Alaphilippe è l'uomo del mondiale di Imola

Non è un caso se il Campionato del Mondo è, per molti, la gara dell’immaginazione sin da fanciulli. Non sono un caso la mano portata al cuore durante l’inno o il legame che ognuno stabilisce con un colore; quel colore che, chissà perché, rappresenta la propria nazione. Alla fine, se guardi bene, quel colore è un paesaggio, un umore, un’indole, una persona, forse una musica. Tante altre circostanze legate a questa competizione, anche la sua luce, la sua stagione e il ricordo del primo Mondiale vissuto, vogliono dire ciò che vogliamo dirvi noi, oggi.

Persino la fuga: Jonas Koch, Torstein Traeen, Yukiya Arashiro, Danii Fominykh, Ulises Castillo ovvero Germania, Norvegia, Giappone, Kazakistan e Messico. Senza dimenticare tutti gli altri che lì, davanti al gruppo, ci sono andati. Perché il Mondiale, è questo il punto, è per molti la possibilità di plasmare un’idea e di farlo insieme. È quella magnifica sensazione di gruppo, di quando fai qualcosa e ti rendi conto che non lo stai facendo solo per te. Quando fai qualcosa e hai il sogno o anche solo l’immaginazione che quel tuo passo cambierà qualcosa per altri. Qui c’è il concetto di terra: sembra quasi di sentirne il profumo o l’umidità. Come quella dei prati in cui ti distendevi da bambino con addosso quel colore. Pensando che un domani tu, proprio tu, avresti rappresentato qualcuno. Quando ci parli, gli atleti ti dicono questo: «Credo che la mia terra abbia tanti talenti. Vorrei essere un esempio, vorrei aprire un varco. Una strada». Essere un esempio ovvero buttarsi in avanti senza pensare alle conseguenze. Fa paura, certo. Forse fa meno paura quando sai che qualcuno sta capendo il tuo gesto. Che, almeno qualcuno, ci sta provando e i cinici dicano ciò che vogliono. Non hai nemmeno il tempo di pensare a loro. Questo, per i più, è il significato di un giro di pedali al Mondiale: ritrovare quella forza e quella splendida incoscienza che solo l’appartenenza regala. E quando hai quelle non ti ferma più nessuno.

Tadej Pogačar questa cosa la sa molto bene, meglio di altri. La sa perché sa quanto potesse sembrare una follia vincere il Tour de France, a ventidue anni, alla penultima tappa ed essere a Parigi con occhi gonfi di lacrime grosse quanto una noce. Sapeva che in tanti, comunque, ci credevano già prima che accadesse e altri hanno faticato a crederlo anche dopo quel tramonto ai Campi Elisi. Lui ha capito che l’importante era fare qualcosa per i primi, perché quando qualcuno smette di credere a qualcosa è un dramma e per chi non spera in nulla poco si può fare. Per chi crede e spera si scatta anche oggi. Un motivo lo si trova sempre, come lo trova Damiano Caruso che immagina un ciclismo raccontato dalle storie di tutti e per questo scatta e allunga. Perché, se non sei pronto a farti un poco male per ciò che vorresti, anche se ottenessi tutto non sapresti difenderlo. Il mondo invece ha bisogno di persone che difendono ciò che vogliono a costo di sbucciarsi le ginocchia e di piangere qualche notte. Ai tuoi desideri devi tutta la protezione di cui sei capace, altrimenti lasciali ad altri.
Alaphilippe è l’uomo di questo Mondiale. Non solo perché lo vince, non solo perché è Campione del Mondo. È l’uomo di questo Mondiale perché la sua storia parla di questa storia. Di dignità e orgoglio, di quando sei ad un passo e perdi tutto ma anche di quando vinci mentre nessuno ti sta aspettando. Parla dei colori che ci portiamo addosso e di appartenenza. Di quel “Lulú” che é uomo forte e fiero ma anche figlio indifeso, abbandonato tra le braccia di un padre. Che poi è uno dei modi più veri che esistano di essere uomini. Poi ci sono tutti i ricordi cancellati per andare avanti e quelli rilanciati per trovare le forze. C’è tutto questo e tanto altro. C’è soprattutto quell’iride che è lì, in quella maglia, e starebbe benissimo sullo schermo del cielo. E chissà che Imola, prima di sera, non la proietti lì, come in un sogno.

