Enrico Battaglin: «Sono nato qui»

I luoghi in cui Enrico Battaglin è cresciuto sono gli stessi in cui vive anche adesso e questo torna molte volte nel suo racconto: «Sono cresciuto tra Colceresa e Marostica. Quando mi guardo attorno e vedo questi luoghi ripenso a quando ero ragazzino. Le domeniche d'inverno, quando non corro, mi piace andare in centro a Marostica con mia moglie, sedermi al tavolino di un caffè e fare colazione. Oppure andarci al pomeriggio e fare un aperitivo. Noi, lì, senza troppi pensieri, senza preoccupazioni». Sono proprio questi i luoghi in cui ogni tanto fantastica, spaziando tra passato, presente e futuro: «La mia è una famiglia di contadini. Mio nonno coltivava i campi e aveva animali. Mio papà ha lavorato in ditta ma ora che è in pensione ha ripreso a coltivare mais e a curare i campi. Quando posso mi piace dargli una mano. Chissà, magari un domani. Non so se riesco a spiegarlo a parole ma c'è una soddisfazione particolare in quel prodotto che raccogli dalla terra, è qualcosa di tuo. Lo raccogli, lo depositi nelle cassette, lo guardi e sai che è opera tua. Che il tuo sudore e la tua fatica hanno dato la possibilità a quella frutta o a quella verdura di essere lì, matura, in quei cesti». E sono questi paesaggi, questa terra e queste persone a mancargli quando è via: «Il mio tempo, in questi giorni, è per Arianna, mia moglie, per i miei nipoti, Mattia e Luca, e per il mio cane Leo. Non ho fatto vacanze, sono stato solo un giorno al mare, a Caorle, ma nulla di che. C'è un gusto molto intenso nell'essere qui con loro».

Una condivisione che è mutata nel tempo e lo ha reso l'uomo che è oggi: «Sino a due anni fa vivevo con i miei genitori. Nel 2018 mi sono sposato e sono andato a vivere con mia moglie. Un passo importante che mi ha reso felice. Credo di aver imparato molto in questo periodo, proprio come persona. Non ero capace di fare molte cose, ho dovuto imparare e penso che questo mi abbia fatto bene». Quest’inverno Enrico Battaglin ha lavorato tanto, a marzo, però, sembrava tutto finito: «Ci siamo trovati a fronteggiare qualcosa che non conoscevamo e questo paralizza. Siamo ancora in un momento difficile ma sappiamo come muoverci e questo deve essere un motivo per sperare. Quando dico che la situazione attuale è diversa da quella di questa primavera intendo proprio questo». Questa consapevolezza nello scorrere del tempo lo rende sereno: «Come torno in Bardiani? Intanto più vecchio, dici poco? A parte gli scherzi, sono già passati cinque anni. Lavorerò con molti giovani e mi piacerebbe lasciare loro qualcosa di quello che ho appreso nel WorldTour. Molte volte basta poco, un consiglio da niente e la tua strada è più semplice. Io vorrei fare questo per loro, altrimenti a cosa serve il tempo che passa?». I giovani gli stanno particolarmente a cuore e la sua riflessione al proposito è profonda: «Si inizia sempre per gioco, poi da Under23 intuisci che potrebbe essere qualcosa in più. Quando passi di categoria sei orgoglioso ma devi restare con i piedi per terra. Se ti illudi e molli un poco la presa rischi di buttare tutto all'aria. Quando sono passato io professionista eravamo più o meno tutti allo stesso livello, oggi in gruppo ci sono ragazzi molto giovani che hanno caratteristiche fuori dal comune. All'estero, poi, "maturano" prima atleticamente e anticipano scelte che noi magari facciamo più tardi. Ed è bello ma anche rischioso: appena vediamo qualcuno particolarmente bravo tendiamo tutti a fare paragoni col passato perché, in fondo, siamo alla ricerca del fenomeno. Forse dovremmo essere più cauti con le parole, faremmo del bene a tanti ragazzi».

