio meglio.

Ti senti come se stessi cominciando una nuova carriera, a 32 anni?

Sì (ride), una specie di nuova carriera. Credo di avere ancora qualcosa da dare, e finalmente l'ho dimostrato. Ho vissuto anni difficili, ma credo di avere ancora dei bei risultati da raggiungere.

Dove hai trovato le energie per uscire da questo calvario?

Beh, quando sei lontano dal ciclismo ti rendi conto di quanto lo ami. Così quando ero distante ne sentivo davvero la mancanza, desideravo rientrare in questo "circo", che a volte è una specie di grande confusione ma io lo amo. Mi piace stare in giro, mi piace anche la mancanza della mia famiglia, perché quando torno a casa l'emozione è ancora più grande. Riconosco che è una vita un po' da pazzi, ma non riesco a vedermi senza.

Tu provieni dal Thy, l'area dello Jutland da cui viene Jonas Vingegaard, con cui hai condiviso anche il lavoro nella famosa industria ittica in gioventù. Che parole useresti per sostenerlo nel suo recupero, così come per incoraggiare altri ciclisti vittime di incidenti così gravi?

Sono cose che possono accadere a chiunque, non è questione di ciclismo. Anche nella vita ordinaria ci sono infortuni o malattie, quindi credo che commiserarsi vada bene per un po', qualche volta, ma poi è importante allargare lo sguardo e rendersi conto che c'è chi sta peggio. E continuare a lottare, a crederci, perché le cose miglioreranno.

Tu hai uno strano soprannome, Dolle, cosa significa?

In realtà non significa nulla. È un'azienda che produce scale in legno per case, tipo belle scale a chiocciola, e sponsorizzava una squadra di calcio del mio paese. Così quando ci giocavo portavo questa maglia con scritto DOLLE sulla schiena, e qualcuno ha cominciato a chiamarmi Dolle per via di quella scritta. Poi non so come sia successo, ma il soprannome è rimasto.

Hai già dei programmi post-Giro? Qualche celebrazione particolare?

Non lo so. Devo ancora pensarci.

E quando potrai andare in vacanza?

Non lo so. Potrei fare il Tour de France, forse, non si sa mai, ma sarebbe una bella vacanza. Però un giorno io e mia moglie vorremmo affittare un camper e esplorare un po' la Danimarca. Mi piacerebbe andare insieme a Bornholm, l'isola da cui arriva Magnus Cort. È un posto dove sono già stato da solo, ma mai insieme, sarebbe bellissimo.

 


La corsa di casa per un francese: intervista a Ben Thomas

Pochi giorni fa abbiamo intervistato, alla partenza della prima tappa del Giro d'Italia, Benjamin Thomas, il vincitore della tappa di ieri. Questo è quello che ci ha raccontato.

Il Giro è la tua corsa di casa, possiamo dirlo.
Sì, però stranamente è solo il secondo per me. E a dire il vero non ho un bel ricordo del primo, nel 2020, quando mi sono dovuto ritirare alla quinta tappa perché ero ammalato. Però mi piace sempre correre in Italia, spero che questo Giro vada meglio. Ho fatto tante volte la Tirreno e la Sanremo, mi piace.

Qual è la cosa più bella dell’Italia, di cui non puoi più fare a meno.
Il cibo, ovviamente. Quella è una cosa che mi piace. È difficile a volte arrivare a fine gara, in certi alberghi, e trovare la pasta stracotta o cose simili. Sto diventando un po’ difficile sul cibo, ma quando torno a casa è qualcosa che apprezzo davvero. E poi il ritmo di vita. E il clima: sul Lago di Garda, dove vivo, anche in inverno raramente mi prendo pioggia o freddo. Sono cose che a un corridore fanno piacere.

Ma cucini anche tu? Qual è il tuo piatto forte?
Non ho un piatto speciale, ma faccio la pasta, i risotti, mi piace anche cucinare la carne. Mi piace tutto! Anche i dolci…

E Martina Alzini, la tua collega e compagna, quali tuoi piatti apprezza?
Mah, ti direi il risotto… ma da quando Martina ha preso il Bimby in realtà non cuciniamo più, fa tutto il robottino! So che è diverso dal risotto di un cuoco ma va così, anche perché il tempo è sempre poco.

C’è qualcosa che devi ancora capire dell’Italia? In cosa non sei italiano?
Lasciami pensare… magari il caffè. Pensa che quando sono arrivato qua non avevo mai bevuto un caffè in vita mia. Adesso sì, inizio a berlo, ma senza zucchero proprio faccio fatica, non riesco. Per il resto mi sono davvero abituato all’Italia.

Tu in bicicletta fai tante cose diverse: pista, crono, sei forte in discesa, lanci le volate. Qual è la cosa che ti piace di più?
Le fughe. Mi piace andare in fuga. Giocare con il gruppo. Provare a battere le squadre dei velocisti. Non mi è capitato tante volte, ci ho provato anche al Tour de France o in altre grandi gare. Però è una cosa che mi piace. Anche aiutare i compagni mi piace, ma giocarmela in fuga è la mia cosa preferita del ciclismo su strada.

Come si fa ad andare in discesa come vai tu?
Mah, bisogna non pensare troppo ai rischi. Comunque oggi in gruppo vanno forte tutti. Bisogna essere consapevoli, prendere un po’ di anticipo sulle curve più pericolose perché se sbagli una curva puoi perdere anche 20-30 posizioni e per rimontare poi devi aspettare un momento tranquillo.

Una caratteristica dei ciclisti francesi è l’essere intellettuali: scrivono, leggono, dicono cose un po’ filosofiche. Anche tu hai questa tendenza o il tuo essere ormai italiano ti rende diverso?
Non sono tanto così. Prendo il mio compagno Guillaume Martin, che pure è appassionato di filosofia… A me piacciono queste cose, ma non è la mia passione. Leggo poco, ma penso che sia un modo di staccare la testa dal ciclismo e avere una visione diversa del nostro sport. Lo apprezzo, ma devo dire che non è il mio modo di fare. A me piace di più ascoltare la musica, anche italiana. Ascolto di tutto, dai Måneskin fino al rap. Le cose più classiche, come Vasco Rossi o Toto Cutugno, non le ascolto tanto.

Facci qualche nome.
Gué Pequeno, Club Dogo. Martina è un’appassionata e io ascolto con lei, siamo anche andati ai concerti di Marracash, di Gué. Mi piacciono. Ma poi io amo anche i Måneskin, mi piace la loro musica (l’esultanza a Lucca è stata un tributo a “Zitti e Buoni”, ndr), anche se al loro concerto non sono mai stato. Anche perché sia io che loro viaggiamo in tutto il mondo, è difficile coincidere, e non puoi andare a un concerto il giorno prima di una gara!

L’intervista integrale a Benjamin Thomas è andata in onda nella puntata di GIRONIMO del 4 maggio. Il nostro podcast sul Giro d’Italia, realizzato in collaborazione con Shimano, va in onda ogni sera su Spreaker, Google podcasts, Deezer, Spotify e Apple podcasts.

