Sonny Colbrelli: «Di ritorno dal lavoro, a tavola con papà»
A Sonny Colbrelli non è mai piaciuto studiare. Lo ammette candidamente, sorridendo e ripensando ai momenti fra i banchi. Non gli piaceva studiare, sì, ma la determinazione e la voglia di fare non gli sono mai mancate, sin da ragazzo: «I miei genitori mi hanno sempre detto che avrei dovuto darmi da fare: non potevo stare a far nulla o a rigirarmi i pollici. Se non volevo proseguire la scuola, dovevo iniziare a lavorare. Probabilmente questa cosa ha sempre fatto parte di me, l’ho assimilata: in estate, da ragazzino, andavo ad aiutare mio papà al lavoro. Al mattino stavo con lui, mi piaceva. Difficilmente mi avresti visto a perdere tempo». La bicicletta arriva per caso e, questa volta, parliamo proprio del mezzo meccanico, non del ciclismo come sport: «Era una bicicletta comprata con la raccolta punti della spesa. Non immaginarti chissà cosa. Del resto, sino a quel momento, avevo giocato a calcio e sciato: sciare mi piaceva ed ero anche abbastanza bravo. Nel tempo libero andavo a pesca». Succede che in provincia di Brescia c’è una gara di mountain bike, una gara di paese, nulla di che, e Colbrelli partecipa. Nessuno se lo aspetta e forse nessuno attribuisce un gran significato alla cosa, ma Colbrelli vince. Il primo incredulo, a ripensarci, è proprio lui: «Era una boutade. Un gioco nato per caso e che pensavo finisse nel giro di qualche domenica. Da ragazzino ero davvero goloso, avevo diversi chili di troppo, ero ”tozzo” a livello di corporatura. Non si era mai visto un ciclista così». La domenica dopo torna e fa bene in una gara dalle condizioni atmosferiche decisamente avverse: «Pensa che stavano per sospenderla per brutto tempo». In televisione guarda le imprese di Marco Pantani e qualcosa gli frulla per la testa: «Perché non provare a correre su strada?». La prima gara su strada è una cronoscalata, con la maglia della squadra della famiglia Frapporti: «Sì, tecnicamente era una cronoscalata. In realtà si trattava di un tracciato di un chilometro, tutto all’insù. Niente di particolare ma, tra il serio e il faceto, ho vinto anche lì».
Il ragazzo cresce, il ciclismo gli piace, ma la famiglia Colbrelli è una famiglia dai principi sani e radicati. Così lo sport è un divertimento però bisogna andare a lavorare: «Ho iniziato a lavorare in fabbrica. Facevo la mattina, dalle sei a mezzogiorno. Portavo a casa qualche soldino ed ero anche contento». Certo ma quella bicicletta prende sempre un poco di spazio in più e Sonny continua a pensarci. Fino a quando, un mezzogiorno, torna a casa dal lavoro e si siede a tavola con papà: «Avevo in mano entrambe le divise: quella del lavoro e quella della squadra di ciclismo. Guardai mio padre e gli dissi: “Quale scegli? Se scegli questa, vado a lavorare, altrimenti provo a fare lo sportivo“». Vedendo come sono andate le cose, la scelta di papà Colbrelli è abbastanza chiara: «Ma sai, tutti i genitori desiderano il bene dei loro figli ed io ero felice di correre in bicicletta. Poi papà e mammà sognano sempre in grande e ti immaginano campione. Certe volte restano sogni, non siamo tutti campioni. Il problema non è quello. Il fatto importante è mantenere i piedi ben saldi a terra. Restare quello che si è e valutarsi realisticamente». In fondo, è questo il consiglio di Colbrelli per i giovani, per chi inizia oggi: «Ho il timore che in certi casi si esageri. Tanto con le pressioni, quanto con le aspettative. I conti, però, nella vita si fanno sempre alla fine e se ti “bruci” troppo da giovane, rischi di buttare tutto all’aria». La storia di Sonny Colbrelli, invece, è una di quelle storie in cui nessun filo della trama manca. Una storia cresciuta con la pazienza del domani: «Sono contento di essere passato professionista con la famiglia Bardiani. Forse avrei anche potuto approdare un anno prima nel World-Tour, ma va bene così. Loro mi hanno dato il tempo di crescere serenamente. Mi hanno lasciato andare quando hanno capito che ero pronto per prendere la mia strada. Non tutte le squadre World-Tour hanno questo approccio con i giovani, per questo credo sia un bene che i giovani inizino dai nostri team Professional. In Bahrain mi sono trovato bene sin dall’inizio e, ora che sono quasi cinque anni che sono qui, devo dire che c’è una condivisione totale. Loro hanno capito qual è il mio spazio ed io, per contro, sono contento del programma che la squadra ha. Vivo con entusiasmo i nostri traguardi». La maturità di Colbrelli risulta ancor più evidente quando il discorso prende una piega personale: «Non è che ci siano momenti difficili particolari, localizzabili in questo o in un altro anno. Ogni anno ha dei momenti difficili, questo vale per tutti. Non è importante che i momenti difficili non ci siano, è importante capire come fare per superarli. Capire come affrontarli per continuare la tua strada. Per ripartire. Le difficoltà sono naturali».
