Di Eva Lechner e della libertà
Ci piace ricordare chi notava una profonda similitudine tra uomini e cavalli: «Il cavallo avrebbe una tale forza che, se non intendesse sottomettersi, nessuno riuscirebbe a domarlo. Ad un certo punto però si arrende e accetta questa sorte. Noi siamo così: l'uomo, per natura, è indomito ma deve vivere e vivere con gli altri e per questo cede. Noi crediamo a tante cose di cui in realtà non sappiamo il vero significato, ci crediamo perché ci sono indispensabili per continuare ad esistere in questa società». Ci piace ricordarlo perché parlare di Eva Lechner, in fondo, significa parlare di questo: «La mia è una continua ricerca di libertà. I cavalli rappresentano perfettamente questa libertà di cui mi nutro come pane. Già da ragazza li amavo e ne avrei voluto uno ma i cavalli costavano troppo e in famiglia non potevamo permetterceli; avevamo un pony. Il giorno in cui lo abbiamo venduto è stato il giorno della mia promessa a me stessa: "Quando sarò grande, mi comprerò un cavallo!" Quel giorno é arrivato nel 2009 quando ho comprato il primo cavallo: oggi ne ho cinque». E non è il solito discorso, tanto vero quanto inflazionato, legato alla bicicletta che fa sentire liberi. Non vi stiamo raccontando solo di questo. La libertà nella storia di Eva Lechner ha qualcosa in più. Perché Eva Lechner della libertà ha capito qualcosa in più.
La libertà di Lechner è una libertà densa. Colma di tutto ciò che le appartiene ed anche di ciò che, apparentemente, ne è l'opposto. Di rinunce, ad esempio, che non sono quasi mai l'opposto della libertà, anche se all'inizio possono sembrarlo. Sono il suo prezzo, semmai, ma questo è il senso della conquista: «La mia famiglia non aveva molte possibilità economiche e all'inizio usavo la bicicletta di mia sorella. Per avere una bicicletta tutta mia, una mountain-bike, quell'estate andai a lavorare. Era una Giant argento con la marca scritta in blu. Avevo sedici anni». Perché la libertà, in fondo, a parte la bellezza, l'importanza, non ha molto di diverso da tutte le altre cose che possiamo desiderare nella nostra vita. Vive di un delicato gioco di equilibri come ogni fatto, qui. Forse sembra differente perché scorre in ogni dove, la si può cercare ovunque, la si può inventare o "costruire" ovunque, e gli uomini, nella loro tracotanza, la bramano ansiosamente e la vorrebbero tutta, ma proprio tutta, senza nulla in cambio. Eva Lechner potrebbe raccontare di tutto questo ed in un certo senso lo fa.
«La mia quotidianità è anche una quotidianità di rinunce. Vado poche volte al cinema e vedo poco i miei amici. Mi dispiace? Certo che mi dispiace. Dico di più: certe volte mi sveglio al mattino e avrei voglia di fare tutto tranne che di uscire in bicicletta. In inverno fa freddo, spesso piove, magari non stai bene o hai preoccupazioni che ti tolgono energie. Lì devi lottare con te stesso. Devi dirti che questa è stata una tua scelta, che oggi è il tuo lavoro e hai il dovere di continuare a farlo al meglio senza lasciarti influenzare da tutto quello che ti frulla in testa. Questo dovere, per te, è ancor più forte perché questo lavoro lo hai scelto, cercato, voluto. Perché, alla fine, sai che quando riesci a varcare la soglia di casa e inizi a pedalare ti torna in mente il motivo per cui lo fai. Torni a sentirti bene, meglio di prima, e sei sicura che scelta migliore non avresti mai potuto fare». Una libertà totale sarà difficilmente possibile e forse gli uomini, indomiti per natura, continueranno a soffrirne e a dibattersi come cavalli con le redini al collo e l'anima altrove, in qualche prateria ai confini dell'azzurro. Per l'uomo sarà però sempre possibile la libertà di scegliere ciò che vuole diventare, consapevole di tutto ciò che questa scelta gli toglierà ma fiero di quello che questa stessa scelta gli porterà. Perderà qualcosa ma avrà qualcos’altro. Del resto non esiste prateria che non si disperda nell'orizzonte.
Foto: Bettini
Con Rohan Dennis non ci si annoia mai
Rohan Dennis è un cavallo pazzo. Rifiuta l'oblio anche mentre dorme. Ce lo immaginiamo girarsi e rigirarsi nel letto per paura che le ore di sonno possano togliere forza al suo estro. Nasce nuotatore, ispirandosi all'istinto killer di Kieran Perkins, aspira alla trasformazione vincendo su pista e poi mutando forma abilmente, cronoman prima e persino scalatore. Già, scalatore... perché come chiamereste voi uno che spiana in quella maniera Stelvio e Sestriere? Alla sua ruota Geoghegan Hart ha costruito il successo al Giro d'Italia, inutile girarci intorno, ma non c'è molto da stupirsi, ai cavalli pazzi vanno sempre attribuite imprese leggendarie.
