Quando sogna Simon Pellaud è un genio

Il destino di Simon Pellaud è racchiuso in due parole: Chemin Dessus, “Sentiero di Sopra” letteralmente, un paesino della Svizzera posto a milleduecento metri d'altitudine, perché è da lì che arriva e poi perché viene naturale tradurlo, visto che oltre ad andare forte in bici, Pellaud parla cinque lingue.
Il destino di Simon Pellaud è proprio quel cammino che lo porta in fuga, perché lì sa stare meglio, trova il suo habitat, un animale che si mimetizza tra le fronde: «All'inizio andavo in fuga perché non avevo le qualità per stare davanti fino alla fine con i migliori, poi è diventata un'abitudine: mi emozionava “tentare el golpe” - provare a fare il colpo - giocando con il gruppo che ti insegue. E poi volete mettere? Il senso di libertà che ti dà andare in fuga, poter vedere la strada davanti ai tuoi occhi lontano dallo stress dello stare in mezzo al plotone. Un gusto impagabile», ci racconta, alternando con estrema brillantezza italiano, spagnolo e francese.

Il cammino di Simon Pellaud, ventotto anni, svizzero, è quello che lo porta fino in Colombia, dove ha costruito una casa e dove vive diversi mesi all'anno; una scelta di cuore, di amore a prima vista, come una carezza che ti fa ribollire il sangue. «Tutti mi chiedono perché ho scelto la Colombia e il perché lo trovo guardando le strade, conoscendo le persone, mangiando la frutta – ha un sapore incredibile che non trovi da nessuna parte! Apprezzando clima e paesaggi. Ho trovato un'energia che altrove non esiste: le persone sono sempre felici pur avendo poco. La Colombia è luminosa, mentre in Europa ci sono i soldi ma il colore che domina è il grigio. E poi, come dicono loro, c'è tanta “alegría” e la gente ha cambiato il mio modo di vedere la vita. Hanno poco e gli va bene così, in Svizzera hanno tutto e si può avere tutto, però ci si lamenta troppo spesso».

Ha scelto il ciclismo perché lo sente scorrere nelle vene: «Mio nonno era ciclista e probabilmente mi ha trasmesso l'amore per la libertà. Per me uscire in bici anche solo a fare un giro vuol dire essere “libre”, per me vuol dire avere la possibilità di viaggiare dappertutto» . Una conoscenza del mondo che gli ha insegnato a vivere. «È nata come passione è diventata scuola di vita», concetto che può suonare banale, ma dal quale non si sfugge quando pedalare non è solo il tuo mestiere, non è solo gonfiare i polpacci o eseguire un gesto meccanico, ma la tua ragione di vita. Ciò che ti fa salire le pulsazioni anche al solo pensiero. «Corro sempre con il cuore, perché mi piace davvero tanto fare ciclismo».

Il cammino di Simon Pellaud più di una volta ha trovato ostacoli complicati da superare: nel 2016 correva nel World Tour, ma la sua squadra, la IAM, chiuse, e lui si ritrovò a rifare tutto da capo. «Scendere in una squadra Continental è stata dura per me. Un po' perché pensavo di fare il capitano e mi sono ritrovato ad aiutare Avila, un po' perché dal World Tour è proprio un altro mondo: come organizzazione, come programmi. A volte sapevamo all'ultimo dove saremmo andati», un'esperienza dal quale trova insegnamenti, nella quale matura e che lo ha riportato in questo 2020 tra i professionisti con la maglia dell'Androni, squadra che sposa perfettamente la sua indole fugaiola.

La prima corsa dopo il lockdown, infatti, è subito in avanscoperta: di nuovo mimetizzato tra asfalto e cielo all'orizzonte, perché prima di salire in sella Pellaud già aveva in mente l'evasione come risposta alle sue domande. E poi «quando mi riprendono la mente corre subito di nuovo alla prossima volta che mi lancerò all'attacco».
Simon Pellaud lungo il suo cammino prova a fuggire alla pressione: «La soffro più quando si corre vicino casa, in Svizzera, che quando sono al via di una corsa importante come al Giro di Lombardia» e pochi giorni dopo la Monumento prende parte anche al Giro dell'Emilia dove si immagina in fuga e invece arriva, lungo quel sentiero, un altro intoppo. La sua bici all'improvviso smette di frenare: «La peggiore paura di un ciclista? Trovarsi senza freni in piena discesa. I freni a disco sono il top a parte quando non frenano», racconta, visibilmente ferito, sui suoi canali social.

