Christophe, la neve, il martello, un vecchio Gallo
Baffi come si usavano un tempo a disegnargli il viso e ad acuire uno sguardo che, si racconta, ammaliava le donne.
Grossi polpacci lordi come il ciclismo a cui apparteneva, un maglione di lana sporco sudato alla fine di ogni gara anche se lui, Eugène Christophe, era uno che ci teneva particolarmente allo stile.
Lo chiamavano il vecchio Gallo – le vieux Gaulois – proprio per il suo aspetto. Vinse la Milano-Sanremo del 1910 tra freddo, neve e pioggia. Freddo, neve e pioggia annunciate a pochi minuti dalla partenza fissata alle 5.30 sul piazzale di Porta Genova “sotto una pioggia fine e noiosa, con aria pungente”: su novantaquattro che dovevano partire si presentarono al via in sessantatré, mancarono all’appello tra gli altri anche Faber e Gerbi, e arrivarono al traguardo in quattro, il secondo a un’ora di distacco da Christophe.
Non fosse stato per la sua abilità nel ciclocross – sostiene proprio Christophe, che vinse sette titoli nazionali francesi nel fango – non avrebbe mai scavallato il Turchino. «Un tempo cupo, spaventoso. Incontrammo la neve a bordo strada e un vento gelido che sibilava. Avevo mani e piedi completamente congelati. Prima di scollinare mi misi la bici in spalla e proseguii». Grandinava a tratti, chicchi grossi come pugni stretti, gli occhi lacrimavano, le labbra erano gonfie e tumefatte per il gelo.
Scese a rotta di collo, aveva un distacco di circa sei minuti dalla testa; incontrò Van Hauwaert sul punto di ritirarsi con un mantello sulle spalle per ripararsi dal freddo e accompagnato da un ragazzo che lo aveva incontrato per strada. C’era ancora neve, ma ora lo scenario era cambiato.
Il cielo si fece terso, sempre più freddo, venti, trenta centimetri di neve depositata sulla strada. Scese ancora dalla bici per superare alcuni tratti e affondò coi piedi: gli prese un crampo allo stomaco e un principio di congelamento, quasi svenne su una roccia e si poggiò ai lati della strada. Passava di lì un uomo; Christophe, che di italiano sapeva poche parole se non probabilmente solo casa e acqua, si fece capire, e quell’uomo lo prese in spalle e lo portò nella piccola locanda che gestiva. Si asciugò, fece qualche esercizio, bevve del rum, si racconta, per riscaldarsi, e nel frattempo altri corridori che videro la luce accesa si fermarono ed entrarono. Alcuni, raccontò tempo dopo proprio Christophe, misero le mani congelate direttamente tra le fiamme del camino. Ma Christophe tornò a fibrillare: aveva una missione.
«Dove pensi di andare?» gli disse il padrone di casa «Non vorrai mica tornare lì fuori?»
«Certo, ma non vi preoccupate: andrò fino a Sanremo in treno».
Invece, ripresosi, pedalando, superando uno per uno gli avversari, Christophe giunse a Sanremo verso le sei di sera, primo e vincitore, ad attenderlo una folla gremita. «A volte pensavo di aver sbagliato strada perché in giro non c’era più nessuno». Secondo arrivò Ganna “in stato semplicemente pietoso” che fu squalificato: «La mia carriera è finita con questa spaventosa Milano-Sanremo» dichiarò prima di essere trasportato via in braccio.