Foto: Sprint Cycling Agency


Quando si alza il vento

Era una linea, dritta, come una squadra di sentinelle. Si erano messi uno di fianco all'altro lungo il pendio, una di quelle scene che capita di vedere sui crinali nei tapponi di montagna dei grandi giri. Invece era Hoogerheide, nel Brabante Settentrionale, e se uno fosse riuscito a prolungare lo sguardo oltre agli alberi, agli edifici, ai piloni dell'elettricità, avrebbe visto il mare. Adrie van der Poel, che ha collocato questo paesino sulla mappa ciclistica mondiale, prima nascendovi e poi tramutando la corsa locale di ciclocross nell'appuntamento internazionale del Grote Prijs Adrie van der Poel, lo descrive proprio così il Brabante: «da una parte ci sono i boschi, i villaggi, dall'altra basta andare sempre dritti e si arriva al mare».
Tutta quella gente sul crinale non aveva però alcun interesse a vedere il mare. Al massimo potevano respirarne una zaffata quando si alza il vento, o ringraziarne l'influsso che ha regalato un'anomala giornata di sole, ma lo sguardo era puntato molto più vicino, su un oceano di teste e cartelli, berretti colorati, pon pon iridati, e su una riga che li tagliava, a zig zag, ripetutamente. A vederla arrivare, quella marea, pareva sì un fiume, ma in piena. Venivano giù lungo Huijbergsweg, la via che taglia questa porzione di Hoogerheide, dal fondo, dove ogni campo era stato convertito in parcheggio, fino alla rotonda che immetteva al circuito. E alla rotonda si congiungevano con un'altra onda di piena, più piccola, che drenava la zona più a sud lungo Ossendrechtsweg, per unire le forze e invadere la pianura, il bosco, il crinale. Sui botteghini i cartelli erano già chiari a fine mattina: verkoopt, tutto esaurito. Quarantamila persone, forse cinquantamila se ci si aggiungono tutte le altre presenze non passate dalla cassa, sono una cifra abnorme, gigante, persino eccessiva per questo parco, per questo villaggio che fa suppergiù seimila abitanti. Ma troppo forte era il richiamo di un mondiale che tornava "a casa" dopo l'edizione a porte chiuse del 2021, di una sfida tra i due fenomeni locali – e globali - che aveva tutto il sapore dello scontro finale. Ce n'era a sufficienza per farsi marea, e per sfidare il naufragio, con o senza mondiale.
Già perché negli esondanti vialetti del parco di Hoogerheide, nei tremanti tendoni, nei sovraffollati prati che le linee sempre più numerose del crinale potevano studiare con minuzia, la corsa è diventata un contorno. C'è da scommetterci che buona parte dei presenti non abbiano visto un minuto delle gare, non abbiano quasi appreso i risultati se non fosse per il boato che ha accompagnato l'ennesimo sprint di Van der Poel, che sarebbe stato boato uguale se per una volta l'avesse spuntata Van Aert, perché quando si ha il grido in gola quello si fa, si grida. Quella linea dritta, quelle linee dritte, hanno preso ora dopo ora le sembianze della curva di uno stadio, un calorosissimo gruppo ultras che era venuto fino a Hoogerheide per urlare il proprio amore per il ciclismo, solo per il ciclismo (o forse anche per la birra). E proprio come dicono i più convinti tra gli ultras, "della partita non ce ne importa niente". Lo dicono con altri termini, ma il concetto è quello. Non importa la gara, non importa il vincitore, né i piazzati, né gli ultimi arrivati. Importa solo l'abbraccio: mettersi in linea e gridare amore con i propri corpi, diventare marea. E alla fine è evidente chi ha vinto a Hoogerheide 2023: hanno vinto tutti.


Quelle cose che noti a Hoogerheide

La prima cosa che si nota, una volta arrivati al parco di Hoogerheide, è il gigantesco prefabbricato dedicato all'accoglienza degli ospiti. Una creatura articolata di acciaio e plastica che si estende su due piani per 150 metri di lunghezza; sembra un incrocio tra un incubo uscito dalle raccolte di "Padania Classics" e la tribuna degli scommettitori di un ippodromo. E sta sempre lì, occhieggia sullo sfondo di quasi ogni passaggio del circuito. Incombe.

La seconda cosa che si nota, una volta arrivati al parco di Hoogerheide, è il labirinto di tubi, scale e passerelle che ha l'obiettivo di trasformare il paesaggio in buona parte pianeggiante in un selettivo circuito da ciclocross. Adrie van der Poel, che il tracciato l'ha disegnato senza disdegnare la aspettative del figlio, favorito numero 1 per la prova élite maschile, dice che è più duro di quanto sembri, più di quanto si è abituati all'annuale appuntamento col suo omonimo GP. Eppure la prima gara scorre via velocissima, aiutata da un clima inaspettatamente gentile a queste latitudini, in questa stagione.

La terza cosa che si nota, una volta arrivati al parco di Hoogerheide, sono insieme una presenza e un'assenza. Perché oggi a Hoogerheide ci saranno sì e no un migliaio di persone. La maggior parte sono atleti e meccanici in ricognizione, e il fondamentale esercito pacifico di lavoratori che rende possibili questi appuntamenti, e il ciclismo tutto. Ma manca qualcuno. La staffetta mista è prova molto spettacolare ma troppo giovane per intrigare il grande pubblico, tanto più un un venerdì lavorativo. E così il parco di Hoogerheide si vede, si vedono i prati e gli alberi, si sente persino qualche uccello cinguettare. È il bosco brabantino che respira, prende fiato prima di un weekend in cui saranno il calpestio di migliaia di piedi, le urla di migliaia di gole, lo scorrere di migliaia di birre a farla da padrone. Dicono gli organizzatori di aver venduto circa trentamila biglietti soltanto in prevendita, altri diecimila sono attesi in coda ai botteghini nella giornata di domenica. Hoogerheide è una festa abituale del ciclocross, da oltre vent'anni celebra la dinastia dei Van der Poel e intende continuarlo a fare anche quest'anno, con numeri sempre più grandi.

L'ultima cosa che si vede, uscendo dal parco di Hoogerheide, è una lunga fila di ragazzini in bicicletta, fermi, vestiti con gilet fluorescenti. E un'altra lunga fila che li raggiunge alla rotonda che immette nel circuito, dividendosi la strada con la nazionale dei Paesi Bassi quasi al completo (Mathieu van der Poel non c'è) che si scalda pedalando sull'asfalto. Ci sono delle grida pacate, dei saluti, qualche scampanellata, poi le due file si ricongiungono e pedalano via, a gruppo compatto. È l'ora dell'uscita delle scuole, i ragazzini tornano a casa, e a Hoogerheide si fa quello che si fa ogni giorno, mondiali o non mondiali: si pedala.