Foto: Luigi Sestili


Guillaume, Benoni e scacciare i cattivi pensieri

4 luglio 2017, Tour de France. Guillaume Van Keirsbulck è appena partito in fuga. Le televisioni gracidano al vento, in modo incomprensibile, il suo nome, mentre lui nella radiolina continua a ripetere: «Ca**o, ma dove vado da solo... non è forse meglio che torni indietro?». L'ammiraglia gli risponde di tirare dritto, che tanto qualcuno prima o poi si sarebbe unito alla danza; è un Tour de France e nessuno si farebbe sfuggire l'occasione. Tutto a un tratto, però, invece che colleghi in bicicletta, arrivano cattivi pensieri.

Il 27 giugno del 2011 Guillaume Van Keirsbulck stava procedendo verso casa di suo nonno per festeggiare, con un barbecue, la firma sul contratto con la Quick Step. Un salto in avanti per quel virtuoso ragazzo che aveva già mostrato tutto il suo potenziale; ora c'è la possibilità di studiare nella migliore scuola per uno cresciuto addentando biscotti e pavé e capace di vincere, da giovanissimo, la versione junior della Paris-Roubaix.

Era solo in macchina, Van Keirsbulck, la sua ragazza, Emilia, lo seguiva su un'altra auto perché l'indomani avrebbe dovuto alzarsi presto per andare a dare un esame all'università. All'improvviso l'auto della ragazza sbandò, probabilmente Emilia stava cercando di afferrare qualcosa sul sedile, tanto da slacciarsi la cintura di sicurezza. Il movimento costrinse l'auto su una pista ciclabile, poi un dosso, una sterzata improvvisa. Emilia, presa dal panico, finì sulla corsia opposta colpendo in pieno un motociclista che arrivava in senso contrario. La tragica corsa si spense contro un albero. Tutto questo Guillaume lo vide dallo specchietto retrovisore. L'auto si ridusse ad un ammasso di lamiere e fu proprio Guillaume che provò a liberarla. «Morì tra le mie braccia» racconta.

Lungo da sembrare infinito, elegante con lineamenti quasi irritanti come fosse un Fonzie belga, Guillaume Van Keirsbulck si porta dietro la tragedia. Poche settimane prima di quell'incidente, al Giro d'Italia si consumò la fine dell'esistenza di Wouter Weylandt, amico di Guillaume. Al funerale del corridore belga c'era anche Van Keirsbulck a portare la bara.

Intanto Guillaume al Tour resta solo e al vento. Nessuno lo ha raggiunto, vestito dei colori blu cenere della Wanty Gobert ha percorso una sessantina di chilometri in solitaria. Più che brezza quella che spira dappertutto è una masnada di pugni in faccia; la fuga solitaria al Tour in una tappa di pianura appare quasi strategia del terrore. Già, quel terrore che attanaglia la sua esistenza e lo butta giù.

Racconta a Cyclingnews: «Subito dopo quell'incidente mi rimisi subito in sella per provare a vincere per lei e ci riuscii», ma la notte doveva ancora arrivare e quei terribili pensieri non andavano via. «A fine stagione finii in un buco nero». Staccò dalla bicicletta, iniziò a uscire tutte le sere, a bere. «Se fossi rimasto a casa sarei impazzito».
Prosegue Van Keirsbulck al Tour sulle strade che portano a Vittel, nei Vosgi. C'è gente ovunque da non capire nulla, la gola secca mentre i rumori si fondono con le immagini e i pensieri continuano a viaggiare ancora più veloci.

Come quelli del nomignolo il “nuovo Boonen”: una condanna. Affascinante come il fuoriclasse a cui è stato paragonato, Van Keirsbulck non è mai riuscito minimamente a sfiorare le imprese del quattro volte vincitore della Parigi-Roubaix. E intanto il tempo passa.
Così come i chilometri in fuga in solitaria. Il suo diesse prova a fargli coraggio, ma ora non serve, i cattivi pensieri sembrano andare via, sono come uno schizofrenico boomerang e quando sono distanti, Guillaume è attraversato da una sorta di aura di tranquillità. «Quasi duecento chilometri in fuga al Tour? Mi sono divertito! Era pazzesco vedere quanta gente mi incitava e per una volta ero da solo a godermi il momento». E poi di nuovo altri pensieri.