Se parla di Steven Kruijswijk, Battaglin ripensa a quella tappa del Giro d'Italia 2016, a quella caduta mentre l'olandese era in maglia rosa e al Giro che fugge via: «Sono situazioni in cui non vorresti mai trovarti. Non sai nemmeno cosa dire perché a parole è sempre tutto più facile mentre nei fatti per superare certe batoste c'è solo il tempo. Consolare qualcuno è sempre difficile, farlo in una lingua che non è la tua è molto più complesso. Cerchi gli sguardi. Cerchi di smorzare quel senso di colpa che chi cade può avere con un cenno, un gesto. Cosa puoi fare? Ricordo come fosse ora quella sera, a cena. Non riuscivamo a parlare, occhi bassi, tanta delusione». Qui subentra la conoscenza tra capitano e gregari: «Sembra facile, in realtà è un finissimo lavoro di conoscenza che si perfeziona negli anni. Ogni uomo è diverso, ogni capitano è diverso e vuole cose diverse. Per conoscersi bene servono un paio di anni di lavoro spalla a spalla. Accade come per i treni: un treno vincente è un treno con meccanismi affinati, l'esperienza lo conferma». Gli anni in Lotto Jumbo gli hanno fatto conoscere anche Primoz Roglič: «A me hanno sempre sorpreso i suoi valori. Perché è arrivato tardi al ciclismo altrimenti sono convinto potrebbe aver già vinto un Giro, un Tour e forse anche una Vuelta in più. Impara molto velocemente: nei primi tempi aveva più difficoltà a muoversi in gruppo, cadeva o restava nelle retrovie. Ora è davvero abile. Ci sono sempre stati buoni corridori fra gli sloveni, in questi anni è avvenuta l'esplosione». Sarà per quell'umiltà che lo caratterizza, sarà per come ha vissuto la sua carriera da ciclista, sarà per quella terra che lo ha cresciuto ma Enrico Battaglin preferisce raccontare ciò che farà per avverare i sogni degli altri, i suoi sogni li tiene nascosti, in disparte, e li racconta abbassando la voce, quasi per non fare rumore: «Ho già vinto tre tappe al Giro d'Italia, mi piacerebbe tornare a vincerne una. Quest'anno mi mancava così poco. Di sicuro quando vedrò il calendario segnerò diversi giorni con un cerchio rosso. Mi piace buttarmi, provare, inventare. Poi c'è quel sogno nel cassetto da tanto: inventarmi qualcosa alla Milano-Sanremo, magari arrivare in via Roma a braccia levate. C'è e lo custodisco gelosamente, tornando a visitarlo ogni tanto».

Foto: Claudio Bergamaschi

Trifula Trail, un'avventura sulle strade di casa

Suona la sveglia.
Sono le sei, ma in realtà sono le sette.
No, in realtà sono le cinque. Forse.
Quando si cambia l’ora, per due giorni non riesco mai a capire che ore sono. Se ci aggiungi che ieri, dopo cena, si è tirato tardi con gli amici dei miei, accompagnando il tutto con qualche bicchierino di Passito, fare i conti di prima mattina diventa davvero difficile.
Sono le sei, ma in realtà sono le sette. È il 25 ottobre, fuori c’è quella nebbiolina fine che ti si attacca addosso e ti fa sentire più umido di quella volta che sei uscito d’estate, impavido, pensando “tanto non la prendo” e mamma mia se l’hai presa.
Mi alzo. Vado in bagno. Che occhiaie, amici. Una sciacquata e mi cambio.
Tutto è pronto sul servo muto da ieri pomeriggio: calze pesanti, salopette a tre quarti felpata, maglia termica, giacca, scaldacollo e capellino Alvento – “Fate i watt, non fate la guerra”.
Mia madre scende giù con me, ormai l’ho svegliata, dice. Facciamo colazione, in silenzio.
Carico la bici in macchina, insieme al borsone con il cambio e una busta della spesa con barrette, panini al latte e qualche gel.
«Ciao, Ma’».
«Vai piano».
Mentalmente, rispondo: «sto andando in bici, per giunta la chiamano bici da corsa. Vado più veloce che posso».
Ho una quarantina di minuti prima di arrivare al luogo della partenza, ma per strada non c’è un cane (con ‘sto tempo), si viaggia bene, così ho la possibilità di pensare un attimo.
La settimana prima avrei dovuto correre la mia prima granfondo, quella di Alassio, ma, per come stavano andando le cose, ho deciso di ripiegare su qualcosa di meno affollato e quindi mi sono messo a cercare su internet.
Leggo: «Torino Bike Experience presenta Trifula Trail, prova personale, non competitiva con percorso ad anello tra Torino ed Asti, partenza alla francese». Quattro possibili percorsi: due gravel e due su strada con diverse distanze. Chiaramente non sarebbe una vera prova con me stesso, se non facessi il percorso più difficile, su strada; la gravel è ancora un sogno da realizzare.