125 anni di attesa

Testo e interviste: Filippo Cauz
Interpretazione: Filippo Cauz, Claudio Ruatti
Sound design: Brand&Soda

Tra Hornaing e Wandignies la strada, se così la possiamo chiamare, scorre parallela a un fosso. È un tratto comune a tante strade nelle campagne di questa zona del nord francese, a ridosso del confine belga, sempre che si possa chiamarle proprio strade. Anche il dubbio lessicale, in effetti, è un tratto che le accomuna tutte.
Ciclisticamente si chiamano settori. Sono numerati a scalare e contraddistinti da stellette come fossero alberghi. Ma se nel turismo le stelle vanno di pari passo col comfort, alla Parigi-Roubaix sono il metro di valutazione del disagio. Sulla mappa della corsa, il settore numero 17, Hornaing à Wandignies, è indicato con quattro stelle, ovvero: vade retro. 

La strada – continuiamo a chiamarla così – è una riga grigio-beige di pietre scomposte. Al centro, la terra e il fango illudono sull’uniformità delle pietre, ma verso i margini i blocchi di pavé scoprono spigoli vivi come denti aguzzi in un sorriso minaccioso. Tra una pietra e l’altra, naufragati in canyon profondi pochi centimetri, si affacciano dei sassolini e qualche detrito. Qualcuno ha rabberciato i tratti peggiori con piccole colate di cemento, sporadiche lingue più grigie del grigio che si ricongiungono come flussi lavici agli irregolari margini stradali, perlopiù invisibili, nascosti dalle pozzanghere e dal fango. 

E quando si alza lo sguardo ai lati della sede stradale, i panorami si alternano senza alcuna fantasia. A sinistra i cespugli, qualche albero sbatacchiato dal vento, una casa o una stradina qua e là, un po’ di pali elettrici. A destra i campi, quasi solo i campi, con le reti che li delimitano e due grandi silos che si stagliano nell’orizzonte. In mezzo, tra la strada di pietre sconnesse e le reti che segnano i confini dei campi, c’è il fosso. 

Stranamente, il fosso è asciutto. Il clima umido, il cielo grigio e il fango marrone, farebbero pensare diversamente. Tanto che è dentro al fosso che due famigliole della zona si sono appostate per veder passare la corsa.
Hanno parcheggiato il passeggino di uno dei piccoli faccia alla direzione di gara e al vento, un altro bimbo lo hanno preso in braccio, gli ultimi due ragazzini saltano e si rotolano nel fosso.
Il freddo spinge le mani in fondo alle tasche, solo uno dei padri cede all’impulso di immortalare il passaggio con la fotocamera di un cellulare. I ragazzini hanno giacconi pesanti e ridono. Quante centinaia di volte gli sarà capitato di buttarsi nei fossi nella loro infanzia di campagna? Eppure il gioco resta intatto, la gioia uguale, come se intorno non stesse accadendo nulla di nuovo. E mai percezione fu più falsa, perché lì davanti qualcosa di nuovo sta accadendo eccome.

Arriva la corsa, la si sente prima nelle orecchie, poi nel mulinare dell’aria, quindi in una sorta di vibrazione elettrica. Arriva la corsa ed è un esordio per tutti, tranne che per il gioco del fosso: è il primo settore in pavé della prima edizione femminile della Parigi-Roubaix. Ed è la prima ciclista a transitare di lì. Prima tra le prime il giorno della prima. 

I bambini si issano dal fosso: dritti sulle gambe o accovacciati osservano con un certo stupore lo spettacolo naturale di un corpo così atletico ed efficace. Non sanno che Lizzie Deignan, partita all’attacco quasi involontariamente all’imbocco del settore 17, non cambierà mai la sua posizione in classifica. E non sanno, o forse non considerano, la straordinarietà di questo momento. Ma scrutano stupiti, strizzano gli occhi per schermarli dal vento e cercano di vivere questo istante esatto. Forse lo ricorderanno a lungo, forse l’hanno già scordato troppo presi dal richiamo del fosso. Non sempre ce ne si rende conto quando la storia ci passa davanti. Non sempre, ma in questo sabato di inizio ottobre sì, più che mai, questo sabato si fa la Storia.

Quest’ingombrante presenza con la S maiuscola, termine dentro al quale sono racchiusi tutti gli avvenimenti che hanno interessato la specie umana negli ultimi due milioni abbondanti di anni, si aggirava in maniera ben percepibile nel centro di Denain, sabato 2 ottobre 2021. In quasi un migliaio di anni di vita, la cittadina francese aveva avuto poche occasioni per incrociarsi con la Storia.
Sia ben chiaro, ogni luogo e ogni essere vivente ha la sua storia, e sono tutte storie importanti, ma andando a ritroso negli annali di questa cittadina campagnola del Dipartimento del Nord si trova poco più di una singola traccia: la Battaglia di Denain, che nel 1712 vide l’inizio della controffensiva francese durante la Guerra di Successione. Fino al 2 ottobre 2021, quando il richiamo dell’eternità irrompe nel parcheggio di Rue de Villars dove fino a poco prima girava solo un furgoncino dai cui altoparlanti si annunciava lo spettacolo de Le Cirque Français, in programma alle 16.

Uno dopo l’altro si allineano i mezzi delle squadre e ne escono a ondate cicliste sorridenti e orgogliose. Because something is happening here, direbbe Bob Dylan. Qualcosa sta accadendo, e sta accadendo esattamente qui e ora.

Annemiek van Vleuten è assediata dai microfoni, ed è felice, perché «possiamo mostrare che le donne tenaci possono correre gare dure come la Roubaix».
Anche Elisa Balsamo è circondata, gli occhi seguono il candore di una maglia iridata fresca di una settimana, il cui bianco durerà ben poco: «alla fine oggi faremo la storia, quindi correre con questa maglia è qualcosa di incredibile».
Un’opinione condivisa da tutte, a partire dalla più titolata, Marianne Vos: «Credo che sia una cosa grande essere qui», dice Vos.
Una corsa il cui valore va oltre il semplice evento sportivo, come nota Marta Cavalli: «È una bella occasione per noi perché è un altro passo verso l’essere considerate uguali al mondo maschile».

E questo passo non è stato completato in un giorno. C’è voluto tanto lavoro e tanta pazienza. Anche tanta attesa, per una gara che era stata annunciata il 5 maggio del 2020, inserita a sorpresa per l’autunno in un calendario rivisto dopo l’arrivo della pandemia, e infine rinviata di nuovo alla primavera successiva. E poi di nuovo in autunno. Finalmente, dice Elena Cecchini.

«Sono felice che finalmente ci sia questa gara. Perché l’abbiamo voluta tanto e aspettata altrettanto. Il nostro movimento sta migliorando e sviluppandosi di più anno dopo anno. Abbiamo sempre più gare, per cui questo era un grande obiettivo per noi. Penso che ci meritiamo questa classica oggi».
Tanto che ciò che si percepisce alla partenza è soprattutto emozione. Elisa Longo Borghini trema.

