Toco-toco-toco-toco. Il ritmo compulsivo delle pale dell’elicottero è diventato il sottofondo fisso di ogni grande corsa ciclistica su strada. Si alternano i commenti e i silenzi dei telecronisti e sotto va avanti, inesorabile, il toco-toco-toco-toco. Del variegato soundscape del ciclismo è l’elemento più riconoscibile, persino sulle strade è così che la corsa annuncia il suo appropinquarsi. Toco-toco-toco-toco. Siamo fortunati a poter godere delle corse dal cielo. Le inquadrature mostrano tutto: ogni scatto, ogni strada, ogni paesaggio. Solo una cosa non è dato vedere da lassù: il cielo. Ai recenti mondiali di Leuven il toco-toco-toco-toco si è mischiato con il vociare di una folla entusiasta e traboccante. Osservare le prove iridate in televisione, dall’alto di un elicottero, ci ha fatto venire una gran voglia di andare là, a vedere se due settimane dopo quelle strade sono cambiate, e a vedere finalmente il cielo che le illumina.

Le Fiandre sono una regione piccola (13.522 km², poco meno della Campania), ma sovrastate da un cielo enorme.
Non stupisce che siano da sempre terra di pittori, e non stupisce nemmeno che siano terra di ciclisti. Gente che col cielo ha a che fare in ogni istante, che dipende dalla sua luce e dal suo umore. La profondità di questo cielo sembra respirare, come se si potesse sentirne il suono vitale. Non più il toco-toco-toco-toco del ciclismo ma un ronzio ancestrale, il canto dell’Universo in espansione. Un passaggio di consegne sonoro che si coglie non appena arrivati a Leuven, in un soleggiato pomeriggio di ottobre. I nastri iridati che avevano addobbato la città nei giorni del Mondiale stanno progressivamente lasciando il posto ad enormi palloncini neri che annunciano un festival dedicato al Big Bang. Sarebbe un po’ azzardato sostenere che sia stata la drammaticità del cielo fiammingo a stimolare la teoria sull’espansione dell’Universo, eppure l’idea è nata proprio qui. 

Fu all’Università Cattolica di Leuven, uno degli atenei più antichi al mondo e tutt’ora il soggetto che anima la città, che Georges Lemaître si mise a studiare lo spettro luminoso delle galassie e formulò l’ipotesi dell’atomo primigenio, quella che oggi è universalmente nota come la teoria del Big Bang. Ma anche in campo ciclistico Leuven ha rappresentato a lungo una sorta di Big Bang. Alla fine dell’800 era ritenuta una città santa della bicicletta, come racconta la mostra sulla storia del ciclismo in città, allestita in occasione del mondiale al VeloDroom. 

Quella che oggi potrebbe essere un’anonima terra di nessuno fino a pochi anni fa ospitava un mastodontico ospedale. Ora attende di accogliere un nuovo teatro, ma nell’attesa che comincino i lavori è stata riempita da un velodromo immaginario (il nome è un gioco di parole con il termine droom, sogno). Cinquanta metri cubi di larice siberiano costituiscono un piccolo anello su cui pedalano adulti e bambini: all’uscita delle scuole è un improvvisato terreno di sfida, nel pomeriggio uno spazio di gioco e di immaginazione, la sera si apre ad eventi culturali. Il VeloDroom è un luogo effimero il cui scopo è ricordare che il ciclismo è più di un semplice sport, è un’esperienza che riunisce le persone, come hanno scritto gli ideatori. È proprio al VeloDroom che incontriamo Nan van Zutphen, storico del ciclismo locale e soprattutto pedalatore instancabile: in queste settimane sta completando il progetto di percorrere in bicicletta tutte le strade nel raggio di 50 chilometri dal centro cittadino, il che significa affrontare anche ogni strada di Bruxelles. È Nan che ci racconta di come Leuven sia stata una protagonista nell’epoca dei pionieri: tra fine ’800 e inizio ’900 poche città potevano contare su così tanti ciclisti, ma nei decenni successivi le corse hanno via via abbandonato le città per spostarsi nelle campagne del Nord. Nell’area del Brabante Fiammingo sono rimaste alcune semiclassiche: la Dwars door het Hageland, la Druivenkoers e soprattutto la Freccia del Brabante, che dieci anni fa ha spostato la sua partenza a Leuven. È stato l’inizio di un rilancio, culminato con un Mondiale che per il ciclismo locale può rappresentare davvero un nuovo Big Bang, un ritorno al centro dell’universo a due ruote. Le assicelle di legno del VeloDroom si colorano delle diverse tinte del tramonto, pennellate da un cielo che dall’arancione non esita a farsi scuro e poi tornare al rosso. Sono nubi che passano veloci, corrono di fretta come ciclisti in fuga, e indicano una direzione da cui trarre energia: obbligano lo sguardo a puntare verso Nord, verso un mare che non c’è, ma da cui tutto nasce e rinasce. 