Arrivo che c’è già qualcuno che sta tirando giù la bici dalla macchina, la nebbia si è diradata, ma il freddo c’è tutto. Mi preparo in gran fretta, nel pomeriggio danno pioggia e ne faccio volentieri a meno, come se due minuti in meno potessero salvarmi.

In un piazzale, nella zona sud di Torino, ci aspetta Alessandro, sorridente. Anche lui è vestito come se fosse pronto per partire, la maglietta verde con il logo di Torino Bike Experience e la bici da Gravel, tutto un trionfo di verde.
Siamo tutti con le mascherine, ma in questi ultimi mesi abbiamo imparato a leggere le emozioni altrui negli occhi, e si vede che siamo tutti felici di essere lì. Solo venti iscritti, un po’ per il meteo incerto già da settimane, un po’ per la situazione Covid.
Alessandro ci dà il nostro buono pasto consumabile a Moncalvo, località che toccheremo nel nostro anello, dove potremmo mangiare un piatto di ravioli al tartufo proprio alla fiera del Tartufo. Dopodiché ci dà le ultime indicazioni: non è una gara, se abbiamo bisogno possiamo chiamarlo, quando arriviamo in determinati paesi dobbiamo mandargli la posizione su WhatsApp: più per farlo stare tranquillo che per verificare che stiamo facendo il percorso corretto, senza barare.
Il primo ragazzo decide di partire, io scrivo ancora un messaggio a mamma per dire che sto bene, così è contenta, e sono pronto anch’io. Sono 160 chilometri e, a parte la mitica salita di Sassi-Superga, la prima che si affronterà, non conosco un metro del percorso. Parto tranquillo e faccio i miei primi chilometri in piano, in agilità, cercando di scaldare i muscoli, di non farmi stirare dalle poche macchine che si incontrano la domenica mattina alle 7, a Torino.

Neanche il tempo di pensare se sto bene, se ho chiuso la macchina, se ho preso tutto e sono ai piedi di Sassi. Sono quattro chilometri, mica tanti, ma per tre chilometri la pendenza è a doppia cifra e tocca punte del 16%. Passata la prima curva ricomincia ad esserci nebbia, fitta. Incontro qualche signore che corre, un ragazzo in MTB e, quando leggo 178 bpm sul mio Wahoo, è finita la salita.
Giù in discesa verso Baldissero, molte foglie e strada umida. Alla prima curva un po’ più stretta freno in modo un po’ troppo deciso con la ruota posteriore. Sto andando dritto, speriamo non arrivi nessuno. Urlo. Vedo la macchina spuntare… Sono salvo, tiro un sospiro di sollievo. Sono salito sul marciapiede e la macchina ha fatto in tempo a fermarsi sentendo le mie urla, così non ci siamo neanche sfiorati. Scende un signore gentilissimo, è preoccupato più di me che ora rimpiango i battiti che ho visto in cima alla salita per Superga. Ci salutiamo stringendoci la mano, nonostante il Covid. Ce la siamo vista brutta e lo sappiamo entrambi.
Si riparte, vado molto più piano e nelle curve mi tremano un po’ le mani.

Finita la discesa è già tempo di risalire, uno strappo, il primo di una lunga serie. Solo un chilometro, ma a fine giornata avrò più di tremila metri di dislivello, senza aver mai affrontato una di quelle salite belle lunghe che tanto mi piacciono.
È passata un’ora e mezza e sono solo a 33 chilometri dal via: di questo passo si prospetta una lunga giornata.
Non si passa mai su strade trafficate, sempre stradine in mezzo ai boschi o ai vigneti. Vigneti ovunque, peccato non vedere oltre il secondo filare per la nebbia. Meno male che sto passando per strade secondarie dove non incrocio neanche una macchina, perché altrimenti il pericolo di essere investiti ci sarebbe tutto.
Leggo i nomi dei paesini che attraverso e mi godo il rumore delle ruote sull’asfalto. Non sono stanco, neanche dopo due ore e mezza, cinquanta e qualcosa chilometri e circa mille metri di dislivello. Sto mangiando e bevendo. Mi sono fermato solo per qualche foto e per una pausa pipì. Non capisco se sto andando forte o meno; è vero che non si tratta di una gara con gli altri, ma, quando monti in sella ad una bici in un qualsiasi evento, l’unica cosa che vuoi fare è vincere. Vincere contro te stesso, andare ancora una volta oltre quelle che credevi essere le tue possibilità e pensare ancora una volta “ce l’ho fatta”.