«È sicuramente emozionante essere qui oggi. Un po’ tremo per il freddo e un po’ per l’emozione, per la verità. L’ho sempre pensato realizzabile. Oggi è un bellissimo giorno per il ciclismo, e spero che anche voi possiate godervi lo spettacolo».
C’è tensione, c’è emozione, c’è paura e c’è curiosità al via di Denain. C’è soprattutto attenzione. Marta Cavalli non aveva mai visto un’attenzione del genere.

«Abbiamo avuto a che fare per quattro giorni con giornalisti da tutte le parti, cosa mai successa. A livello mediatico ha un bacino d’utenza enorme che non avevamo mai visto. Quindi tra di noi scaturisce anche un po’ più di tensione per questo punto di vista».

Eppure la corsa è la corsa, e anche la storica emozione si stempera mano a mano che le squadre si susseguono al foglio firme e le cicliste si dispongono in strada, pronte a partire.
Sono solo 115,6 i chilometri in programma, motivo per cui la partenza è prevista addirittura nel primo pomeriggio. Sul bus della Trek, Lizzie Deignan inganna l’attesa leggendo un libro, ma la stagione è stata lunga e arrivata a inizio ottobre la stanchezza fa sentire la sua presenza più che mai, tanto che Lizzie finisce presto per appisolarsi sul libro. Uno sbadiglio, gli occhi chiusi, il sonno che arriva e si prende qualche momento, quando meno ce lo si aspetterebbe. La sua compagna Longo Borghini se ne accorge, la guarda e pensa: oggi vince lei. 

Alla partenza della corsa più attesa dell’anno, attesa da più di due anni per i ripetuti rinvii, Deignan è talmente rilassata che si addormenta.  Una trentina di chilometri più avanti sarà già da sola.

Non era programmato l’attacco. Voleva soltanto prendere il pavé davanti per evitare guai. 

Non era attesa una fuga vincente di 82 chilometri, più di quanto abbiano mai fatto Tom Boonen, Fabian Cancellara o gli altri grandi interpreti della Roubaix in questo millennio. 

E non era prevista l’attenzione di fotografi e giornalisti verso le sue mani prive di guanti, che al traguardo sono colorate di sangue. I guanti, Lizzie non li usa mai, e non li ha indossati nemmeno qui. Come attenzione extra ha deciso solo di sfilarsi l’anello nuziale e attaccarlo ad una collanina al collo. 

Non era stato pianificato nulla in questa giornata storica, eppure tutto è andato alla perfezione. D’altronde la Storia raramente è prevedibile, si può girarsi indietro e leggerne i segnali a posteriori, ma quando i fatti accadono lo fanno quasi sempre col fragore della sorpresa. Così Lizzie si avvantaggia appena il pavé fa la sua comparsa in gara. E se ne va. 

Transita davanti ai bambini che giocano nel fosso a Wandignies con le avversarie poco distanti, che si interrogano se sia il caso di andarle dietro o si domandano che effetti hanno sortito le prime cadute. Se ne va da sola a Orchies, dove rombano i camion sulla vicina autostrada. Pedala in solitaria a Mons-en-Pévèle, dove la pioggia è cominciata a cadere accumulando a bordo strada pozzanghere d’acqua marrone che l’indomani saranno strabordanti piscine in grado di rendere ogni pietra uno scivolo e ogni volto una maschera. Resiste all’inseguimento a Templeuve, tra tifosi belgi che hanno allestito improvvisati salotti all’asciutto nei cassoni dei camion e abitanti locali che, addossati ad alti ziggurat di balle di fieno, urlano a tutte indistintamente: «Allez! Tout va bien!».
È sola sul Carrefour de l’Arbre, dove le lumache sono tornate a prendere possesso degli umidi campi autunnali, finita la stagione del raccolto delle barbabietole da zucchero che ha reso il panorama più omogeneo che mai. E stringe i denti al comando tra Willems e Hem, settore due ovvero penultimo, dove le pozzanghere si sono mischiate con i liquami che colano dal letame. 

È uno sport di merda, diceva un video ciclistico di successo. 

Oggi Deignan non sarebbe d’accordo, e con lei nessun’altra delle partecipanti.

La pioggia cade leggera sul velodromo André-Pétrieux di Roubaix quando Lizzie Deignan sbuca in pista. È un’immagine che chiunque segua il ciclismo ha visto decine, se non centinaia di volte: l’ultimo vialetto lastricato in città, la doppia curva, il boato della folla. 

No, non è vero, è un’immagine che non aveva mai visto nessuno. 

Nell’aprile del 1895 gli imprenditori tessili Theodore Vienne e Maurice Perez cominciarono a costruire un velodromo nel parco che divideva i comuni di Croix e Roubaix, lo chiamarono Roubaisien. Per pubblicizzare il nuovo impianto proposero al giornale parigino Le Vélo di organizzare una corsa, con partenza dalla capitale e arrivo al velodromo.
Esordì nel 1896 e oggi, 125 anni più tardi, è il velodromo di Roubaix ad accogliere Lizzie Deignan per il suo rituale di un giro e mezzo. Non più il medesimo velodromo, ma il suo erede, sorto sulle sue ceneri. È una storia che continua: pochi metri più in là, sorge il velodromo regionale coperto Jean Stablinski, quello che due settimane dopo l’arrivo di Lizzie Deignan ha ospitato i campionati del mondo su pista del 2021. Cambiano le architetture, rimane il rituale, il giro di pista.
Una processione ellittica che dopo un secolo e un quarto continua a rendere omaggio a quel velodromo a cui si deve l’idea della Roubaix. Luogo unico e sacro dove il pubblico accede ancora gratuitamente e applaude chiunque irrompa sull’anello di cemento.

Si affacciano una dopo l’altra, sotto una pioggia leggera che si farà diluvio nella notte, e c’è un elemento che riunisce tutte le partecipanti: il sorriso. Dentro quei sorrisi ci sono gioia, stupore e soprattutto orgoglio. Quasi nessuna si accascia subito sul prato, quasi nessuna si precipita immediatamente verso le docce. Tutte vogliono prima abbracciarsi e in ogni abbraccio condividere le emozioni del giorno in cui sono divenute protagoniste della Storia. 

Per Deignan l’ingresso in velodromo è stato surreale. Marta Cavalli non riesce a frenare l’emozione e non vede l’ora di riviverla. «Purtroppo ero e sono abbastanza stanca e non me la sono potuta godere a pieno. Probabilmente domani alla televisione me lo riguarderò e potrò dire: io c’ero, ero tra i primi concorrenti che sono entrati nel velodromo».

Audrey Cordon-Ragot è in lacrime. Le atlete e lo staff della NextGen Racing si stringono tutte, tra loro c’è anche Britt Knaven, che completa la Roubaix vent’anni dopo la vittoria di suo padre, Servais, nell’edizione più fangosa di questo millennio. 