E dal Nord delle Fiandre, dal Grote Markt di Anversa, ha preso il via anche l’avventura del Mondiale 2021. Nonostante ospiti il secondo porto più grande d’Europa, Anversa non è una città di mare. Sono le acque della Schelda a insinuarsi e farsi spazio tra le terre fiamminghe, ma nel farlo portano con sé un cielo tumultuoso e un’aria pungente che arrivano dritte dritte dal Mare del Nord. L’orizzonte del porto è tempestato da pale eoliche (mai un buon segno all’inizio di una pedalata), il cui serafico ruotare si scompone di riflessi nel caleidoscopio di vetri della Havenhuis, l’ultima opera completata in vita dalla geniale architetta irachena Zaha Hadid, che sul tetto di un vecchio edificio ristrutturato ha fatto atterrare una gigantesca struttura a specchi, a metà tra un diamante e la prua di una nave. È qui che si conclude ogni anno la Antwerp Port Epic, corsa che la settimana prima del Mondiale ha visto il ritorno alla vittoria di Mathieu van der Poel. E ci vorrebbero le gambe del campione neerlandese, la cui casa dista solo una decina di chilometri, per affrontare quel puzzle di nubi che il vento sta componendo sull’orizzonte, incastrando pezzo dopo pezzo.

Chiunque abbia assistito, anche solo in televisione, a una corsa ciclistica nelle Fiandre sa quanto il clima sia un elemento chiave. In ogni giornata è possibile incrociare le quattro stagioni: si parte con il calore del sole ed ecco che poco dopo un nuvolone ti scarica addosso un po’ d’acqua fresca, si fa una curva e ci si trova il vento in faccia per poi girare di nuovo e ritrovarsi sospinti e quasi sollevati tra le campagne. Perché sotto il cielo delle Fiandre tutto può succedere. Se così non fosse, non sarebbero le Fiandre. È un cielo che questa sua vivacità te la sbatte in faccia: scorrono i chilometri e cambiano i colori, le nuvole si addensano in forme che paiono concepite dalla mente di un pittore visionario per poi diradarsi e lasciare spazio ogni volta ad un azzurro diverso. A osservare il cielo ci si spiega con più facilità quanto accaduto una notte di fine ’600 a Mechelen, città che chiude la prima parte dell’avvicinamento a Leuven, rimasta ben impressa nella memoria degli appassionati di calcio degli anni ’80 per le imprese della squadra locale. 

In quella notte gli abitanti di Mechelen si riversarono in strada spaventati per il bagliore che si irradiava dalla torre cittadina. Presero scale e secchi d’acqua, convinti che si trattasse di un disastroso incendio, ma solo arrivati alla torre si resero conto che non era altro che lo splendore della luna piena che aveva attraversato la nebbia e le finestre del campanile. Da allora gli abitanti di Mechelen sono soprannominati maneblusser, i pompieri della Luna. Mai fidarsi dei cieli delle Fiandre. 

Da Mechelen il tracciato iridato svolta decisamente verso est, seguendo un panorama tutto nuovo. Le campagne conquistano l’intero spazio. Singole file di case affiancano le strade. Dalle finestre fanno capolino cartelloni iridati e nei cortili si accumulano le zucche appena raccolte. I paesi attraversati sembrano scomposti in decine di frazioni microscopiche, ogni tanto si avvista un piccolo campanile, altrove un bar, un municipio, fino alla comparsa dell’imponente negozio di biciclette di Niels Albert. È un segnale, siamo entrati in terra di fenomeni del ciclocross. Anche in questo caso, bastava chiedere al cielo, perché la pioggia si fa battente e tra i fili d’erba delle campagne comincia a muoversi in impercettibili onde il fango. 

