Il grido di Ewan

Per tutto il giorno non abbiamo fatto che aspettare sonnacchiosi questa benedetta volata: un po' per il vento, un po' per una giornata di moderato (e anche meritato, dopo tutto il freddo preso ieri) relax in gruppo, e sembrava non arrivasse più.

Si parte sotto un lisergico cielo fatto di ombrellini rosa. Non c'è Pozzovivo e ce ne dispiace: ieri caduto e arrivato in ritardo, oggi si è svegliato con male al braccio.

SI prosegue e il cielo imita l'elettrica danza dei corridori: azzurro intenso al via e poi grigio, con le nuvole che si caricano di pioggia mano a mano che il gruppo “aumenta” la velocità.

Si parte dall'Abruzzo e si arriva in Molise: da Notaresco a Termoli. Il mare, specchio blu, sta perlopiù a sinistra, le montagne, verde scuro, sono una cornice a metà che delimita il contorno. Perlopiù a destra.

Fuggono dalla golconda del gruppo tre corridori di squadre Professional che timbrano puntuali il loro cartellino: Marengo, Pellaud e Christian. I primi due, habituè oramai della fuga in questo Giro, li conosciamo bene, come personaggi ben caratterizzati di un fumetto a cui ci siamo affezionati. Il terzo, invece, è un ragazzo inglese che arriva dall'Isola di Man. Su pista ha vinto diversi titoli nazionali nella madison in coppia con Kennaugh, prima, poi con Rowe e persino con Simon Yates, quest'ultimo qui per vincere il Giro, mentre Christian è qui per dare esperienza ai suoi giovani compagni, della giovane EOLO-Kometa. «L'età si avvicina di soppiatto» raccontava tempo fa. «Ieri avevo vent'anni, oggi trenta e mi pare assurdo tutto ciò».

Peter Sagan, non bada all'età, ma pensa all'estro e giocherella per qualche punticino al traguardo volante. Poco dopo cincischia rilassato con gli occhiali mentre scambia due chiacchiere con l'ammiraglia in favore di telecamera. Disteso più che affamato, non riuscirà a fare la volata che sognava.

Quando i tre vengono ripresi, inizia la battaglia delle posizioni tra le squadre del gruppo: capitani di classifica contro uomini di tappa, velocisti contro scalatori, gregari contro gregari, a riparare dal vento, a cercare spazi. L'entrata a Tremoli è come un liquido che si infila in un imbuto, il gruppo si allunga e si assottiglia prima della sparata finale.

Ci prova Albanese, ma chiude Oss, mentre Gaviria si ricorda di aver avuto movenze feline e tenta la sorpresa. Poi spunta Ewan come fosse un urlo cacciato da lontano, spara a tutta, si leva di ruota Cimolai, Merlier, Moschetti e Pasqualon che gli finiranno, nell'ordine, alle spalle, adagiati come possono alla ruota del piccolo australiano, respirando il fumo del suo motore.

Sgasa furioso Ewan, e nessuno lo può passare: mulina le gambe, e il suo urlo si propaga fino al traguardo: fanno due a questo Giro. Tappa e maglia (ciclamino). E se deciderà di arrivare fino a Milano, si fa dura per Nizzolo (oggi 12°), Sagan (14°) e Viviani (15°) provare a strappargliela.

Foto: BettiniPhoto


Ciò che resta ciò che è

Ginevra non voleva parlarci. Non perché fosse maleducata o sgarbata, semplicemente perché, dice lei, chi ha vissuto il terremoto preferisce non parlarne. «Non si parla del terremoto, chi lo ha vissuto non vuole ricordarlo. Non oggi, almeno». Inizia a piovere su Ascoli Piceno, il tempo di aprire l'ombrello e Ginevra riprende: «E poi il Giro d'Italia è una festa, non si va a una festa portando il proprio carico di problemi».

Già lo sapevamo, ma, dopo queste parole, abbiamo avuto, ancora una volta, la netta sensazione dell'inutilità dello scorrere del tempo di fronte a certe cose. Perché per Ginevra, come per molti altri, quando si parla del terremoto non è cambiato proprio niente, nonostante siano passati cinque anni. «Di quello che c'era, non è rimasto più nulla. Non credo ci sia molto da raccontare». La sua voce per un attimo diventa fredda, come chi non vuole scoprirsi, come chi ha paura di scoprirsi. «Sai il problema? Molti vengono qui, vanno in quelle zone, e ci portano la loro commiserazione per le case diroccate, i campanili dissestati, il paese che sembra essere fantasma. Non c'è nulla di peggio. Parlo per me: non voglio quella forma di pietà, non so cosa farmene. Mi imbarazza anche. Tirerei su quei mattoni con le mie mani se ne fossi capace, pur di non sentirmi più guardata così».

Del giorno in cui arriva il Giro, a Ginevra, piace una cosa. «Non ci sentiamo diversi, non ci sentiamo quelli che hanno perso tutto. Sarà perché si è in tanti, sarà perché c'è voglia di festeggiare ma non c'è tempo per quella compassione. Almeno oggi».

La parte più brutta sta nei dettagli, sta in quello che forse pochi possono immaginare. «Arrivi a detestare la natura perché, quando il terremoto ti ci butta in mezzo, capisci quanto può essere cattiva, quanto può far male. Per chi ha passato quel periodo stare in mezzo a un prato non significa ciò che significa per tutti gli altri. Per chi ha passato quei momenti finire in mezzo a un prato significa tornare lì. Ed il peggio è che non puoi fare niente, perché se torna, e spesso torna, il terremoto ti distrugge ancora. La casa dovrebbe essere il luogo dove sentirsi sicuri, per un terremotato la nuova casa è il luogo dell'angoscia, della paura».

Non sono qui, non sono sulle strade della tappa, ma Ginevra ha due bambini. Loro erano davvero piccoli quando c'è stato il terremoto e non hanno un chiaro ricordo di quei momenti. A loro è rimasto il resto, è rimasto quello che hanno sentito dagli adulti. «Tempo fa, li ho visti fare uno strano gioco. Uno contava e l'altro portava fuori dei giocattoli dalla cameretta. Quando ho chiesto cosa stessero facendo mi hanno risposto: “Così siamo veloci a salvare i nostri giocattoli preferiti se viene il terremoto”. Ora capisci perché non voglio parlarne?».

E noi forse possiamo solo dire: per fortuna che c'è il Giro. Per fortuna che il Giro è passato da qui.

Foto: Luigi Sestili