Cara ASO, il rispetto delle donne è una faccenda seria
La notizia è di giovedì: Aso ha deciso che, al Tour de France, il protocollo delle premiazioni verrà modificato. Non piu due miss sul podio ma un uomo e una donna accanto al vincitore. La motivazione fornita è semplice: le due miss sul podio sarebbero indice di sessismo e strumentalizzazione della donna.
Proviamo a fare un passo indietro. Ci risulta che ad Aso, la società organizzatrice del Tour de France, sia stato proposto ben più di una volta di tornare ad organizzare il Tour de France femminile. Ci risulta anche che Aso abbia sempre rifiutato quando per problemi logistici, quando per problemi organizzativi. Ci risulta poi, lo racconta Giovanni Battistuzzi per “Il Foglio”, che quando i 110 volontari organizzatori del Tour cycliste féminin de l'Ardèche hanno chiesto ad Aso di fornire un aiuto nell’organizzazione della corsa, Aso abbia risposto picche, dimostrando non poco disinteresse. Lo diciamo perché non sfugge a nessuno che le cicliste, che avrebbero corso il Tour de France femminile come quelle che corrono il Tour de l’Ardèche, sono donne. Ed è altrettanto evidente a tutti che quelle stesse donne avrebbero avuto un grande beneficio dal poter partecipare a queste manifestazioni. Soprattutto in un mondo come quello del ciclismo femminile in cui i problemi economici e di visibilità sono all’ordine del giorno. Crediamo che Aso, con i potenti mezzi di cui dispone, non avrebbe molti problemi a smuovere quegli ostacoli di cui parla e a rendere possibile l’organizzazione di questi eventi. Del resto Aso è una società che organizza eventi di alto livello, se non erriamo.
Invece no. Invece Aso, nei giorni scorsi, era impegnata in ben altra decisione per tentare di sconfiggere il sessismo. Christian Prudhomme ha stabilito che, sul podio, accanto agli atleti ci saranno un uomo e una donna. Bene. Sessismo cancellato, notizia diffusa su ogni quotidiano, in alto i calici e si brindi all’ennesima svolta avanguardista di sua maestà “Le Tour de France”. Saremmo davvero sollevati se il sessismo nella nostra società si radicasse solo lì, in due miss accanto al vincitore di tappa o alla maglia gialla. Vorrebbe dire vivere in una società davvero matura. Purtroppo non è così, nella società come nel ciclismo. E gli organizzatori del Tour de France lo sanno benissimo. Come sanno benissimo, ci auguriamo, di aver preso la decisione più semplice ed assolutamente inutile. Non si sconfigge il sessismo vietando le miss o, ancora peggio affondando nella melma del politicamente corretto, affiancandole ad un uomo. Come non si sconfigge il sessismo alterando la dizione delle cariche pubbliche. Chi lo sostiene, ci perdoni, si sta lavando bellamente le mani.
Il sessismo, in una società maschilista come la nostra, lo si sconfigge provando a modificare ognuno nel proprio settore le abitudini sbagliate. Prima di tutto pensare che le donne abbiano bisogno di un benestare da parte di una carica superiore maschile per accedere a un compito o ad una posizione. Pensando così che sia un uomo a dover concedere questa possibilità per poi fungere da benefattore. Storia già vista troppe volte. Le donne, a patto di averne la possibilità, sanno farsi strada da sole. Il punto è che questa possibilità viene spesso negata. E no, signor Prudhomme, non viene negata dal podio de “Le Tour de France”. Viene negata, nel ciclismo, da chi continua a privilegiare il mondo maschile togliendo opportunità al femminile. Da chi non investe nel ciclismo femminile. Da chi non prova a organizzare nuove gare, gare di cui queste ragazze hanno bisogno come il pane. Dalla stampa che sottrae loro spazio. Da chi non si chiede perché sempre più ragazze smettano, da chi non si preoccupa del gap economico tra le gare maschili e quelle femminili. Da un certo tipo di racconto sportivo. E anche da chi, pur di potersi dire dalla parte giusta della barricata, prende decisioni risibili.
Aso è una società organizzatrice. Negli anni scorsi ha fatto bene ad affiancare alle prove maschili anche le prove femminili di Liegi-Bastogne-Liegi e Parigi-Roubaix. Provi a fare altrettanto con altrettante gare. E, per cortesia, resti fuori da certe decisioni che hanno del ridicolo e dell’irrispettoso. Come tutti coloro che si illudessero di fermare uno tsunami con un ombrello.
Andare in bicicletta mi rende felice
Peter Schermann aveva ventisei anni quando comprò la sua prima bici da corsa. Fino a quel momento aveva giocato a basket in una squadra amatoriale, si era laureato in psicologia e il suo tratto distintivo era sempre stata una smaccata concitazione dentro al fisico di un corazziere: 190 centimetri per 95 chilogrammi.