Tra le vittorie che ricorda con maggior piacere, c’è il primo successo da professionista perché «lì ho capito chi ero e che qualcosa di buono potevo fare», e ci sono le vittorie alla Parigi-Nizza e al Giro di Svizzera. «Ogni successo è un passo in più verso la consapevolezza. Per esempio, capisci che tipo di atleta sei. Io non sono un velocista puro, se faccio una volata con velocisti puri, arrivo sesto, settimo, quarto, se va bene. L’ho capito gareggiando, provando e riprovando. Che poi è l’unico modo per capire». Il suo sogno è la vittoria di una classica, l’ideale sarebbe il Giro delle Fiandre. Forse proprio per questo ha sempre avuto ammirazione per Tom Boonen. Adesso che ha due figli piccoli, vede il ciclismo in maniera diversa e ammette che partire gli spiace: «La mia compagna mi sostiene molto e questa è una grossa fortuna. Noi ciclisti facciamo una vita nomade e tante cose sono più difficili. I miei figli sono ancora piccoli ma iniziano a capire. Chiedono: “Dove vai papà? Dov’è papà?”. Spiace. Io gli dico di guardare la televisione che papà possono vederlo lì. E spero la guardino quando sono in testa al gruppo. Tra l’altro, sono abbastanza paranoico e mi preoccupo molto, anche per piccole cose. Quando sento più la nostalgia di casa, mi ripeto che, in fondo, lo sto facendo anche per loro. Per il nostro futuro che in realtà è il loro futuro».
Tra tutti i fatti che la memoria conserva, uno Sonny Colbrelli non riesce proprio dimenticarlo e, forse, è un bene: «Quando da allievo sono passato juniores, a casa mia sono venuti i rappresentanti di tante squadre. Come era giusto che fosse: è sempre un bene ascoltare tutti. Erano interessati a me. Ci hanno offerto cifre davvero significative, cifre che certe volte fatichi a mettere insieme anche nei primi anni da professionista. Da giovane l’idea di guadagnare qualcosa ti attrae anche, fai tanti progetti e quei soldi potrebbero servirti. I miei genitori, invece, mi hanno sempre tenuto con i piedi per terra: l’importante era crescere, migliorare, e nessun ambiente sarebbe stato meglio della squadra in cui correvo, con la famiglia Frapporti. Ho continuato la mia strada, a zero euro, e oggi devo ringraziarli perché, in quello che sono, quella scelta ha pesato molto. In positivo. Tanti altri ragazzi, sicuramente più bravi di me, hanno fatto considerazioni diverse all’epoca ma oggi, purtroppo, non sono più ciclisti». Perché Sonny Colbrelli è questo: un padre, un uomo, un ciclista ma, prima di tutto, un ragazzo con i piedi per terra. E questa sarà sempre la sua salvezza.
Crediti foto: Claudio Bergamaschi
Adrien Niyonshuti non dimentica
Di primo acchito, a tutti noi agiati sportofili, il 1994 ci fa venire in mente il mondiale americano di calcio, il culo-di-Sacchi, Pagliuca che bacia come a benedire il palo che lo ha salvato da un gol certo (e da una clamorosa papera) oppure le imprecazioni per i rigori di Baggio e Baresi. È un anno tragico (Senna), ma anche così clamorosamente evocativo ed ispirante (Pantani): ricordi che ancora oggi fanno male in modi del tutto differenti.