E se si vuole imparare a domare il fango, bisogna andare a Baal. Poche case rosse, separate da strade strette in cui le aiuole rallentano il traffico. È questo il paese che ha dato i natali alla leggenda del ciclocross fiammingo, Sven Nys, ed è il paese dove Nys ha deciso di continuare a far crescere la sua passione, guardando verso un orizzonte che qui è occluso solo da una piccola collinetta. La chiamano Balenberg, ed è il luogo che oggi accoglie lo Sven Nys Cycling Center, una specie di paradiso del fuoristrada con un percorso permanente per ciclocross e mountain bike, un museo, una scuola di formazione che richiama ogni anno centinaia di bambini da tutto il Paese e, imboccando una scala sulla destra prima di una sfilza di maglie iridate in esposizione, una terrazza con bike-café dove recuperare dallo sforzo ed ammirare il panorama. Oggi la vista propone nuvole nere e tanto fango, un domani sarà sotto questo cielo che nascerà il nuovo fenomeno del ciclocross mondiale. Sempre che non sia già nato, cosa più che probabile. 

Non è soltanto il cielo a regalare sorprese pedalando nel Brabante Fiammingo. Ci pensano anche le strade a riservare visioni inattese. Poco dopo l’uscita da Tremelo può capitare di avvistare un gigantesco folletto di legno che si staglia tra prati sconfinati. Nessuna allucinazione, è solo una delle coreografie lasciate dal Rock Werchter, il festival che dal 1977 raduna ogni estate più di 120 mila persone. Poco più a Sud è un semplice cartello a suggerire una deviazione. 

È un richiamo comune ma irresistibile, quello di un birrificio.

Anche la storia di André Janssens, il mastro birraio di Hof ten Dormaal, nasce da un’improvvisa svolta sulla strada. Ce la racconta davanti alla stufa, mentre i suoi figli ci elargiscono assaggi di una straordinaria saison e delle loro lambic. Colpito da un infarto a 50 anni, André aveva perso il proprio lavoro nel marketing e si trovava davanti alla necessità di inventarsi una nuova vita. Fu durante un viaggio negli Stati Uniti che vide sulla strada il cartello di un birrificio in vendita. André non aveva mai fatto birre in vita sua, ma la strada lo aveva convinto. Nel 2009 ha trasferito tutto il materiale nella vecchia fattoria di Tildonk e ha avviato un processo unico di autoproduzione al 100%, dalla coltivazione di orzo e luppolo sino alla degustazione. All’uscita il cielo si è spalancato come un sipario su un caleidoscopio di colori, la luce tinteggia le nubi come un pittore. Mancano pochi chilometri a Leuven, ma sembra di percorrerli attraversando un quadro impressionista. 

Verrebbe voglia di tramutarsi in elicottero – toco-toco-toco-toco – e planare lentamente sulle strade della città, scompigliando i capelli del continuo via-vai di ciclisti di ogni genere che le percorre. Avanti e dietro tra il centro e la stazione, su e giù da salite che non saranno veri e propri muri ma costringono a smorfie abituali gli studenti che rientrano a casa, le mamme che portano i bambini, gli uomini con i cestini pieni della spesa per la cena. Le strade parlano di una città ciclistica e di una città del ciclismo. Le scritte sono ancora ovunque, pervasive. La maggior parte riguardano Wout van Aert e i corridori italiani: è ai tifosi di Marco Frigo, ventunenne veneto in gara a Leuven tra gli under23, che spetta il record per numero e dimensioni di scritte. Ma è tutto un tripudio di incitamenti e bande iridate: in ogni angolo della città e delle campagne circostanti si ritrova un richiamo al ciclismo, quello che occorre per dare la carica e affrontare di slancio ogni rampa. 

Tra una scritta e una bandiera si perde il senso della fatica, si sente un toco-toco-toco-toco immaginario salendo stretti tra i due muri che chiudono la vista sul Keizersberg, un tunnel a cielo aperto che solo un paio di settimane fa rimbobava di incitamenti. Li si può quasi avvertire mentre si scatta sul Wijnperstraat, la salita-simbolo del circuito cittadino dove le finestre dei piani bassi sono ancora decorate di disegni e piccoli tributi. In una delle ultime case un signore ha allestito la propria finestra con quello che ha trovato: una cartolina di Merckx che mangia, un cappellino, una miniatura di un camion della birra Bitburger. Poi una curva a destra e di nuovo l’abbraccio del cielo, il richiamo a tuffarcisi dentro, il naso in su pedalando tra le strade di campagna, le fattorie e i loro odori. E nuovi muri. Veri muri. Perché è quando ci si inoltra nel secondo circuito, a Sud della città, che i muri diventano quelli che ci si aspetta dalle Fiandre. 

