Vittoria Guazzini: «Quando mi sento fiera, mi guardo attorno»

Vittoria Guazzini parla volentieri del concetto di responsabilità. Già, perché la responsabilità è insita in ogni sequenza di azioni o di non azioni, per quanto qualche volta non siamo portati a pensarci. C’è una responsabilità nell’agire ed una responsabilità nel non agire ed ognuna di queste responsabilità influisce tanto sulla propria persona, quanto sulle persone che vengono a contatto con il flusso di queste assunzioni di responsabilità. Vittoria dice più o meno questo, declinandolo al mondo che meglio conosce: la pista. «Quando parti per una gara di una disciplina singola, sei agitata ed è normale. Però, quando si parla di discipline di gruppo, questa ansia aumenta. Certo, perché se sbagli da sola, le conseguenze ricadono solo su di te, se invece sbagli quando stai lavorando con altri, il tuo errore ricade anche su di loro che magari sono stati perfetti e non hanno sbagliato proprio nulla. Questa responsabilità si avverte. Anche perché, in pista, basta davvero poco per sbagliare, per rovinare il lavoro di mesi. Il lavoro di gruppo è anche questo: condividere una responsabilità. E per condividere delle responsabilità, senza che queste diventino un peso intollerabile, serve molto affiatamento. Quest’anno, per esempio, la frase ricorrente era “Dai noi!”. Che è come dire: “Dai che noi, proprio noi, ce la faremo”. Siamo così». Insomma, non è una cosa facile. Ma a Vittoria Guazzini, oltre al merito sportivo, va senza dubbio un altro merito: la capacità di ironizzare e di farlo su stessa. E questa è davvero una qualità importante: «I miei sogni? Sempre cose abbordabili» racconta facendosi una fragorosa risata. «Volevo fare la ciclista e diventare una campionessa oppure diventare una cantante o un’attrice famosa. Suono la chitarra dalla quinta elementare e quel mondo mi ha sempre attratto. A parte gli scherzi, il primo sogno sto provando a realizzarlo». Questa leggerezza la aiuta a prendere le cose sul serio ma a non prendersi troppo sul serio. Poi c’è l’umiltà di una ragazza che ha appena diciannove anni, ne compirà venti il 26 dicembre, ma ha già vinto moltissimo.

«Io dico sempre che, quando ci sentiamo importanti, o troppo importanti, dobbiamo provare a guardare gli altri. Mi spiego meglio: la particolarità dei velodromi è una forte condivisione. Tu sei lì e vedi tutte le altre persone che fanno il loro lavoro al tuo fianco. Dopo qualche tempo si crea una sorta di sintonia, nonostante tutti quei box separati, e forse anche l’ansia si ridimensiona. Ecco: quando sei al velodromo e senti di aver vinto tanto, devi guardare le tue colleghe che, molte volte, hanno vinto più di te. Devi guardarle, prendere coscienza del fatto che puoi ancora far meglio e ripartire. Non devi abbatterti perché non sei ancora come loro, però devi trovare la tua umiltà e tenerla stretta». Se pensa ai traguardi che vorrebbe raggiungere nei prossimi anni, dice che “le viene la pelle d’oca”: «Il nostro è uno sport dove si perde molto più spesso di quanto si vinca. Ma è anche uno sport dove si tifa per tutti. L’anno scorso, al Fiandre, mi scendevano le lacrime a vedere tutta quella gente, a sentire quelle grida. Stavo piangendo. Perché non è scontato che accada e questa esperienza, parlo della pandemia, ce lo ha ricordato. A noi ciclisti accadono cose rare. Una la vorrei per me il prossimo anno: partecipare alle Olimpiadi di Tokyo». Vittoria Guazzini ha iniziato a sei anni ad andare in bicicletta: «Da bambina mi arrabbiavo molto se perdevo. Successivamente ho imparato a lavorare su me stessa. Diciamo che sono abbastanza esuberante. Non so se mi spiego. Ho un carattere particolare. Meglio così, non ti pare?».