Il 1994, però, è anche l’anno del genocidio del Ruanda. Da aprile a luglio del 1994 circa ottocentomila persone vengono uccise, è una stima che, più che ufficiale, diventa un numero simbolo: in realtà potrebbero essere state molte di più. Persone uccise, massacrate, sterminate in nome di non si sa che cosa e anche a cercarne una spiegazione valida sembrerebbe di mentire o di fare qualche torto; sarebbe del tutto inutile, anche se il potere della parola è importante così come è importante non dimenticare. «Sebbene la guerra civile fosse il suo sfondo, in realtà non fu altro che un massacro di persone», riporta il The Guardian in un lungo reportage apparso ormai sedici anni fa in rete.
Kibuye fu teatro di uno dei peggiori episodi: ventuno mila persone tra Tutsi e “Hutu moderati” trucidate in pochi giorni dalla maggioranza Hutu. Una parte in una chiesa o nei suoi dintorni dove stavano cercando rifugio: furono braccati usando il fumo di copertoni bruciati e una volta dispersi fuori da quel luogo sacro furono uccisi a colpi di lancia, bastoni e machete. Un’altra parte perse la vita dentro uno stadio dove era stata portata con l’inganno dal governatore Clement Kayishema, dottore ed ex direttore dell’ospedale di Kibuye. Chi è sopravvissuto a quei giorni, sia da una parte che dall’altra, non ha mai potuto dimenticare.
L’odore dei corpi putrefatti divenne caratteristico in certe zone del paese e non lo ha dimenticato certamente chi ha cercato di salvarsi nascondendosi sotto una montagna di cadaveri e osservando moglie e figli fatti a pezzi col machete, o chi vedeva ragazzi che, fino a poco tempo prima, avevano le sembianze dei propri vicini di casa e d’un tratto si aggiravano con maschere o volti dipinti, brandendo bastoni e fucili e cantando:
“Cacciamoli nelle foreste, nei laghi e sulle colline. Staniamoli nelle chiese. Puliamoli dalla faccia della terra”.
Negli anni una larga parte dei colpevoli di quel massacro sono stati rilasciati e si racconta come girino per le città in numero superiore ai sopravvissuti. “Sopravvissuti”: orfani, malati di AIDS, affetti da disturbi post traumatici, tutti vivono nella paura per quello che è successo e le testimonianze si sprecano: Savera Mukarashango si è gettata nel lago per il dolore ed è morta annegata dopo aver incrociato per strada l’uomo che dieci anni prima aveva ucciso suo padre.
Non ha mai dimenticato Adrien Nyonshuti. Mai dimenticherà e quei mal di testa che ogni tanto fanno capolino sono testimoni. Adrien nasce in Ruanda nel 1987 e all’epoca di quei tragici eventi ne aveva poco più di sette. I suoi sei fratelli sono morti, lui e i genitori invece no. Senza avere nulla da bere e da mangiare per giorni, Adrien, sua madre e suo padre sono scampati scappando tra i boschi, tra i laghi, tra le colline di quel piccolo stato africano senza alcuno sbocco sul mare e schiacciato in mezzo a Tanzania, Uganda, Burundi e Congo.
Quando lo intervistano lui cerca di non parlarne, ma inevitabilmente il discorso cade sull’argomento, queste le sue parole sempre riportate dal The Guardian. «Ti venivano a prelevare in casa: davano fuoco a tutto e ti facevano a pezzi. Noi siamo riusciti a scappare, i mie i fratelli no, nemmeno gran parte della mia famiglia. Ho perso circa sessanta persone in quei giorni, della maggior parte di loro non abbiamo mai più avuto notizie».