Compare il pavé, e con lui le pendenze che spingono dritte dritte verso il cielo, tanto che a pedalare sullo Smeysberg sembra di non avere nulla all’orizzonte, solo una parete azzurra verso cui scagliare la propria fatica. Le decorazioni sull’asfalto non si limitano più alle scritte, è qui che il collettivo Puncheur ha cominciato ad allestire un museo diffuso di volti famosi del ciclismo: enormi faccioni che guardano dal basso, si lasciano accarezzare dalle ruote, accompagnano in una pedalata nella storia. Perché i muri del circuito iridato non sono quelli noti del Giro delle Fiandre, ma sono salite che hanno conosciuto la gloria della Freccia del Brabante, della Druivenkoers e infine del Campionato del Mondo, la corsa più grande di tutte, quella che attraversa il cielo come un arcobaleno. C’è il Moskestraat che si snoda nascosto dal cielo: una strada stretta tra gli alberi dove i suoni immaginari di tifosi ed elicotteri lasciano spazio al respiro del bosco, che si avverte in sincrono col fiato, un tutt’uno. C’è la s-bend di Overijse, chiamata così perché sembra proprio un tornante di montagna. Uno solo, che non si è in alta quota lo dice il cielo, ma del cielo non c’è mai da fidarsi e allora basta chiudere gli occhi e immaginare. Si può avanzare affidandosi agli odori, che raccontano una storia di campagna. È la stagione del raccolto delle patate: un gigantesco nastro trasportatore le sposta dal terreno verso enormi camion. C’è una piccola folla, poco più di un paio di famiglie in realtà, che ammira questo spettacolo. È il risultato del duro lavoro, sono la terra e il cielo che danno la vita.

I cicli si susseguono come le stagioni, e ad ogni stagione sorge anche un nuovo eroe nel ciclismo fiammingo. L’ultimo arrivato era uno che così dirompente non si vedeva da decenni, una stella che brilla in maniera accecante. In suo nome cambiano le abitudini dei tifosi e persino le insegne dei locali. Quella del bar In Den Congo di Vossem, pochi chilometri oltre Overijse oggi recita Remco Evenepoel Official Fanclub. Le sue maglie autografate si sono fatte spazio tra mazzi di carte incorniciati e i tabelloni di un totocalcio autorganizzato che ornavano le pareti del bar fino a un anno fa. Al bancone si parla solo di lui, mentre le birre si susseguono senza preoccupazioni economiche: in tutto il Belgio non esiste un bar con prezzi così bassi. Una piccola chiara qui costa ancora un euro. Sarebbe opportuno approfittarne, ma al traguardo mancano ancora una ventina di chilometri.

 

Al termine del penultimo giro del Mondiale, dopo aver provato ripetutamente a lanciarsi all’attacco, Julian Alaphilippe ha dato il colpo di grazia ai suoi avversari all’imbocco del Sint-Antoniusberg, il muro decisivo del circuito iridato. Definirlo muro in realtà è davvero eccessivo. A vederlo è poco più di una rampetta. A pedalarlo, idem. Una normale stradina di città, perdipiù utilizzata abitualmente con senso di marcia in discesa. Eppure è bastato questo piccolissimo sgambetto per permettere ad Alaphilippe di involarsi verso la seconda maglia iridata consecutiva: si capisce quanto gli avversari fossero tutti esausti. È più o meno la stessa ora di quel pomeriggio di fine settembre. L’avanzare dell’autunno ha anticipato il tramonto, e il cielo di Leuven regala un tramonto incandescente che brucia di rosso fuoco i mattoni delle case, le birre sui tavolini dei bar, il podio di iridato che ancora accoglie i turisti a Grote Markt. Solo i grandi palloncini neri del Big Bang Festival restano irrimediabilmente neri, testimoni di un cielo ancor più profondo dell’immensa distesa colorata che sovrasta la città. Il cielo di Leuven, città santa del ciclismo di ieri e di domani, stavolta non mente: il Big Bang c’è stato davvero, di nuovo.

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