Sarà per quel carattere che Vittoria riesce a sorridere anche di una stagione che non era partita nel migliore dei modi: «La stagione la salvo, ma solo nella parte finale sia chiaro. Me ne sono capitate di tutti i colori: prima dei mondiali su pista, prima della pandemia, ero ammalata. Poi sono tornata ma mi sono infortunata cadendo dalle scale, proprio al velodromo. A quel punto è arrivato il Covid-19 ed è stato tutto bloccato. Poteva succedere altro? Quest’anno più che mai voglio ringraziare le mie compagne. Se ho concluso la stagione alla grande è grazie a loro». Il carattere aiuta ma ancor di più sono le esperienze a fortificarti: «Quando vinci è tutto più facile. Come fai a non essere felice quando al tuo primo mondiale stabilisci il record del mondo (a livello juniores N.d.A.) col quartetto? Il problema è quando perdi, quando le cose non vanno. O meglio: quando immagini qualcosa che poi non si verifica, sto pensando alla prova contro il tempo al mondiale di Innsbruck. Arrivai sesta, fu una brutta botta. Quello credo sia stato il momento più difficile della mia carriera. La delusione più cocente». In quelle occasioni, l’ha aiutata l’idea di quello che voleva fare, di quello che avrebbe sempre voluto fare: «Ricordo quando a Firenze, al mondiale, vidi per la prima volta Marianne Vos. Ricordo Alberto Contador, un mio modello da sempre. Un attaccante, uno coraggioso in sella. Potrei parlarti di Marta Bastianelli, di Elisa Longo Borghini. Per provare a fare qualcosa di simile a quello che hanno fatto loro, c’è una sola possibilità: il perfezionismo. Devi badare ad ogni dettaglio, anche a quello che sembra così piccolo da apparire ininfluente. Non lo è. Puoi star certo che non lo è. Devi essere attenta e lavorare su ogni aspetto per quanto possa essere complesso. Questa caratteristica mi appartiene ed è quella che mi ha fatto raggiungere i traguardi di cui parliamo».

C’è anche una vena ottimista nelle parole di Vittoria. In fondo, è vero: è giusto continuare a cercare il miglioramento, doveroso diremmo, però è anche giusto notare ciò che già è migliorato e sottolinearlo. Altrimenti trascorreremmo il tempo inseguendo sempre qualcosa di nuovo o di migliore, senza accorgerci di quello che già c’è: «Il ciclismo femminile non ha una condizione paragonabile al ciclismo maschile. Questo vale per tutti gli sport. Io credo che sia necessario proseguire con il lavoro che si sta facendo, avendo la consapevolezza dei grossi passi avanti compiuti dal nostro mondo negli ultimi anni». La stessa consapevolezza risiede nella graduale crescita di Vittoria Guazzini, come ciclista e come donna: «Davide Arzeni è certamente un punto di riferimento per il modo in cui lavora e per la tranquillità che riesce a darmi. Alcuni giorni proprio non vanno ed avere vicino una persona che riesce a capirti ed affiancarti è davvero importantissimo. Il resto, fra le cose che mi lascia il ciclismo, sono piccoli gesti, piccoli insegnamenti. Sarebbe davvero difficile farne un elenco o raccontarle tutte. Però sono tante cose preziose, di quelle che ti fanno amare ancor di più ciò che fai».

Foto: per gentile concessione di Vittoria Guazzini


Ciclismo è letteratura: la Biblioteca del Ciclista

La forza “mediatica” – diremmo oggi – di uno sport come il ciclismo è sempre stata quella di poter creare attorno a sé una sorta di attrattiva letteraria. Epica, pathos (niente etica, né etnica: non stiamo scomodando i CCCP) ingredienti che messi assieme sono la ricetta di uno sport che sembra, sin dai suoi pionieri, perfettamente adatto a raccontare e celebrare i protagonisti e le loro imprese. Retorica? A bizzeffe. D’altronde, quando si parla di fatica, di muscoli, di sforzi, di imprese, di salita e di discesa, di ossa rotte e tenute su non si sa come, di tragedie, di paesaggi, di corse sotto la pioggia e sotto la neve, con il sole, sull’asfalto che si scolla e si incolla, e di quelle che noi più volte tendiamo a definirle “immagini indelebili” il rischio c’è sempre, che poi è un rischio azzardato ma calcolato visto che tutto ciò poi resta impresso su libri e riviste che vengono lette e tramandate fino ad accrescere il nostro bagaglio culturale. E partendo da libri e riviste, dalla forza della letteratura, dalla passione per quello che è stato il ciclismo dei pionieri, che nasce l’idea di Vittorio Landucci: un paio di anni fa ha deciso di fondare la Biblioteca del Ciclista.

Che tempi i nostri! Verrebbe da dire: in un altro momento storico quella che segue sarebbe stata l’intervista perfetta da fare sul campo e non al telefono, osservando una collezione di oltre settecento libri, foto e illustrazioni, riviste, anche solo perdersi dentro l’odore di carta che ti avvolge quando entri in uno spazio del genere. Vedere scaffali su scaffali pieni, panche e tavoli fitti; sfogliare, prendere appunti, sprofondare nella storia del ciclismo e delle sue immagini in bianco e nero. Ma questi sono tempi bislacchi, o forse sarebbe meglio dire “bischeri” se volessimo prendere in prestito un termine caro alla verace dialettica toscana, la terra da dove arriva il protagonista di questa storia.