E lui voleva entrare nella leggenda, proprio come il capo tribù indiano. Nel 2016 afferma: «Se uno come Wiggins è riuscito a vincere un Tour de France, allora ci posso riuscire anche io». Ognuno conosce i propri limiti e di lui si sa che, nonostante sia un corridore eccentrico e a volte permaloso, in bicicletta ha sempre dimostrato di essere professionale, maniaco dei dettagli e capace di allenarsi ai limiti del fachirismo.
Spesso cerca situazioni complicate come girasse con un lanternino in mano e un grosso cartello scritto sulla testa: “Eccomi situazioni complicate!”, ma è solo il lato umano e perciò debole del suo carattere.
La sua carriera è una di quelle che andrebbe analizzata con dovizia, la sue uscite, la sua mentalità, le sue scelte lo fanno sembrare un po' matto, benevolmente assurdo. Soffre di una sindrome particolare, l'essere bizzarro come tutti gli australiani (ancora ne dobbiamo scoprire uno “normale”), ma con lui si tocca l'estremo. Rifiuta il conformismo? O è solo la sua realtà vista da fuori che appare a tratti indecifrabile?
Episodi? Ci vorrebbe un'infinita sequenza di byte per esprimerli tutti. Sportivamente parlando si manifesta come un'eccellenza anche se i suoi colpi di testa a volte hanno fatto dimenticare ciò che di buono ha costruito nell'arco della sua carriera. Titoli mondiali a squadre ai tempi della BMC, un Record dell'Ora firmato nel 2015 fermando la distanza a 52,491 km. «Stanco ma distrutto», disse quel giorno, quasi come se non avesse avuto nemmeno tempo di goderselo.
È uno di quelli capaci di vincere tappe in tutti e tre i Grandi Giri (un club allargato, è vero, ma pur sempre qualcosa da ricordare nel tempo) più svariate altre corse di grande livello, titoli su pista e su strada. Nel 2015, al Tour, conquista la maglia gialla dopo aver vinto la crono alla media record (e tutt'ora imbattuta) di 55.446 km/h su un percorso ricco di curve e insidie. È stato quinto ai Giochi di Rio nella cronometro per soli otto secondi dopo aver perso tempo decisivo a causa di una foratura. Non fosse esistito il 2020 come lo conosciamo, il podio a Tokyo non glielo avrebbe tolto nessuno - Dennis stesso permettendo.
Curve e insidie: Dennis è anche quello della fuga misteriosa dal Tour nel 2019. Alla vigilia della cronometro di Pau abbandona la corsa. Sparisce. Si dilegua in ammiraglia a un centinaio di chilometri dal traguardo di Bagnères de Bigorre. L'addetto stampa della sua squadra, la Bahrain, raccontava tempo fa in un'intervista di come sia stato quello l'episodio più difficile della sua (lunga) carriera. «In un primo momento eravamo sconcertati: il ragazzo era muto, non parlava, ma arrabbiarsi non serviva a niente; tuttavia, noi non sapevamo nulla, non capivamo come mai si fosse ritirato all’improvviso. Una volta salito sul bus, era inconsolabile: era confuso e deluso, piangeva ma non apriva bocca». Solo poco tempo prima al Giro di Svizzera teneva testa a Bernal, che avrebbe vinto il Tour, in salita.
Passate alcune settimane da quell'episodio in Francia, Dennis vince l'oro mondiale nella cronometro e facendo parlare di sé non tanto per la prestazione (o meglio, non solo, un podio che ha visto Dennis davanti a Evenepoel e Ganna, trovate di meglio?), quanto per l'aver corso su una bici con adesivi neri a coprirne il nome del costruttore. «È bello vincere, ma quando avrò 65 anni non sarà tra le prime 10 cose migliori che sono successe nella mia vita» dirà a fine corsa in una conferenza stampa tenuta dentro una chiesa adibita a incontro tra media e corridori. Dennis spiegherà la situazione vissuta in quei mesi indicando la sua testa con un dito e raccontando di quanto quel periodo fosse stato difficile non solo per lui, ma soprattutto per quelli che gli stavano attorno.
Tempo dopo, infatti, Dennis entrerà nei particolari parlando a una televisione australiana: raccontò di aver avuto una crisi di nervi durante quel Tour a causa dell'ambiente in cui correva e che per colpa di quei momenti stava per divorziare da sua moglie. «Non volevo diventare l'ennesimo dato statistico di uno sportivo divorziato».
A inizio 2020, prima di spianare lo Stelvio come un gatto delle nevi, scappa dal lockdown e lo fa in “grande stile”, à la Dennis, con tanto di post sui social che recitava più o meno: “Giorno 34, mi sono stufato e sono uscito di casa. Covid-19 puoi baciarmi il sedere”. Tempo prima Dennis si era affidato a uno psicologo dello sport, David Spindler, che come prima cosa gli fece chiudere tutti i suoi profili social. «Aveva bisogno di azzerare lo stress e divertirsi: gli ho detto di cancellare i suoi profili sui social network, intanto. Leggeva tutto quello che si diceva di lui, offese e cattiverie incluse. Gli ho fatto capire che i social network non importano poi molto e che il divertimento, di cui aveva assolutamente bisogno, lo avrebbe trovato altrove». Quell'altrove che in questo fine 2020 è sembrato trovarlo al Giro, ma mai dare nulla per certo, lo abbiamo detto, con Rohan Dennis non ci si annoia mai.
Foto: Alessandro Trovati/Pentaphoto