Teniel Campbell taglia il traguardo fuori tempo massimo mano nella mano con la compagna Jessica Allen. È tentata di salire sulla curva parabolica ma l’asfalto umido la intimorisce un po’. Così si ferma al centro, raggiante. «Ero felicissima. Mi sono divertita così tanto. Ho incrociato le dita e sperato così tante volte di non cadere ma è stato così maledettamente fantastico. Non vedo l’ora che sia l’anno prossimo per rifarla e spero che piova di nuovo, è molto più bella così che con l’asciutto», dice. E ride.

Le condizioni estreme nella corsa che per più di un secolo è stata ritenuta di suo troppo estrema per le cicliste hanno finito per sottolineare il fascino di una gara che, come dice Elisa Longo Borghini «è fatta di caos e cadute; bisogna solo abbracciare il caso e sapere che si sfiderà l’ignoto». 

Al suo fianco, ad accompagnarla sul podio, c’è Marianne Vos. Favorita alla partenza ma solo seconda al traguardo, la nederlandese è ugualmente sorridente e consapevole di quanto ha appena vissuto: «non poteva esserci di meglio che la pioggia e il fango, hanno reso questa giornata più epica». 

Certo, quella che resta da fare è ancora una lunga strada, sempre che si possa chiamare strada.
Nonostante il peso del suo status, la Roubaix femminile è stata confinata a soli 115,6 chilometri, meno della metà di quanti ne hanno affrontati gli uomini l’indomani.
E non è un caso isolato. Poche settimane dopo l’Inferno del Nord è stato presentato il ritorno del Tour de France femminile, previsto nel luglio del 2022, a 19 anni di distanza dall’ultima edizione completa. Ma sarà solo una settimana di corsa, a fronte delle tre riservate agli uomini. 

Le televisioni hanno mostrato soltanto un’ora e mezza di corsa della prima Parigi-Roubaix femminile. Una differenza notevole rispetto alle dirette integrali delle prove maschili, e in questo caso anche un clamoroso buco nell’acqua perché il collegamento ritardato non si è perso soltanto una partenza storica ma pure l’azione che ha deciso la corsa. «È come se nel tennis le dirette delle partite femminili cominciassero dal secondo set», ha commentato la giornalista ed ex-ciclista Kathryn Bertine. 

E nonostante l’interesse globale, meno visibilità corrisponde a meno soldi, un problema che appare ben lontano dall’essere risolto. Lo si legge chiaramente nella tabella delle somme spettanti ai vincitori, con i settemila euro di montpremi per la prova femminile che rappresentano un tredicesimo dei novantunomila stanziati per la gara maschile della domenica. Con i suoi 1’535 € Lizzie Deignan ha guadagnato venti volte in meno di Sonny Colbrelli, seppur vincendo la medesima corsa. Persino il sesto classificato Christophe Laporte ha riscosso un premio più sostanzioso. 

Eppure il destino ha voluto che la corsa femminile andasse a una ciclista della Trek, la squadra che sin da inizio stagione ha deciso di integrare le differenze, pareggiando la somma dei premi tra gare maschili e femminili. Una bella beffa della Storia, nel giorno in cui si è fatta concreta.

Ci sarebbero tanti elementi in più per definire storica la Roubaix del 2021. Una corsa fissata e rimandata per tre volte e infine disputata in autunno, un’altra prima volta. 

Alla giornata memorabile del sabato è seguita una notte di acqua a catinelle e una domenica ancor più infangata. La Roubaix non si correva in condizioni simili dal 2002, e già questo è un fatto eclatante. Così come ancor più sorprendente è assistere a un podio occupato per intero da corridori all’esordio nella classica del pavé: una gara in cui contano fortuna ed esperienza, che non premiava un esordiente dal 1953, di colpo si è concessa ai debuttanti, per un intero weekend. 

Usciti tutti dal fango, dal vincitore Sonny Colbrelli, che si rotola inzaccherato per celebrare il risultato più importante di una carriera, sino a Tom Paquot, ventunenne belga della Bingoal che la sua prima Roubaix l’ha conclusa quaranta minuti più tardi. Fuori tempo massimo come altri nove corridori, tra cui il vincitore del 2014 Niki Terpstra, ma ultimo corridore a varcare il cancello del velodromo. Coperto di melma, come Colbrelli, e come lui in lacrime. «Nei cinque chilometri conclusivi ho pianto di più che negli ultimi due anni della mia vita», ha detto Paquot all’arrivo, godendosi un ultimo giro sotto il sole, a differenza di tutti coloro che lo hanno preceduto.

La storia distribuisce i suoi privilegi in maniera imprevedibile. A qualcuno un’accoglienza sotto il sole, a qualcuno un fosso in cui giocare, a qualcuno un trofeo di pietra da esibire in salotto, ad altri soltanto una doccia calda. 

Per raggiungere le docce più famose del ciclismo bisogna uscire dal velodromo, attraversare la strada e infilarsi in un anonimo edificio di cemento grigio. Un percorso a cui quasi tutti i ciclisti ormai rinunciano, preferendo i comfort dei bus delle squadre.
Al termine della corsa femminile, però, nessuna ha voluto rinunciare all’appuntamento, che rappresenta il completamento della lunga e strana avventura chiamata Parigi-Roubaix. 

Sono trascorsi 125 dall’inizio di questa storia, e per 125 anni ci sono stati solo uomini tra i vincitori, tra i direttori sportivi, tra i dirigenti delle squadre, tra gli organizzatori, tra chi ha governato il ciclismo e chi tutt’ora lo governa. Fino al 2 ottobre 2021.

Per ogni nome entrato nell’albo d’oro della corsa c’è una placchetta di metallo sulla parete di cemento di una doccia. Ora su una di quelle docce c’è anche il nome di donna, Lizzie Deignan, e non ci saranno acqua o fango in grado di cancellarlo. In attesa del prossimo nome, della prossima doccia, della prossima storia. 


Fayetteville, i protagonisti e i bambini

Il centro di Fayetteville, Arkansas, stasera ospita uno spettacolo diverso dal solito. C'è un palco, piccolo e illuminato, e ci sono i bambini della scuola cittadina che si dimenano eccitati. Si corre un campionato del mondo in città, ma i protagonisti sono loro: a ciascuno è stata assegnata una bandiera o un cartello con il nome di un paese. Sfileranno per i pochi passi necessari ad attraversare la piazza, sino al centro dei riflettori. Portabandiera inediti di una cerimonia inaugurale altrettanto bizzarra. Gli atleti, i protagonisti del mondiale di ciclocross, non ci sono. Il freddo e la tensione hanno tenuto tutti in albergo. Solo una manciata di rappresentati del Messico e del Costa Rica si sono spinti sino in piazza, nascosti tra il pubblico.
I bambini con le loro mascherine colorate sfilano e la piazza ha applausi per tutti. Per chi è in pantaloni corti come per chi sta ben intabarrato nella giacca a vento. Per chi fa ruotare il cartello come una majorette e per chi sbandiera come in parata. Quando passano i rappresentanti dell'Italia qualcuno urla "Pizza!" e qualcuno risponde con "Pasta!". Per la sfilata degli Stati Uniti si levano i boati. Il sindaco Lioneld Jordan grida "Hello everyone!" e il pubblico lo interrompe urlando "Yeah!". Anche Pieter Pools, il banditore ufficiale del comune di Geraardsbergen, Fiandre, interrompe la cerimonia: salta sul palco e saluta tutti i presenti. Il mondo è piccolo sotto i colori dell'iride.