Un pizzico di follia va mischiata alla passione: si pedala sì, ma soprattutto si mette assieme una serie di libri che a Castiglion Fiorentino, in provincia di Arezzo, vanno a comporre la sua biblioteca. «Pedalare ho sempre pedalato: sin da quando sono bambino. Oggi ho 46 anni e gli ultimi otto li ho passati praticando podismo. Ma il ciclismo da sempre scorre nelle mie vene, soprattutto quello scritto e raccontato: partendo dalle prime riviste comprate quasi quarant’anni fa, fino ai libri», si presenta così, Vittorio Landucci.

La Biblioteca del ciclista nasce, come molte vicende che poi assumono un carattere determinante, un po’ per caso, un po’ per gioco, in mezzo a una chiacchierata con uno sfondo di bici, telai, maglie d’epoca. «Un paio di anni fa ero alla presentazione della Ciclostorica organizzata da Gibo Simoni: la Gibostorica. Dopo le prime edizioni che si sono svolte nel suo paese in Trentino, Simoni diede il compito di farla organizzare a dei ragazzi di Arezzo. Io ero a quella presentazione e un certo punto parlando con i presenti spiegai: “A casa ho circa un centinaio di libri sul ciclismo: come vi può sembrare l’idea di allestire una stanza con questi libri?”. L’idea fu accolta subito e nel giro di poco tempo da cento libri circa che c’erano, oggi ce ne sono più di settecento. Tutti, o quasi, comprati di tasca mia a parte qualche donazione di autori o case editrici».

L’idea si tramuta in concretezza, prende corpo, piace, diventa unica e conosciuta all’interno della nicchia che si muove nel mondo del ciclismo. Letteratura, collezionismo, rarità, luogo di aggregazione. «Sono riuscito ad avere una stanza a Castiglion Fiorentino, provincia di Arezzo, il paese dove vivo, e la Biblioteca è diventata da subito un luogo di incontro, di scambio, di conoscenza tra persone. Magari su dieci che entrano solo uno sfoglia un libro, ma non è questo quello che conta. Ciò che conta sono le idee, il continuo divenire di quello che è la Biblioteca del Ciclista. Ciò che contano sono le persone che ho conosciuto e che mi permettono di portare avanti questo progetto».

Come Giancarlo Brocci «A lui devo molto. Mi ha invitato all’Eroica e sono stato dal giovedì alla domenica sulla terrazza delle Cantine Ricasoli dove passavano tutti quelli che andavano a ritirare il pacco gara. Per cui ho avuto modo di fermarmi a parlare e di conoscere tante persone: da lì ho capito che sarei dovuto andare avanti» oppure Carlo Delfino. «È il numero uno in Italia quando si parla di storia del ciclismo. Oltre ad aver scritto tanti libri ha una conoscenza profonda della materia. Quando gli dico che sto leggendo un determinato libro lui mi dice “Fai caso che in quella pagina c’è questo errore” e così via. Grazie a lui ho iniziato a darmi un’inquadratura molto critica su quello che gira e che si legge. Perché tante volte si dà per oro colato quello che troviamo scritto nei libri e poi spesso scopriamo che sono pieni di errori: bisogna fare tanta ricerca per capire dove sta la verità. Quando uno scrive in maniera poetica come Gregori o Pastonesi, allora va bene, ma quando uno scrive date e statistiche e i numeri sono errati allora è tutto profondamente sbagliato. E difatti se potessi tornare indietro ci sono tanti libri che non comprerei perché pieni di errori».

Non si può stare fermi se si ha in mano un’idea del genere, un gioiello che esprime letteratura e ciclismo: il massimo per un appassionato, per chi corre e anche per chi scrive. «La mia è una ricerca costante: all’inizio compravo nelle librerie, in posti come il “Libraccio”, però prendevo di tutto. Ora sto diventando selettivo: meno libri, ma ricercati e magari più costosi. Sono partito con la mia piccola collezione di libri, poi ho avuto modo di allargare i miei orizzonti: inizialmente grazie alla donazione di diversi numeri de “Lo Sport Illustrato” che mi ha fatto un signore di Bologna. E questo mi ha portato a capire una cosa fondamentale per la ricerca storica, statistica e di archivio: le riviste hanno un’importanza fondamentale in quanto è tutto materiale preciso, perché fresco, perché scritto magari al massimo nel giro di una settimana dall’evento e quindi risultava difficile portarsi dietro un errore».

