Forza, c'è ancora strada

A Bergamo, alla partenza, un cartello recita “rinascerai Bergamo”. Cosa significa rinascere? È possibile? Se sì, per quante volte? Per quanto tempo? Per quante cose che ci accadono? Spesso rinascere significa dare anche solo un segnale. Vorremmo che “Il Lombardia” parlasse di questo. Parlasse di un dovere che ognuno può far proprio. Il dovere di andare avanti nonostante il dolore. Non solo perché la vita ci costringe ma perché lo vogliamo. Il dovere di farlo con rispetto, con cautela, con il ricordo a portata di mano, ma di farlo. Di più. Di farlo proprio per chi non può più e avrebbe tanto voluto. È l’unico modo che ci è concesso. Anche quando tutto è così diverso e transitarci è un pugno nello stomaco. Lo è Bergamo, lo è Como. Lo sono il Colle San Gallo, il Colle Brianza, la Colma di Sormano, il Civiglio o il San Fermo della Battaglia. E tuttavia c’è strada, c’è ancora strada, anche nei luoghi in cui il dolore è stato più cupo, più soffocante. Per questo “il Lombardia”, a Ferragosto, ci fa bene: pur fuori stagione, pur così strano, così diverso. Per questo quel mazzo di fiori ha commosso Norma Gimondi, ricordandole che papà, che solo un anno fa era ancora qui, non c’è più ma ricordandole anche tutto ciò che di lui è restato.

Queste cose volevamo già dirvele stamani poi abbiamo avuto paura, lo confessiamo. Perché le parole sono un conto, i fatti un altro. E vedere la caduta di Remco Evenepoel, lungo la discesa verso il lago di Como, è un fatto che non avremmo mai voluto vedere. Diciamo tutti di voler andare avanti nonostante il dolore ma poi, quando ce lo ritroviamo addosso, non basta più nulla, non bastano le parole. Abbiamo ripreso a scrivere solo quando le voci provenienti da qualche televisore ci hanno dato la speranza che Remco fosse sveglio, vigile, cosciente. Ora siamo più convinti che mai di volervele dire queste cose, perché poi la speranza offre questa forza. Anche la speranza è una piccola rinascita. Come quando, mentre si aspetta una notizia negativa, ne arriva una positiva e le gambe sembrano cedere. Ci si siede, non avendo la forza per camminare, ma si vorrebbe correre. È come scattare. Magari quando non hai più una goccia di energia e non sai nemmeno tu chi te lo fa fare. Nella vita, talvolta, devi farlo. Evenepoel lo farà.

Come lo hanno fatto in corsa Fuglsang, Vlasov e Bennet. A ottanta chilometri orari, anche loro in discesa, rovesciando qualche borraccia nel casco per il caldo. Ciascuno consapevole che ogni singolo metro sarebbe potuto costare tutto ma che bisognava andare, perché la strada era lì e l’unico modo di renderle onore era percorrerla. Con tutti i dubbi e le paure che solo gli umani hanno e i ciclisti, per quanto si voglia dire, sono umani. Solo umani. Per fortuna, diciamo noi. Perché diversamente non avrebbe alcun senso e faremmo altro. Poi le energie sono tornate, a Fuglsang come a noi. Così ha lasciato lì Bennet proprio quando sembrava dovesse accadere il contrario. Probabilmente fingeva. O forse no. Forse non ne aveva davvero più e ha ripescato le pedalate da chissà dove. Perché c’era ancora strada. Perché c’è ancora strada.

Forza.

Foto: Il Lombardia, Facebook


Diavolo di un Gerbi (e di un Evenepoel)

Che bellezza i vent'anni. Immaginatevi ad averli durante un Giro di Lombardia e magari vincerlo come Giovanni Gerbi, il diavolo rosso. O semplicemente poterlo correre, come Remco Evenepoel, lo spauracchio dei nostri tempi. Vent'anni: e chi mai potrà ridarceli.

C'è un filo che accomuna i vent'anni di Evenepoel e quelli di Gerbi e che potrebbe essere annodato. Su quel filo scorre il primo Lombardia della storia: lo vinse proprio Gerbi. La corsa nacque per chiudere la stagione e fino a un tempo nemmeno troppo lontano era definita “la classicissima”. La prima edizione si disputò nel 1905 e sarebbe dovuta essere la resa dei conti tra i clan di Cuniolo e Albini per una lite scoppiata dopo una serie di vittorie dell'uno sull'altro: era un 12 novembre e la corsa si svolse in mezzo al freddo al fango. Alla fine la vinse Gerbi, abile a metterci lo zampino, diavolo non per caso.

E visto che si ricorre a stratagemmi cabalistici: sarà il primo Giro di Lombardia (ahinoi chiamato ora Il Lombardia – che di accattivante non sembra avere nulla) per Evenepoel, a vent'anni – tanti quanti Gerbi quella volta. Un talento fiorito in primo pelo, con quella forza straripante che per qualcuno sfocia persino in arroganza. Quando parte non ti resta che vederlo sempre più piccolo e con un distacco sempre più grande. Fossimo nel ciclismo dei pionieri ne scriveremmo la sua epopea. Fosse vissuto un secolo fa ne esalteremmo la grandezza, abbandoneremmo maldicenze e dubbi guardando solo alle sue imprese.

I due sono figli del proprio tempo: immaginatevi se oggi Remco Evenepoel sparasse a un contadino con una carabina o investisse una signora in piazza Campo del Palio ad Asti. Oppure se corresse con una bicicletta pagata trenta lire, andasse in fuga per duecento chilometri e vincesse con quaranta minuti di distacco sul secondo. Oppure immaginatevelo che si sveglia tardi dopo aver dormito in una locanda, parte insieme al suo compare con un quarto d'ora di ritardo, riprende il gruppo, stacca tutti e vince – davanti al suo compare.

Immaginatevi Remco Evenepoel fare lo scalpellino, il sarto, il garzone di bottega oppure immaginatevelo sulle strade del Tour scambiato per un suo avversario, assalito, buttato a terra e picchiato, e salvato solo grazie all'intervento di alcuni tifosi armati di pistola.

Immaginatevi Remco Evenepoel presentarsi al via con un maglione rosso; ma “chi a l’è chel diau? “ potrebbe sentirselo dire davvero oggi, se gli venisse qualche strana idea.

Immaginatevelo in corsa, proprio oggi, in mezzo a quelle strade tortuose come un accidenti, ma vuote per colpa di quel maledetto virus. Immaginatevelo all'attacco, ad accelerare la sua educazione e a strapazzare il destino degli altri.

Comunque vada sarà un bel vedere, diavolo di un Evenepoel, di Gerbi ne abbiamo soltanto letto, ora tocca a te farci divertire.

Foto: Giovanni Gerbi, Le Monsterrato