Le corse inizieranno stasera, con la prova dimostrativa di una staffetta che ha cambiato il suo regolamento a poche ore dal via, ma l'attesa è tutta per i giorni che seguiranno, e per i protagonisti che stasera non si vedono. Per Belgio, Paesi Bassi e... tutti gli altri. Non si offendano, questi ultimi, ma da domani i riflettori sono su due nazionali su tutte, come sempre. Il Belgio ha fatto ancora una volta le cose in grande stile. È vero, manca la supernova di Wout van Aert a illuminarla, ma la selezione di Sven Vanthourenhout resta il faro del movimento. Hanno dedicato 90mila euro e un anno di organizzazione solo al trasporto di tutto il materiale: 70 telai, 175 paia di ruote, 650 tra gel e barrette, 150 paia di calze, 200 test rapidi per il Covid... e quasi tutti i favoriti per la prova degli uomini élite.

Eli Iserbyt ha vinto in lungo e in largo per tutta la stagione, senza quasi mai rifiatare. Toon Aerts lo insidia in casa, in una nazionale che però appare più unita del solito. Lo testimonia Michael Vanthourenhout, uno che non si fa problemi a rinunciare alle proprie ambizioni per favorire il capitano e amico Iserbyt. Il problema è che nella loro quiete aleggia un fantasma, e ha un'altra maglia. Tom Pidcock sarà il più talentuoso e il più titolato tra i corridori al via: il suo 2021 è stato un anno magico, e in questo mondiale che fa da ponte tra due stagioni vuole prolungare l'incanto.

Ma se la prova maschile sarà l'ultima, quella femminile sarà probabilmente la più attesa, una sfida agli altissimi livelli a cui gli ultimi anni ci hanno felicemente abituato. Un mondiale che avrebbe potuto essere una replica del campionato nazionale dei Paesi Bassi, se non fosse stato per i malanni che hanno bloccato in Europa Denise Betsema e Annemarie Worst. Ma anche così, al di là delle legittime speranze dell'ungherese Blanka Kata Vas e delle due nordamericane Meghalie Rochette e Clara Honsinger, ci si può attendere tanto arancione sul podio e una sfida stellare. In un angolo Lucinda Brand, iridata uscente e dominatrice assoluta della stagione, e nell'altro Marianne Vos, l'essere umano più straordinario di ogni tempo in bicicletta.
Ma un mondiale è molto di più delle due prove élite. E mentre sul palco di Fayetteville si susseguono i bambini, ci sono ragazzi e ragazze di una decina di anni più grandi che qualche chilometro più in là realizzeranno un sogno. Per loro contano poco i numeri ridotti, i campioni assenti, la distanza da casa. Conta essere qui, sul palcoscenico più grande del mondo. Per i risultati ci sarà tempo, il mondiale che comincia per juniores e under 23 sarà soprattutto meraviglia, e sarà un'avventura da raccontare.


Il richiamo delle Fiandre

Toco-toco-toco-toco. Il ritmo compulsivo delle pale dell’elicottero è diventato il sottofondo fisso di ogni grande corsa ciclistica su strada. Si alternano i commenti e i silenzi dei telecronisti e sotto va avanti, inesorabile, il toco-toco-toco-toco. Del variegato soundscape del ciclismo è l’elemento più riconoscibile, persino sulle strade è così che la corsa annuncia il suo appropinquarsi. Toco-toco-toco-toco. Siamo fortunati a poter godere delle corse dal cielo. Le inquadrature mostrano tutto: ogni scatto, ogni strada, ogni paesaggio. Solo una cosa non è dato vedere da lassù: il cielo. Ai recenti mondiali di Leuven il toco-toco-toco-toco si è mischiato con il vociare di una folla entusiasta e traboccante. Osservare le prove iridate in televisione, dall’alto di un elicottero, ci ha fatto venire una gran voglia di andare là, a vedere se due settimane dopo quelle strade sono cambiate, e a vedere finalmente il cielo che le illumina.

Le Fiandre sono una regione piccola (13.522 km², poco meno della Campania), ma sovrastate da un cielo enorme.
Non stupisce che siano da sempre terra di pittori, e non stupisce nemmeno che siano terra di ciclisti. Gente che col cielo ha a che fare in ogni istante, che dipende dalla sua luce e dal suo umore. La profondità di questo cielo sembra respirare, come se si potesse sentirne il suono vitale. Non più il toco-toco-toco-toco del ciclismo ma un ronzio ancestrale, il canto dell’Universo in espansione. Un passaggio di consegne sonoro che si coglie non appena arrivati a Leuven, in un soleggiato pomeriggio di ottobre. I nastri iridati che avevano addobbato la città nei giorni del Mondiale stanno progressivamente lasciando il posto ad enormi palloncini neri che annunciano un festival dedicato al Big Bang. Sarebbe un po’ azzardato sostenere che sia stata la drammaticità del cielo fiammingo a stimolare la teoria sull’espansione dell’Universo, eppure l’idea è nata proprio qui. 

Fu all’Università Cattolica di Leuven, uno degli atenei più antichi al mondo e tutt’ora il soggetto che anima la città, che Georges Lemaître si mise a studiare lo spettro luminoso delle galassie e formulò l’ipotesi dell’atomo primigenio, quella che oggi è universalmente nota come la teoria del Big Bang. Ma anche in campo ciclistico Leuven ha rappresentato a lungo una sorta di Big Bang. Alla fine dell’800 era ritenuta una città santa della bicicletta, come racconta la mostra sulla storia del ciclismo in città, allestita in occasione del mondiale al VeloDroom. 