All’interno della Biblioteca del Ciclista – che specifica, Vittorio, ora apre solo su richiesta e su appuntamento – si possono trovare oltre a libri e riviste una piccola collezione di DVD e VHS, ma i confini si fermano qui per strategia. «Niente gadget, oggettistica, né cimeli, magliette o borracce per diversi motivi. Economici e di spazio: mi verrebbe a costare troppo. Ma anche per una scelta che mira alla differenziazione. Di posti come il mio in Italia ce n’è solo un altro, mentre musei con enormi collezioni di bici e magliette ne trovi tantissimi: c’è persino un libro di Beppe Conti che racconta di tutti i musei della bicicletta sparsi in Italia».

Ma l’attività di Vittorio Landucci non si ferma qui: toscanaccio vulcanico pieno di idee e di voglia di sperimentare e di raccontare il ciclismo di una volta. «Come Biblioteca del Ciclista collaboro con la rivista “Biciclette d’Epoca”, ma ho organizzato anche la presentazione di libri e quest’anno, nonostante tutti i problemi noti, sono riuscito a far partire la “Festa della Bicicletta”: una due giorni organizzata con dentro numerosi eventi. La presentazione del libro di Brocci, la “gara di lentezza”: una gara dimenticata che si faceva tra fine ottocento e primi del novecento e pure una giornata ecologica dove siamo andati a pulire le strade. Una gincana per i bambini, una cronoscalata virtuale su un segmento in salita molto noto ai cicloamatori locali». Perché è importante per lui il legame e la riscoperta del territorio e mantenere viva la memoria. «È fondamentale capire l’importanza del ciclismo locale e allora assieme a un’altra persona abbiamo ideato anche due mostre: la prima sulle squadre professionistiche che ha avuto la provincia di Arezzo. Una piccola mostra che le presentava tutte, e poi una sui ciclisti nati nella provincia di Arezzo che sono ben quarantadue. Da Bennati a Nocentini e Capecchi, passando per Mealli e Chioccioli. Uno degli obiettivi che mi prefiguro è quindi recuperare la storia del territorio, nel tentativo di non perdere il valore di tutte queste storie».

Nell’incipit di questa intervista siamo partiti da parole come retorica, impresa, ciclismo dei pionieri, follia e passione e prima di chiudere, sentendo sulle nostre mani il freddo che ci attanaglia battendo compulsivamente le dita sulla tastiera, oppure pensando alla neve che mai come nei giorni scorsi scendeva copiosa fino in pianura, come fossimo immersi in una realtà d’altri tempi, chiediamo a Landucci qualche curiosità attorno alle grandi corse disputate sotto la neve – anche in ricordo di Aldo Moser, recentemente scomparso e protagonista di una delle più indimenticabili tappe del Giro d’Italia, nel 1956 sotto la neve che aveva sommerso il Bondone e soprattutto i corridori.

«Le grandi corse con la neve sono sempre state o al Giro o alla Sanremo per ovvi motivi “stagionali”, salvo rare eccezioni. La prima grande corsa con la neve è stata la Milano-Sanremo del 1910 vinta da Cristophe. Arrivarono in quattro: il secondo a un’ora, il quarto a oltre due ore. Fu epica e appartiene al ciclismo dei pionieri. Che è quello a cui sono maggiormente legato e che mi affascina di più. Ora ci sono tutte queste regole, giuste o sbagliate non lo so, con questo protocollo che prevede come, con determinate condizioni, la gara viene fermata. Sotto un tot di gradi ci si ferma; se nevica ci si ferma. Per una fetta di storia di questo sport non è mai stato così: l’epica del ciclismo esiste grazie a imprese come queste. Ora si è un po’ appiattito tutto: ci si basa sui watt, si studiano le cartine, si è persa la poesia: si è andati da un opposto all’altro. Nel Giro del 1911, quando si affrontò il Sestriere per la prima volta, in cima passò Ezio Corlaita e la tappa la vinse Petit-Breton. Si partiva alle 5 del mattino e Gerbi prima del via disse all’organizzatore: “Dobbiamo andare lassù? Fa già freddo qui”. “Certo”, gli rispose quello, “Siete uomini o signorine?”. La leggenda racconta che poi Gerbi all’arrivo tirò una borraccia addosso a uno degli organizzatori, ma d’altra parte Gerbi era il Diavolo Rosso mica per caso: era uno parecchio fumantino. Poi tra le più celebri corse sotto la neve c’è stata la Liegi di Hinault del 1980, il Fiandre di Zandegù nel ’67 quando beffò Merckx. Il Giro del 1968 con le Tre Cime, il Gavia di Hampsten nell’88, ma il Bondone del ’56 resta l’episodio più epico della storia del ciclismo».

Foto: per gentile concessione di Vittorio Landucci