Lo chiamavano il Vecchio Gallo, ma anche il ciclista fabbro. Da bambino a scuola, quando non avresti scommesso un centesimo sul suo avvenire, picchiava forte sul ferro con il martello. Dopo quella vittoria alla Sanremo fu ricoverato un mese all’ospedale per congelamento e ci mi se un bel po’ prima di riprendersi. Fece secondo al Tour nel 1912 e divenne il favorito l’anno successivo. Si scalava il Tourmalet, il leader della classifica fino al giorno prima, Defraye, si ritirò dopo aver superato Osquich, Soulor e Aubisque. Ormai sembrava fatta per Christophe, secondo in classifica con il rivale Thys alle sue spalle a distanza di sicurezza. In cima al Tourmalet passò primo, si fermò per invertire le ruote, e si lanciò in discesa quando arrivarono le prime notizie su un vantaggio di circa diciotto minuti in classifica generale. All’improvviso sentì che c’era qualcosa che non andava, era il manubrio della bici: «Ho rotto la forcella» si disse. Disperato, iniziò a piangere, avrebbe dovuto fare tutto da solo come imponeva il regolamento. La sua fortuna, in quel frangente, fu quella di essere abile a battere il ferro: dopo una decina di chilometri a piedi trovò su indicazione di una bambina una fucina a Saint-Marie-de-Campan, di proprietà del signor Lecomte – e ancora oggi in quel luogo si ricorda quell’avvenimento con una targa – e lavorò per oltre quattro ore. I commissari lo stavano aspettando proprio lì, avevano chiuso le porte a chiunque volesse osservare quella scena. Il signor Lecomte voleva aiutare Christophe: «Posso aggiustare la tua forcella» ma non era permesso dai giudici che stavano lì a osservare come aguzzini. «Per lavorare mi servono entrambe le mani» disse il corridore quasi troppo velocemente, con gli occhi rossi di rabbia e lacrime, i vestiti strappati. «Come posso azionare il mantice allo stesso tempo per mantenere viva la fiamma?». Un bambino si intrufolò e gli diede una mano, Christophe ripartì dopo quattro ore con le tasche piene di pane che gli aveva dato la moglie del fabbro, non prima però di essersi preso una piccola rivincita morale con un giudice affamato. «Hai davvero fame? Non puoi andare da nessuna parte: il carceriere deve restare col carcerato, però guarda se vuoi lì c’è del carbone». Giunse a Luchon in serata, Christophe, penalizzato ulteriormente per aver avuto un aiuto esterno nel riparare la bici. Chiuse quel Tour al settimo posto, stanco, ma felice tra le braccia della sua amata che lo aspettava a Parigi.
È stato, lui sì per davvero, il primo corridore a indossare la maglia gialla: era il 1919 e quel Tour lo stava per vincere. Vestì il simbolo del primato, di un giallo sbiadito che, sempre parole sue, lo facevano sembrare un ridicolo canarino. Anche in quel Tour ruppe la forcella in un tratto in pavè a poche tappe dal termine mentre era in testa alla classifica. Nel ’22, ancora in corsa per vincere il Tour, lungo la discesa del Galibier, ruppe ancora una volta la forcella.
Suo nipote Bernard qualche tempo fa ha raccontato che Eugene non ha mai voluto parlare di quella maglia gialla, quanto piuttosto di quel giorno sui Pirenei, e lo descrive, come farebbe qualsiasi nipote, come un uomo probo «tanto che rettificò i giornalisti che gli attribuivano quindici chilometri percorsi a piedi invece che dieci, quel giorno sui Pirenei». E quando era in pensione sfidava i suoi ragazzi in bicicletta: «L’ultimo paga da bere! – esclamava – Ci faceva andare avanti e poi verso la fine ci superava come una moto».
Anni dopo il suo ritiro, il giornalista Jock Wodley gli fece visita nel suo paese natale, a Malakoff vicino Parigi. «Christophe – racconta Woodley – mi disse di non essersi mai sentito un uomo ricco dal punto di vista economico, ma di ricordi felici e dotato di buona salute». Andava ancora in bici, soprattutto nelle zone vicino casa sua, ma senza mai fare troppo sul serio. «Sulla bici ho sofferto a sufficienza».
Foto: Archivio S.E.S.
Duecento metri
Per quanti metri la corsa continua a pulsare dopo aver fermato la sua spinta? Saranno duecento, trecento metri dopo il traguardo, il luogo della comprensione. Luogo non luogo perché insieme del tutto e del niente. Ma è lì che l’umanità si tocca a grappoli, come sempre del resto, perché è tutto ciò che non si vede e non si sente a vedersi e sentirsi di più. Perché la regola è sempre quella: non è il rumore a permettere l’ascolto. In quei duecento metri dopo la linea di arrivo c’è un mondo parallelo che apparentemente ha poco a che vedere con la corsa, in realtà per raccontare la corsa quei metri bisognerebbe conoscerli a memoria. Soprattutto di quei metri bisognerebbe fare propria la consapevolezza, che altro non è se non attenzione e conoscenza. Bisognerebbe farla propria perché quando si lasciano quei metri, se ci si è stati come bisognerebbe stare in qualunque situazione che ci tocca, forse si sa qualcosa in più di tutto ciò che serve e di tutto ciò che basta.