Il cammino di Simon Pellaud è incastrato nel presente, non può pensare al futuro, oscuro, brillante, non importa, non è possibile nemmeno immaginarselo perché non sa cosa riserva a un corridore come lui: «Firmando di anno in anno per me è impossibile programmare dove sarò domani o l'anno prossimo o nemmeno fra dieci» e quindi lastrica il suo sentiero, sognando la Milano-Sanremo. «Io mi immagino lì, in fuga, in Via Roma a giocarmi il successo. So che rimarrà un sogno, ma a me piace così».

D'altronde, sosteneva Kurosawa: «I sogni sono la rivelazione dei desideri inconfessati, delle paure segrete che l' uomo nasconde nel profondo di se stesso. I sogni sono delle cristallizzazioni di questi desideri puri e disperati, li esprimono in una forma fantastica e totalmente libera. L'uomo, quando sogna, è un genio; è coraggioso e audace come un genio». E questo Simon Pellaud, lo sa bene.

Foto: Simon Pellaud, Twitter


Un po' di umido stanotte, eh?

Jeroboam Dolomiti - 29 agosto
“Da giugno, è il secondo weekend che piove qui in Val di Fiemme. Una bella sfiga”. Maurizio forse ha ragione, perché è la prima Jeroboam Dolomiti che organizza e una mano dal meteo - è vero - non sarebbe guastata. Il punto è che nessuno, però, sembra farsi troppi problemi. Il venerdì sera è tutto un ritirare pacchi gara, sistemare borse, numeri e bere birre per accompagnare polenta e costine, incluse nel “ristoro 0”. Insomma si parla più di birre che dell’acqua che si prenderà il giorno dopo.
C’è di dorme in tenda, chi dorme in camper e chi arriva “già dormito”. Appuntamento alle 8 a Varena per il briefing, in cui si consiglia caldamente - vista l’allerta meteo per la notte - di non pensare al percorso da 300km, ma di ripiegare al massimo su quello da 150. C’è anche Nico Valsesia che comunque ci vuole provare. Un po’ di esperienza lui ce l’ha, quindi si registra la notizia e si può partire, ognuno padrone del suo destino.
Il meteo regge e il percorso 150 regala una prima parte magica. A mezza costa, su strade bianche contornate da campi, si risale la val di Fiemme verso Moena, mentre un timido sole sbuca dalle nuvole e scalda il terreno quel che basta per far sollevare un alone di umidità quasi mistico. Un bel contrasto con le gomme che cercano le pozzanghere per sporcarsi e sporcare i componenti del gruppo il più possibile.
C’è da superare una montagna e lo si fa su una forestale sterrata di quelle cattive. Di quelle che a poter parlare con chi le ha costruite chiederesti se era una sfida a usare meno tornanti possibile. Poi la discesa e finalmente la Val Venegia. Il vento è forte, la pioggia è vicina, ma è difficile pensarci mentre si pedala al cospetto delle Pale di San Martino.
Primo checkpoint, strudel e giù dal Passo Rolle per una forestale. Prima velocissima e perfetta, poi quasi un single track per chiudere alla fine con un ponte tibetano. Tutto il gravel minuto per minuto.
Si torna in Valle scappando dalla pioggia. La fuga non va in porto e la seconda parte sono quattro ore di acqua di un certo livello. Ci scuseranno i nostri lettori se non abbiamo bene idea di dove ci trovassimo da questo punto in poi.
Sappiamo solo che dopo un’altra salita nel bosco, con gli alberi a farci da ombrello e a creare un’atmosfera surreale, c’è tempo per un altro strudel al check 2, prima di una discesa verso Ora e la risalita in val di Fiemme lungo la ciclabile sterrata della ex-ferrovia. Bellissima, attrezzatissima, consigliata anche per una gita tranquilla in famiglia.
E poi dopo ancora un po’ di salita, ancora un po’ di discesa e poi l’arrivo. E poi la polenta, la birra e tutto il resto, mentre qualcuno racconta della giornata, qualcuno delle sue (dis)avventure e qualcuno compie persino gli anni allo scoccare della mezzanotte. Poi tutti a letto, con un tetto sulla testa mentre fuori il cielo continua a mandare acqua per tutta la notte.
La mattina porta qualche dolorino alle gambe, qualche ricordo delle birre e qualche bici da lavare. E porta anche Nico Valsesia, che alle 8.00, puntuale, arriva dalla sua 300 km dopo aver pedalato tutta la notte. Più fresco di quelli uccisi dalle birre, ci guarda, sorride e poi: “Un po’ umido stanotte, eh?”

Federico Damiani