Per tentare di salvarsi, per cercare di non andare a pezzi, Adrien Nyionshuti si è rifugiato nel ciclismo. Ha iniziato a pedalare con una bici vecchia appartenente a uno zio dopo aver visto le tre tappe che caratterizzavano il Giro del Ruanda del 2001. Tre anni dopo corse quel Giro, aveva solo sedici anni, ma nessuna regola gli impedì di partecipare e lui chiuse al settimo posto assoluto. Nel 2006 partecipa una gara di Mountain Bike organizzata da Jack Boyer – primo ciclista americano della storia ad aver disputato il Tour de France poi condannato per reati di molestie sessuali – con il contributo di Tom Ritchey leggenda della mountain bike statunitense che aveva lanciato proprio in Ruanda un progetto mirato a produrre biciclette per i coltivatori di caffè. Dovete sapere come, fino a quel momento, i contadini ruandesi trasportassero i loro prodotti a piedi oppure con bici di legno con ruote di legno, senza freni né sellino, né alcun tipo di ingranaggio. Il progetto, denominato Coffee Bike e portato avanti da Ritchey insieme ad alcune aziende americane, cercava in qualche maniera di aiutare la catena di trasporto di quei chicchi che servono poi ad allietare il mondo occidentale, il paradosso della società contemporanea in uno Stato che fa della coltivazione del caffè e del tè uno dei cardini della propria economia.
Ma l’obiettivo di Ritchey e Boyer era anche quello di creare un movimento ciclistico. Fondano nel 2006 il Team Ruanda e organizzano allenamenti, corse, addestramenti per i ragazzi del paese. Adrien realizza il sogno di «correre in Europa con i professionisti» e prenderà parte con la sua nazionale ai Giochi Olimpici del 2012 a Londra nella prova di mountain bike e nel 2016 a Rio in quella su strada. Sarà entrambe le volte il portabandiera di quella piccola nazione che non ha mai dimenticato. «Ad aprile, quando sono in bicicletta, a volte mi viene il mal di testa perché ricordo molte cose che riguardano la mia famiglia e il genocidio» – sono le poche parole spiccicate all’interno di un documentario dal titolo Rising From The Ashes, narrato, nella versione originale, dalla voce di Forest Whitaker, il detective Kavanaugh di The Shield o il Ghost Dog dell’omonimo film diretto da Jim Jarmusch, per intenderci, e che racconta come la bicicletta sia diventata uno strumento di riscatto per un’intera nazione.
Rising from the Ashes parla della nascita del Team Ruanda del quale Boyer e Ritchley ne sono parte attiva e grazie al quale decine di ragazzi ruandesi sognano un futuro migliore. Un piccolo stipendio, la possibilità di aiutare famiglie africane con il ciclismo, portare scolarizzazione ed educazione insegnando l’inglese e dando sbocchi professionali. Grazie al Team Ruanda, nel 2009 Adrien inizia a correre nel mondo del professionismo e lo farò per quasi dieci anni. Si misurerà in Europa e arriverà a correre a tempo pieno anche nel World Tour con il Team Dimension Data (quello che oggi è diventato Qhubeka Assos ed è sopravvissuto a malapena poche settimane fa) disputando alcune tra le corse più importanti del calendario.
Oggi Adrien Niyonshuti è rimasto nel ciclismo e continua ad alimentare sogni che sono suoi e che appartengono ad altri. Sono sogni per una generazione che è nata dopo quel massacro ma che ne porta dentro, per forza di cose, le cicatrici. Non corre più in bicicletta, ma è parte attiva nel cercare di aiutare i ragazzi ruandesi a inseguire il riscatto attraverso la bicicletta: verso qualcosa di concreto sfuggendo al supplizio di Tantalo. Nel 2013 ha fondato una scuola di ciclismo che nel 2020 è diventata persino una squadra Continental: la Skol Adrien Cycling Academy – dove Skol è una birra prodotta dalla multinazionale Carslberg: si diceva dei paradossi. Sotto la sua egida crescono ragazzi interessanti come Mugisha oppure Habimana, uno che, come riportato da un’intervista apparsa su Cicloweb tempo fa, si diletta nel suonare la chitarra: in Ruanda la musica ha una componente culturale importante e radicata. Quel Ruanda che non vuole dimenticare, che vuole che si parli di quel genocidio nonostante lo shock e la disperazione. E Adrien Niyonshuti anche se cerca di non pensarci sa che quel ricordo lo accompagnerà per sempre. «Nel 2009 ero in Sudafrica per una corsa, quattro persone entrarono nel mio appartamento per derubarmi e io mi nascosi in un armadio: in un attimo vidi davanti a me le immagini del massacro a cui ero sfuggito». Niente potrà cancellare quei ricordi cicatrizzati dentro l’anima di un popolo intero, ma la bici ancora una volta ha la forza di salvare un’intera generazione.
Foto: Adrien Niyonshuti/Facebook