Storie di uomini semplici

Il racconto di oggi non è soltanto quello di una tappa. È il racconto di chi si sveglia al mattino con le gambe indolenzite, tanto da fare fatica a scendere le scale per andare a colazione, e poi c'è la riunione tattica, una bici da prendere, casco e mascherina, ci sono tutti i riti scaramantici e propiziatori, c'è da fare un giro per vedere che aria tira, e se c'è un po' di sole come oggi sopra Foggia al via, beh: respiro di sollievo.

La storia di oggi è quella di 177 corridori che partono verso Guardia di Sanframondi e si danno battaglia come non mai: dicevamo di quel respiro di sollievo?

Lo stradone che da Foggia porta a Campobasso è, appunto, uno stradone. Largo largo che il gruppo potrebbe viaggiarci di traverso, ma un leggero vento di fianco induce ai cattivi pensieri da subito.

Una storia semplice quella di oggi: come quella che vede Bernal davanti nei ventagli a 165 chilometri dall'arrivo, gli dicono di fermarsi: "oh ma che ci fai qui?", forse non sanno che Bernal nei ventagli ci sta meglio di altri, e lui lì si è trovato non per caso o per dispetto, ma per vocazione.
Stuzzica il gruppo quell'azione, e ci vogliono settanta chilometri prima che gli animi si plachino e la fuga, quella giusta, riesca a partire.

E la tappa di oggi diventa così un racconto che scorre veloce, scritto sulla strada da nove corridori che, visto com'erano andati i primi chilometri, sembrano spaesati lì davanti. È il racconto di un Dante su una bici rosa nascosto dietro una curva, di cani senza guinzaglio lungo la discesa di Bocca della Selva, di case con le pietre sulle tegole, di nuvole scure in cima alla salita, di un gruppo che tira i remi in barca dopo aver esagerato con l'ultraviolenza per oltre un'ora, rimandando a domani l'appuntamento con la gloria.

E così c'è tempo per conoscere Gaviria, in fuga chissà, un po' per caso - la sua squadra oggi poteva puntare su altri - lui, velocista, qualche stagione fa sembrava dovesse dominare. Invece fa fatica, non vince più e cerca altre vie per il riscatto. Quando attacca su un tratto di leggera salita e poi cade due curve dopo in discesa, sembra di ritrovare nel mucchio la foto esatta che ritrae un lungo periodo in cui non gliene va dritta una.

E così conosciamo la storia di Arndt, veloce, ma non abbastanza per essere un velocista, forte sul passo ma non abbastanza per essere il più forte tra i passisti, ma che al Giro ha già vinto ed è uno spesso letale in fuga. La storia di Oliveira, per molti il favorito tra questi nove, di Gougeard che avrà attaccato cinquanta volte, di Campenaerts che il suo pezzo di storia, con il record dell'ora, l'ha già scritto, di Goossens, da Baal come il suo mentore Sven Nys, il più giovane davanti: negli anni ha superato ostacoli di ogni genere, fratture, problemi alimentari e che prende appunti dai maestri della fuga per ritagliarsi un giorno anche lui un posto nella storia.

Come Gavazzi che trascina con la sua esperienza la squadra e che in carriera vinse una tappa alla Vuelta ormai dieci anni fa: oggi, secondo, arriva a tanto così da un sogno.

La storia semplice di Carboni, che da Under 23 era uno su cui puntare, poi ha faticato a emergere, ma ha vestito per un giorno la maglia bianca al Giro. Racconta che la bici è sofferenza, che è divertente quando vinci «altrimenti può essere una brutta bestia». Non ha mai vinto, e oggi c'è mancato poco.

E infine c'è quella di Lafay, vincitore incredulo e incredibile, con quella faccia da bambino, il naso fine e le guance rosse. Va in bici da quando è nato, e dice che uno dei momenti più brutti della sua vita è stato quando ha passato cinque mesi senza toccarne una.