Dopo quella linea c’è l’abbandono. No, non solo quello di tante persone per cui la tua esistenza è strettamente connessa al vorticare dei pedali. Come se ci fosse un cono d’ombra dentro al quale puoi perderti senza che a nessuno interessi. Soprattutto se perdi, soprattutto se nessuno ti aspetta al podio, se “il tuo nome non è sui giornali e non si fa ricordare”. Qualche volta ti sei anche sentito parte di un circo più grande di te, ingranaggio di quel gruppo che risveglia voci e applausi. E se a casa hai tua figlia con trentanove di febbre? Se ti hanno detto che l’anno prossimo non correrai più per quella squadra? Se tua moglie ha perso il lavoro e non riesce più a dormire la notte? Che ne sanno quelli lì? Non immaginano neppure che in certi momenti vorresti solo tagliare quella linea per tornare a prenderti cura di quelli a cui vuoi bene. Non pensano che in altri istanti quella linea non vorresti mai tagliarla perché tu che non sei nessuno grazie a quel circo che ti inghiotte puoi sperare e dimenticarti tutto quello che non va, che non è mai andato.
In quei metri l’abbandono maggiore è il tuo. Abbandoni il tuo corpo, sparpagliato là dove solo la forza di gravità lo blocca, per terra. E non importa che ci sia asfalto, ghiaia, erba, sassi, non importa che ci siano quaranta gradi al suolo, che l’acqua ti inzuppi pure l’anima o il gelo rovente ti bruci la pelle. Lì c’è il male e tu sei stanco. Ti butti da qualche parte e ti lasci andare. La comprensione arriva in quel frangente. Quando vengono a raccattarti da dove non ti si riconosce quasi più. E ri-prendere è molto più difficile che prendere. Lo sappiamo tutti se abbiamo provato a intrecciare almeno una volta le mani con quelle di una persona che stava andando altrove. Per ri-prendere devi capire cosa serve e quanto basta. Julio Velasco lo raccontava: «Osservate una qualunque nonna mentre fa il suo piatto preferito. Guardatela mentre aggiunge il sale: una presa, un altro poco, sta per chiudere il barattolo del sale, si guarda attorno e ne aggiunge ancora un poco». Ecco, il “quanto basta” è lì, racchiuso in quel ripensamento senza nemmeno assaggiare la pietanza. Per aiutare qualcuno, anche solo per poterci provare, il “quanto basta” è essenziale. Lo sanno i massaggiatori che in quei metri sono l’anima di scorta di ogni atleta. Lo sanno perché sanno il momento in cui porgere la mano. I momenti sono la questione fondamentale. Per aiutare qualcuno devi avere cura dei suoi momenti, tralasciando parzialmente i tuoi. Vuol dire lasciare che non parli, perché non c’è più fiato, lasciare che non ti guardi nemmeno negli occhi perché arrabbiato o deluso, e restare incollato alla sua ruota anche se non smette di pedalare e fugge via, significa farlo perché sai che di te lui ha bisogno. Che se non sei dove ti vuole il bisogno, per lui sarà tutto più difficile e anche per te perché tu, in quel momento, potevi. Lui no, tu sì.
Comprendere vuol dire questo. Vuol dire che certe cose non sono sempre possibili o almeno non lo sono per tutti. Non significa pesare su una bilancia ma raccogliere da un mestolo. La bilancia segna una quantità, il mestolo raccoglie tutto ciò che può e anche di più. A rischio di traboccare. Ma ecco il segreto: ci sono occasioni in cui il nostro traboccare è un rischio percorribile. Il traboccare di altri un azzardo. Per stare in quei metri, questo devi saperlo. Devi sapere che è tutta adrenalina e che le emozioni incontrollate non guardano in faccia a chi prova a curarle. Non importa, tu ci sei per quello. Tu fai la tua valigia per quello. Per passare la borraccia giusta nel giusto istante. Giusta perché né troppo piena, né troppo vuota, giusta perché con zuccheri o sali minerali, giusta perché né troppo fredda, né troppo calda. Soprattutto giusta perché al servizio della necessità e del ”tuo bene”. Già, perché talvolta la necessità è il tuo bene e talvolta il tuo bene è la necessità. Non è la stessa cosa, no. Pensateci.
Lì dove slacciare un caschetto è un inno alla delicatezza, lì dove appoggiare un borsone a terra per far distendere un ragazzo sfinito è questione di attenzione, lì dove sai che, certe volte, non serve parlare, che non serve toccare, basta esserci. Perché il bisogno non ha per forza la necessità di essere spiegato ma ha la necessità di essere capito. Perché il bisogno non ha bisogno di parole ma di attenzione. E non hanno senso i “potevi dirmelo” ma solo i “potevi capirlo”.
Foto: Eloise Mavian