Arrivato a Castelletto Merli non capisco più se è nebbia oppure pioggia. La visibilità non è ottima, mi sento bagnato. In cima alla salita per il santuario di Crea non c’è più dubbio.
La nebbia si è diradata completamente per far posto ad un acquazzone, proprio mentre devo scendere. Arrivo in fondo alla discesa, sono fradicio e voglio solo arrivare a Moncalvo per mangiare il mio agognato piatto di ravioli al tartufo e potermi mettere il cambio che intelligentemente mi sono portato.
Leggo il cartello Moncalvo e sono felice, ma ingenuo. Prima di vedere l’abitato mi aspettano ancora una decina di chilometri e una salita con due tornanti; io questo non lo so e spingo sui pedali. Mi divoro il pezzo in piano e sono ai piedi della collinetta su cui è arroccata Moncalvo. Chissà che panorami che mi devo essere perso oggi a causa della nebbia.
Attacco la salita neanche fossi Pantani ai piedi di Oropa mentre doveva recuperare il gruppo. Arrivo in cima stremato e mi ritrovo nel pieno della fiera del Tartufo di Moncalvo.
Sono solo le 11.30, ma ho fame e voglio evitarmi la pioggia del pomeriggio. Il cielo si è aperto, mangio il mio piatto di ravioli cercando di capire se il tartufo mi piaccia (mica l’ho capito) mentre ascolto un signore che in un italiano condito di dialetto piemontese decanta le proprietà del tartufo e cita cifre allucinanti sulla quotazione giornaliera.

Starei lì ancora un po’ ma è ora di partire.
Mi sono infreddolito e vorrei solo fermarmi in un bar per scaldarmi. Cosa ancor più triste è che si riparte con una discesa, ma, se ho imparato qualcosa dai vari video di ciclismo che ho visto, è che il ciclismo è uno sport così, in queste situazioni si mette un rapporto agile e si va davanti a menare. Io faccio in questo modo, anche se davanti non ho nessuno.
La maggior parte del dislivello ormai è già stata affrontata e, tolto qualche strappo di un paio di chilometri, il resto sembra essere una passeggiata.
Sulla salita per Montafia incrocio il ragazzo che era partito prima di me sulla sua Cinelli verde scintillante. Scambiamo qualche parola. Siamo felici, ma lui ha un altro passo e quindi lo saluto e riprendo la mia andatura. A posteriori sarei potuto rimanere con lui, perché le asperità sono praticamente finite e restano solo molti chilometri in piano nelle praterie nei dintorni di Chieri.
Mi sono sfinito per aumentare un po’ la velocità media e non sapendo, o forse volutamente ignorando, che c’è ancora la collina di Torino da valicare. Mi ritrovo a spingere un rapporto più agile rispetto al solito, che però pesa come un macigno. Vedo la linea di arrivo sulla mappa, c’è ancora da salire.
Arrivo in cima stremato, mi butto in discesa e faccio i pochi chilometri in mezzo alla città sperando che finiscano il più in fretta possibile.

Svolto a sinistra e vedo la bici di Alessandro che scende dalla macchina e mi guarda un po’ stupito, ci aspettava tra un’oretta almeno. Io gli racconto di quanto bella sia stata questa avventura e lui di qualche suo progetto: vuole iniziare a creare borse per il bikepacking su misura. Gli dico che ha già un cliente.
Mi lascia un pacchetto di Tartufi di cioccolato da pasticceria come premio per essere arrivato primo, è dispiaciuto per non aver potuto fare nessun rifornimento, dannato Covid.
Ci salutiamo sicuri di rivederci l’anno prossimo ad un Trifula Trail diverso: magari su due giorni, sperando di poterci conoscere davvero percorrendo strade poco distanti da casa, che però regalano paesaggi che ci invidia tutto il mondo.

Di: Alessandro Zecchino

Foto: Edoardo Frezet