Come quelli su suo nonno, Benoni Beheyt. Un reietto per il sacro impero di Van Looy e del ciclismo belga. Siamo ai campionati del mondo di Ronse, Belgio. Come in un viaggio nel tempo all'improvviso è l'11 agosto del 1963. Tutto è apparecchiato per il terzo titolo di uno dei più grandi della storia. Qualcosa però non va come deve andare – ci verrebbe da dire che è il ciclismo, la vita, eccetera. Van Looy vuole a tutti i costi il terzo titolo – che mai conquisterà - come l'altro grande Rik Van belga (Rik Van Steenbergen), e muove la corsa quasi a suo piacimento. Si arriva in volata, Van Looy è davanti, all'improvviso Benoni (quel nome è un omaggio al nonno di origine italiane) Beheyt lo affianca, toglie una mano dal sellino, sposta il suo capitano - lo trattiene o lo spinge non si è mai saputo per certo -, lo brucia sul traguardo: è il tradimento di Ronse. Beheyt da quel momento verrà trattato come homo sacer, diventerà un reietto con Rik Van Looy che passerà le stagioni successive boicottandolo e ostracizzando ogni suo intento. Un infame agli occhi del popolo belga e di un gruppo che subisce il fascino dell'Imperatore di Herentals. A ventisei anni abbandona il ciclismo. Resterà in gruppo come motociclista al seguito delle corse e si racconta (verità o leggenda?) che un giorno, pulendo il fucile in una battuta di caccia, uccise per sbaglio uno dei suoi figli. In una recente intervista rilasciata a Marco Pastonesi, dice che Van Looy non gli ha rivolto la parola per decenni e che solo negli ultimi tempi si sono scambiati qualche buongiorno e buonasera.

Ma è ancora fuga al Tour: Van Keirsbulck porta avanti la sua personale sfida col gruppo che inizia ad organizzarsi per la volata, pianura ce n'è ma anche un paio di salitelle sulle quali Van Keirsbulck prova a forzare. Le gambe, atrofizzate, spingono, dalla radiolina arrivano urla di sostegno, ancora una volta il suo sforzo è mirato ad annebbiare i pensieri.
Come quelli che lo rimandano all'incidente stradale di un anno prima. Usciva da una stagione difficile per problemi fisici e da un fastidio alla schiena. Usciva ubriaco da una discoteca. Si schiantò contro un albero «ma ne uscì illeso. Di ferito ci fu solo la sua reputazione» riportano i media tempo dopo. Quegli stessi media che lo crocifissero sulle prime pagine trattandolo come un cattivo ragazzo.
Ora al Tour lo riprendono. Siamo in vista del traguardo. Quasi duecento chilometri di fuga. Si arriva in volata e mentre lui si fa sfilare, esausto, ma felice - «Per una volta tanto meglio che starsene in gruppo a saltellare su una ruota oppure bello tranquillo in scia ad una moto» - Démare vince e Sagan viene squalificato per una scorrettezza nei confronti di Cavendish.

Oggi Van Keirsbulck corre ancora, è un ragazzo giovane - ha ventinove anni – ma sembra abbia bruciato tutto con la velocità di una felce secca intorno al fuoco e la felicità per lui resta un fatto relativo. Fatica in mezzo al gruppo, ma non lascia il segno. Non sarà al via del Mondiale di Imola, non sarebbe potuto essere altrimenti. Nelle prossime settimane ci sarà modo di correre vicino casa e l'anno prossimo persino il Mondiale in Belgio: chissà che non ci stia pensando. Chissà che ne abbia ritrovato il tempo. Chissà che sia riuscito a scacciare i cattivi pensieri. Anche solo questo sarebbe una grande vittoria.

Foto: Van Keirsbulck/Twitter