Il racconto di oggi si chiude così, con questi uomini che andranno a dormire con le gambe indolenzite, con le ferite sul corpo di Gaviria e la tristezza di Carboni, il sogno sfiorato del vecchio Gavazzi, quello realizzato dal giovane Lafay. Storie di uomini semplici in bicicletta come solo la bicicletta sa raccontare.

Foto: BettiniPhoto


Ultimo uomo

Per Fabio Sabatini, quello iniziato sabato scorso a Torino è l'undicesimo Giro d'Italia. Eppure, a pensarci bene, di uguale non c'è praticamente nulla. «Sarebbe come paragonare il giorno alla notte. Il mio primo Giro è stato nel 2007, in Milram. Posso citarti ancora il treno a memoria: Petacchi, Velo, Sacchi e Ongarato. Il clima era diverso, c'erano ancora i treni dei velocisti. Ad oggi non c'è più una squadra che ne abbia uno definito. Forse è anche perché la dinamica dei punti UCI costringe le squadre a frazionare i compiti al loro interno. Noi eravamo al Giro solo per Petacchi. Ora, in Cofidis, ma vale per ogni squadra in realtà, ci sono tre uomini a supporto di Viviani per le volate e gli altri quattro che si giocano le altre tappe. Il treno che partiva ai tre chilometri dal traguardo non è nemmeno lontanamente replicabile».
Il lavoro di questi giorni al Giro, spiega Sabatini, è lavoro di esperienza per mettere il velocista nella migliore posizione. «Io tiro sempre le volate. Una volta lo facevo di potenza, ora di esperienza. Per Viviani ci sono io e c'è Consonni, per Gaviria ci sono Richeze e Molano. Solo la Deceuninck - Quick Step ha ancora un treno ben definito per Bennet ma perché loro lavorano così. Ricordo quando correvo lì, i meccanismi erano talmente fissati che era quasi impossibile sbagliare. La squadra partiva ai due chilometri, io ai quattrocento metri e mi spostavo ai duecento. Poi potevi vincere o perdere».
Un punto fisso resta: la fiducia. Non si diventa “ultimo uomo” dopo pochi anni di professionismo e questo è importante perché «puoi perdere il picco di potenza, quello che hai imparato, anche sbagliando, non lo perdi». Anzi, nel tempo, provi a metterlo a disposizione degli altri. «Simone Consonni è molto bravo ed essendo un ragazzo davvero intelligente capisce al volo ciò che c'è da fare, forse gli manca ancora un poco l'occhio. Non ci sono segreti particolari. Consonni, venendo dalla pista, è molto scaltro e riesce ad infilarsi in ogni varco del gruppo. Va bene, però non deve farlo quando pilota un velocista altrimenti lo costringe a fare continue volate per tenergli la ruota e, all'ultima volata, le gambe non ci sono più. Ma è giovane ed impara in fretta».
Anche la volata di ieri, aggiunge Sabatini, è stata basata sul riuscire a scegliere le scie giuste per essere nelle prime posizioni all'uscita dall'ultima curva. «Ora si lavora sempre più sull'anticipare la volata e per farlo è questa l'unica via». Crede che Viviani sia uno degli uomini più completi con cui gli è capitato di lavorare e, se pensa al passato, chiosa: «Gran parte di quello che ho imparato lo devo ad Alessandro Petacchi. Lui e Mario Cipollini erano maestri in tema di volate. Sono quegli atleti unici, inimitabili».
Quando gli chiediamo se sia soddisfatto del lavoro svolto sino ad oggi al Giro, Sabatini non ha dubbi: «Noi siamo venuti qui con l'idea di lavorare bene e credo che questo, per quelli che sono i nostri mezzi, lo stiamo facendo. Ci manca la vittoria, solo quello. Si sa, però, che, quando la cerchi troppo, non arriva. Magari, poi, incappi in una circostanza fortunata, ti sblocchi e da lì tutto scorre. Ogni giorno è il giorno buono. Ricordiamocelo sempre».

Foto: Luigi Sestili