Quella che oggi potrebbe essere un’anonima terra di nessuno fino a pochi anni fa ospitava un mastodontico ospedale. Ora attende di accogliere un nuovo teatro, ma nell’attesa che comincino i lavori è stata riempita da un velodromo immaginario (il nome è un gioco di parole con il termine droom, sogno). Cinquanta metri cubi di larice siberiano costituiscono un piccolo anello su cui pedalano adulti e bambini: all’uscita delle scuole è un improvvisato terreno di sfida, nel pomeriggio uno spazio di gioco e di immaginazione, la sera si apre ad eventi culturali. Il VeloDroom è un luogo effimero il cui scopo è ricordare che il ciclismo è più di un semplice sport, è un’esperienza che riunisce le persone, come hanno scritto gli ideatori. È proprio al VeloDroom che incontriamo Nan van Zutphen, storico del ciclismo locale e soprattutto pedalatore instancabile: in queste settimane sta completando il progetto di percorrere in bicicletta tutte le strade nel raggio di 50 chilometri dal centro cittadino, il che significa affrontare anche ogni strada di Bruxelles. È Nan che ci racconta di come Leuven sia stata una protagonista nell’epoca dei pionieri: tra fine ’800 e inizio ’900 poche città potevano contare su così tanti ciclisti, ma nei decenni successivi le corse hanno via via abbandonato le città per spostarsi nelle campagne del Nord. Nell’area del Brabante Fiammingo sono rimaste alcune semiclassiche: la Dwars door het Hageland, la Druivenkoers e soprattutto la Freccia del Brabante, che dieci anni fa ha spostato la sua partenza a Leuven. È stato l’inizio di un rilancio, culminato con un Mondiale che per il ciclismo locale può rappresentare davvero un nuovo Big Bang, un ritorno al centro dell’universo a due ruote. Le assicelle di legno del VeloDroom si colorano delle diverse tinte del tramonto, pennellate da un cielo che dall’arancione non esita a farsi scuro e poi tornare al rosso. Sono nubi che passano veloci, corrono di fretta come ciclisti in fuga, e indicano una direzione da cui trarre energia: obbligano lo sguardo a puntare verso Nord, verso un mare che non c’è, ma da cui tutto nasce e rinasce. 

E dal Nord delle Fiandre, dal Grote Markt di Anversa, ha preso il via anche l’avventura del Mondiale 2021. Nonostante ospiti il secondo porto più grande d’Europa, Anversa non è una città di mare. Sono le acque della Schelda a insinuarsi e farsi spazio tra le terre fiamminghe, ma nel farlo portano con sé un cielo tumultuoso e un’aria pungente che arrivano dritte dritte dal Mare del Nord. L’orizzonte del porto è tempestato da pale eoliche (mai un buon segno all’inizio di una pedalata), il cui serafico ruotare si scompone di riflessi nel caleidoscopio di vetri della Havenhuis, l’ultima opera completata in vita dalla geniale architetta irachena Zaha Hadid, che sul tetto di un vecchio edificio ristrutturato ha fatto atterrare una gigantesca struttura a specchi, a metà tra un diamante e la prua di una nave. È qui che si conclude ogni anno la Antwerp Port Epic, corsa che la settimana prima del Mondiale ha visto il ritorno alla vittoria di Mathieu van der Poel. E ci vorrebbero le gambe del campione neerlandese, la cui casa dista solo una decina di chilometri, per affrontare quel puzzle di nubi che il vento sta componendo sull’orizzonte, incastrando pezzo dopo pezzo.

Chiunque abbia assistito, anche solo in televisione, a una corsa ciclistica nelle Fiandre sa quanto il clima sia un elemento chiave. In ogni giornata è possibile incrociare le quattro stagioni: si parte con il calore del sole ed ecco che poco dopo un nuvolone ti scarica addosso un po’ d’acqua fresca, si fa una curva e ci si trova il vento in faccia per poi girare di nuovo e ritrovarsi sospinti e quasi sollevati tra le campagne. Perché sotto il cielo delle Fiandre tutto può succedere. Se così non fosse, non sarebbero le Fiandre. È un cielo che questa sua vivacità te la sbatte in faccia: scorrono i chilometri e cambiano i colori, le nuvole si addensano in forme che paiono concepite dalla mente di un pittore visionario per poi diradarsi e lasciare spazio ogni volta ad un azzurro diverso. A osservare il cielo ci si spiega con più facilità quanto accaduto una notte di fine ’600 a Mechelen, città che chiude la prima parte dell’avvicinamento a Leuven, rimasta ben impressa nella memoria degli appassionati di calcio degli anni ’80 per le imprese della squadra locale. 

In quella notte gli abitanti di Mechelen si riversarono in strada spaventati per il bagliore che si irradiava dalla torre cittadina. Presero scale e secchi d’acqua, convinti che si trattasse di un disastroso incendio, ma solo arrivati alla torre si resero conto che non era altro che lo splendore della luna piena che aveva attraversato la nebbia e le finestre del campanile. Da allora gli abitanti di Mechelen sono soprannominati maneblusser, i pompieri della Luna. Mai fidarsi dei cieli delle Fiandre. 

Da Mechelen il tracciato iridato svolta decisamente verso est, seguendo un panorama tutto nuovo. Le campagne conquistano l’intero spazio. Singole file di case affiancano le strade. Dalle finestre fanno capolino cartelloni iridati e nei cortili si accumulano le zucche appena raccolte. I paesi attraversati sembrano scomposti in decine di frazioni microscopiche, ogni tanto si avvista un piccolo campanile, altrove un bar, un municipio, fino alla comparsa dell’imponente negozio di biciclette di Niels Albert. È un segnale, siamo entrati in terra di fenomeni del ciclocross. Anche in questo caso, bastava chiedere al cielo, perché la pioggia si fa battente e tra i fili d’erba delle campagne comincia a muoversi in impercettibili onde il fango. 

E se si vuole imparare a domare il fango, bisogna andare a Baal. Poche case rosse, separate da strade strette in cui le aiuole rallentano il traffico. È questo il paese che ha dato i natali alla leggenda del ciclocross fiammingo, Sven Nys, ed è il paese dove Nys ha deciso di continuare a far crescere la sua passione, guardando verso un orizzonte che qui è occluso solo da una piccola collinetta. La chiamano Balenberg, ed è il luogo che oggi accoglie lo Sven Nys Cycling Center, una specie di paradiso del fuoristrada con un percorso permanente per ciclocross e mountain bike, un museo, una scuola di formazione che richiama ogni anno centinaia di bambini da tutto il Paese e, imboccando una scala sulla destra prima di una sfilza di maglie iridate in esposizione, una terrazza con bike-café dove recuperare dallo sforzo ed ammirare il panorama. Oggi la vista propone nuvole nere e tanto fango, un domani sarà sotto questo cielo che nascerà il nuovo fenomeno del ciclocross mondiale. Sempre che non sia già nato, cosa più che probabile. 

Non è soltanto il cielo a regalare sorprese pedalando nel Brabante Fiammingo. Ci pensano anche le strade a riservare visioni inattese. Poco dopo l’uscita da Tremelo può capitare di avvistare un gigantesco folletto di legno che si staglia tra prati sconfinati. Nessuna allucinazione, è solo una delle coreografie lasciate dal Rock Werchter, il festival che dal 1977 raduna ogni estate più di 120 mila persone. Poco più a Sud è un semplice cartello a suggerire una deviazione. 

È un richiamo comune ma irresistibile, quello di un birrificio.