Quando uscì in bici per la prima volta si era dimenticato di gonfiare bene le gomme e dopo dieci chilometri aveva dovuto farsi venire a prendere dalla sua ragazza: bucò entrambe le ruote e tornò mestamente a casa.
Alla sua prima corsa si presentò con una maglietta con su scritto "Livestrong"; la gente gli rideva dietro, vedeva questo buffo e goffo omaccione cercare di districarsi con la mountain bike e che veniva superato da ogni concorrente possibile: finì doppiato due volte ed estromesso dalla corsa. Ma non ne fu per nulla turbato.
Il ciclismo lo aveva rapito, era la brama di agonismo che lo aveva sempre caratterizzato sin da quando, bambino, si allenava giorno e notte con un canestro fuori dal garage di casa sua insieme al suo fratello gemello. Cresceva di livello nella ditta in cui lavorava, ma aveva bisogno di placare quella tirannica sete, finendo per alzarsi ogni giorno alle cinque del mattino con il solo scopo di allenarsi. Poi andava a lavoro in bicicletta, e in pausa pranzo si allenava; tornava a casa in bicicletta e la sera ancora ad allenarsi e poi, nei giorni di riposo, via ad allenarsi per recuperare il tempo perso dietro alle cinquanta ore di lavoro settimanali in azienda.
Dopo il primo anno di bici, era il 2015, Peter Schermann strapazzò la concorrenza in una gara locale su strada finendo per impressionare Marc Pschebizin, leggenda tedesca del Triathlon e soprannominato Mister Inferno per aver vinto ben dieci volte una delle prove più dure della specialità: l'Inferno Triathlon. Preparatore atletico, Mister Inferno consigliò a Peter di darsi una calmata «Sei bravo, hai talento, ma esageri con gli allenamenti». E infatti Peter, a furia di allenamenti massacranti, formaggio quark e noci, racconta che «dopo sei mesi iniziai ad assomigliare più a un ciclista che a un giocatore di basket». Due anni dopo, Peter vince la stessa corsa di mountain bike che lo aveva visto umiliato tempo prima.
Ma la mattina di Pasqua 2017 viene inghiottito da un buco nero degno di un passaggio dimensionale dentro Providence – Rhode Island. Erano passati un paio di giorni dall'ultimo allenamento e dopo aver chiamato al telefono un amico per uscire in in bici iniziò a sentirsi male. Dalla stanza penetravano rumori ovattati: Peter si guardò allo specchio e non riusciva a riconoscersi. Era, racconta sulle pagine di develo.cc, come se stesse guardando l'immagine deformata di qualcuno che non era lui. «Ho fatto la doccia e ho provato a cantare qualcosa ma non usciva nessun suono. Non riuscivo a formare le parole mentre l'acqua della doccia sbatteva così forte, come fossi nel mezzo di una grande tempesta».
Bussarono alla porta, era il suo amico. Andò ad aprire in una sorta di trance, mezzo svestito. L'amico credeva fosse un gioco, uno scherzo, poi le vertigini presero il sopravvento. Per fortuna di Schermann l'amico era stato paramedico e colse la gravità della situazione chiamando un’ambulanza. Dopo averlo visitato sul posto gli dissero: hai avuto un ictus.
Non riusciva a parlare, Peter, non poteva muovere il suo corpo: era come un pezzo di carne intorpidito ma con i pensieri vigili: «La mia mente era completamente normale a parte il fatto di sentirmi stordito, quasi sopraffatto». Mentre aspettava l'arrivo dell'ambulanza Peter ricorda, come un sogno lontano, che stava cercando di indossare la sua biancheria intima pensando: «Questa roba mi sta scomoda, non è la mia».
Gli dissero che il suo sistema nervoso era stato inattivo per oltre mezz'ora e che molto probabilmente il suo lato sinistro del corpo non si sarebbe più ripreso per via dei danni cerebrali causati dall'ictus. E lui, quattro mesi dopo, era di nuovo in sella a una bicicletta, ma non solo. Al via del Tour of Xingtai, corsa su strada del calendario UCI, aiutò il suo compagno di squadra Carstensen a conquistare un successo di tappa.
Oggi Peter Schermann pedala ancora, più di prima. Racconta di come il ciclismo abbia avuto una parte fondamentale nella sua riabilitazione, di come gli abbia dato la motivazione nell'alzarsi ogni mattina, prima pedalando qualche minuto, poi un po' di più, poi diverse ore al giorno, al sole o sotto la pioggia. Ha corso su strada, ha vestito la maglia della nazionale tedesca nella coppa del mondo di mountain bike ottenendo piazzamenti dignitosi e all'inizio del 2020 ha persino chiuso nei primi dieci la Cape Town Cycle Tour. «Incredibile, vero?» racconta. «Nessuno ha capito perché mi è successo quello che mi è successo, ma io so una cosa soltanto: andare in bicicletta mi rende felice».
Foto: Peter Schermann/Facebook