Anche la storia di André Janssens, il mastro birraio di Hof ten Dormaal, nasce da un’improvvisa svolta sulla strada. Ce la racconta davanti alla stufa, mentre i suoi figli ci elargiscono assaggi di una straordinaria saison e delle loro lambic. Colpito da un infarto a 50 anni, André aveva perso il proprio lavoro nel marketing e si trovava davanti alla necessità di inventarsi una nuova vita. Fu durante un viaggio negli Stati Uniti che vide sulla strada il cartello di un birrificio in vendita. André non aveva mai fatto birre in vita sua, ma la strada lo aveva convinto. Nel 2009 ha trasferito tutto il materiale nella vecchia fattoria di Tildonk e ha avviato un processo unico di autoproduzione al 100%, dalla coltivazione di orzo e luppolo sino alla degustazione. All’uscita il cielo si è spalancato come un sipario su un caleidoscopio di colori, la luce tinteggia le nubi come un pittore. Mancano pochi chilometri a Leuven, ma sembra di percorrerli attraversando un quadro impressionista. 

Verrebbe voglia di tramutarsi in elicottero – toco-toco-toco-toco – e planare lentamente sulle strade della città, scompigliando i capelli del continuo via-vai di ciclisti di ogni genere che le percorre. Avanti e dietro tra il centro e la stazione, su e giù da salite che non saranno veri e propri muri ma costringono a smorfie abituali gli studenti che rientrano a casa, le mamme che portano i bambini, gli uomini con i cestini pieni della spesa per la cena. Le strade parlano di una città ciclistica e di una città del ciclismo. Le scritte sono ancora ovunque, pervasive. La maggior parte riguardano Wout van Aert e i corridori italiani: è ai tifosi di Marco Frigo, ventunenne veneto in gara a Leuven tra gli under23, che spetta il record per numero e dimensioni di scritte. Ma è tutto un tripudio di incitamenti e bande iridate: in ogni angolo della città e delle campagne circostanti si ritrova un richiamo al ciclismo, quello che occorre per dare la carica e affrontare di slancio ogni rampa. 

Tra una scritta e una bandiera si perde il senso della fatica, si sente un toco-toco-toco-toco immaginario salendo stretti tra i due muri che chiudono la vista sul Keizersberg, un tunnel a cielo aperto che solo un paio di settimane fa rimbobava di incitamenti. Li si può quasi avvertire mentre si scatta sul Wijnperstraat, la salita-simbolo del circuito cittadino dove le finestre dei piani bassi sono ancora decorate di disegni e piccoli tributi. In una delle ultime case un signore ha allestito la propria finestra con quello che ha trovato: una cartolina di Merckx che mangia, un cappellino, una miniatura di un camion della birra Bitburger. Poi una curva a destra e di nuovo l’abbraccio del cielo, il richiamo a tuffarcisi dentro, il naso in su pedalando tra le strade di campagna, le fattorie e i loro odori. E nuovi muri. Veri muri. Perché è quando ci si inoltra nel secondo circuito, a Sud della città, che i muri diventano quelli che ci si aspetta dalle Fiandre. 

Compare il pavé, e con lui le pendenze che spingono dritte dritte verso il cielo, tanto che a pedalare sullo Smeysberg sembra di non avere nulla all’orizzonte, solo una parete azzurra verso cui scagliare la propria fatica. Le decorazioni sull’asfalto non si limitano più alle scritte, è qui che il collettivo Puncheur ha cominciato ad allestire un museo diffuso di volti famosi del ciclismo: enormi faccioni che guardano dal basso, si lasciano accarezzare dalle ruote, accompagnano in una pedalata nella storia. Perché i muri del circuito iridato non sono quelli noti del Giro delle Fiandre, ma sono salite che hanno conosciuto la gloria della Freccia del Brabante, della Druivenkoers e infine del Campionato del Mondo, la corsa più grande di tutte, quella che attraversa il cielo come un arcobaleno. C’è il Moskestraat che si snoda nascosto dal cielo: una strada stretta tra gli alberi dove i suoni immaginari di tifosi ed elicotteri lasciano spazio al respiro del bosco, che si avverte in sincrono col fiato, un tutt’uno. C’è la s-bend di Overijse, chiamata così perché sembra proprio un tornante di montagna. Uno solo, che non si è in alta quota lo dice il cielo, ma del cielo non c’è mai da fidarsi e allora basta chiudere gli occhi e immaginare. Si può avanzare affidandosi agli odori, che raccontano una storia di campagna. È la stagione del raccolto delle patate: un gigantesco nastro trasportatore le sposta dal terreno verso enormi camion. C’è una piccola folla, poco più di un paio di famiglie in realtà, che ammira questo spettacolo. È il risultato del duro lavoro, sono la terra e il cielo che danno la vita.

I cicli si susseguono come le stagioni, e ad ogni stagione sorge anche un nuovo eroe nel ciclismo fiammingo. L’ultimo arrivato era uno che così dirompente non si vedeva da decenni, una stella che brilla in maniera accecante. In suo nome cambiano le abitudini dei tifosi e persino le insegne dei locali. Quella del bar In Den Congo di Vossem, pochi chilometri oltre Overijse oggi recita Remco Evenepoel Official Fanclub. Le sue maglie autografate si sono fatte spazio tra mazzi di carte incorniciati e i tabelloni di un totocalcio autorganizzato che ornavano le pareti del bar fino a un anno fa. Al bancone si parla solo di lui, mentre le birre si susseguono senza preoccupazioni economiche: in tutto il Belgio non esiste un bar con prezzi così bassi. Una piccola chiara qui costa ancora un euro. Sarebbe opportuno approfittarne, ma al traguardo mancano ancora una ventina di chilometri.

 

Al termine del penultimo giro del Mondiale, dopo aver provato ripetutamente a lanciarsi all’attacco, Julian Alaphilippe ha dato il colpo di grazia ai suoi avversari all’imbocco del Sint-Antoniusberg, il muro decisivo del circuito iridato. Definirlo muro in realtà è davvero eccessivo. A vederlo è poco più di una rampetta. A pedalarlo, idem. Una normale stradina di città, perdipiù utilizzata abitualmente con senso di marcia in discesa. Eppure è bastato questo piccolissimo sgambetto per permettere ad Alaphilippe di involarsi verso la seconda maglia iridata consecutiva: si capisce quanto gli avversari fossero tutti esausti. È più o meno la stessa ora di quel pomeriggio di fine settembre. L’avanzare dell’autunno ha anticipato il tramonto, e il cielo di Leuven regala un tramonto incandescente che brucia di rosso fuoco i mattoni delle case, le birre sui tavolini dei bar, il podio di iridato che ancora accoglie i turisti a Grote Markt. Solo i grandi palloncini neri del Big Bang Festival restano irrimediabilmente neri, testimoni di un cielo ancor più profondo dell’immensa distesa colorata che sovrasta la città. Il cielo di Leuven, città santa del ciclismo di ieri e di domani, stavolta non mente: il Big Bang c’è stato davvero, di nuovo.

SERVIZIO PUBBLICATO ORIGINARIAMENTE SU #ALVENTO18. PER RICEVERLO A CASA, CLICCARE QUI