Aprite i vostri occhi
Quando Edoardo Affini si è messo in testa a tirare per Groenewegen a poche centinaia di metri dal traguardo, nessuno si sarebbe aspettato mai di rivederlo sbucare con un certo margine all'ultima curva, con uno di quegli schiaffi al gruppo che ormai non si vedevano da tempo: il colpo del finisseur.
Dice che non era pianificato, che ha trovato lo spazio e si è gettato, ma è parso così perfetto, o quasi, che facciamo fatica a crederci. Quasi, perché le schegge della deflagrazione si infrangono a venti metri dalla linea d'arrivo.
Valgono più quattro ore di nulla praticamente assoluto, oppure quell'ultimo minuto di sprint? La risposta è difficile da dare, ma la troviamo negli occhi rossi per la rabbia di Affini e nella lingua di Nizzolo mostrata a tutti come una liberazione.
Vale tanto quell'ultimo minuto di sprint, vale per tutti, ma in particolare per lui. Una serie ridondante di piazzamenti al Giro senza vittoria e poi oggi, nel più semplice degli sprint, nella più semplice delle tappe, è il più veloce. Il più forte. Il più quadrato. Vigoroso e intenso nella sua maglia di campione europeo.
È un paradosso quello che coinvolge i folli delle volate. Perché concentrano in pochi attimi emozioni che si tengono dentro per lunghe ore interminabili, per lunghi anni passati a sognare un successo di questo genere.
E sono mesi che Elia Viviani sogna questo traguardo: «È una strada che conosco a memoria, la faccio tutti i giorni sin da quando sono bambino». Forse anni a pensarci. Se chiude gli occhi, Elia potrebbe descriverti perfettamente ogni centimetro di asfalto che porta verso il traguardo. Se chiude gli occhi e pensa a quando fra pochi mesi sarà il portabandiera italiano ai Giochi Olimpici forse un minimo riuscirà ad arginare l'amarezza.
Ma chiude gli occhi e parte lungo Nizzolo, dribbla Sagan, piomba sulla ruota di un Gaviria che rimbalza contro l'attrito, sfinito da gambe che non trovano più i giorni migliori.
Apre gli occhi, Nizzolo, perché a destra c'è ancora Affini e al traguardo mancano 150 metri. Che sono quantificabili in... tre secondi?
E noi sgraniamo gli occhi in quel lungo attimo, urliamo "Affini" come fa Rob Hatch in televisione, urliamo "Nizzolo" perché al Giro non ha mai vinto e vorremmo vederlo vincere prima o poi.
E siamo la delusione di Viviani, e di questo suo lungo momento, e siamo l'incredulità di Affini, che ha sfiorato il colpo.
Siamo il denso giubilo di Nizzolo che stavolta la vittoria la prende a piene mani e l'assapora. Una vittoria che, come dicono loro, i ciclisti, prima o poi a furia di cercarla arriva, semplicemente.
Banale e sorprendente, come in quel gioco assurdo che è la follia degli sprint.
Foto: BettiniPhoto
Tormento senza estasi
A una media di circa 37 km/h e in sella a una bicicletta, Bagno di Romagna è parecchio lontana da Siena. Se poi vai giù dopo quattro chilometri diventa un calvario.
Sono passati pochi minuti dal via, forse sei o sette, massimo otto, quando Marc Soler cade. Sbatte la schiena e si rialza, come fa un ciclista quando assaggia l'asfalto, e chi va in bicicletta sa di cosa parliamo. La telecamera si ferma a lungo su di lui, mesto, con un compagno di fianco, arriva l'auto del medico, persino l'ambulanza, si tocca la schiena, ha male dappertutto. Qualche gesto plateale che fa parte del personaggio.
Chi ha visto il documentario sulla Movistar uscito un paio di anni fa si è fatto un'idea di lui. Talentuoso quanto bizzoso, quando si accende in salita è tra i più forti, e il Tour de l'Avenir vinto non fu per caso.
Due anni fa, durante la Vuelta, mentre il gruppo saliva verso Andorra, Soler era davanti in fuga e assaporava il successo. L'ammiraglia lo richiamò: «Dietro Valverde e Quintana hanno bisogno di te», Soler si girò mandando tutti a quel paese, volarono insulti quel giorno e in quelli successivi. Soler è un tipo difficile da tenere a bada.
A questo Giro era tra i pretendenti a un buon risultato, tanto che l'altro ieri, tra uno sterrato e l'altro, aveva dato un'accelerazione in testa al gruppetto dei migliori, pagando poi nel finale di corsa.
Soler è sempre lo stesso, forte ma volubile, è quello che vinse al Romandia un paio di settimane fa esultando polemicamente col dito davanti alla bocca, lo stesso che ieri è caduto e si è rialzato nonostante il dolore. È cambiata solo la prospettiva in questo Giro dopo una rincorsa al gruppo che stava diventando un'agonia.
E ieri il suo tormento si è chiuso dopo 50 km di telecamera fissa sul suo malessere. Lascia il Giro, mancando l'ennesima occasione per dimostrare chi è.
Il ciclismo, tra le sue peculiarità, è uno sport che dà poco e toglie molto. Ripido in salita come in discesa: una bilancia della giustizia falsificata. Pensate a De Marchi: a un certo punto lo abbiamo visto riverso sull'asfalto. Chi ha mandato in onda le immagini è stato penoso ancora più che impietoso, lo diciamo senza morderci la lingua: era proprio necessario indugiare come l'occhio di un avvoltoio? Era proprio così utile farlo senza sapere nulla sulle sue condizioni?
De Marchi solo qualche giorno fa ha vestito il sogno di una vita per un corridore italiano: la maglia rosa. Ieri è stato trasportato in ospedale con botte e fratture, e quelle immagini non le avremmo mai volute vedere, noi, figuriamoci le persone più vicine a lui. Quelle immagini non sarebbero mai dovute andare in onda almeno fino a notizie rassicuranti avvenute.
Ieri è stata la tappa del calvario e dell'agonia: Bagno di Romagna è davvero lontana da Siena. Naesen cade mentre cerca di mettersi una mantellina; Goossens cade, batte il fianco destro e si ritira, Dowsett chiude il suo tormento poco dopo quello di De Marchi, sconfitto dai dolori allo stomaco. Masnada dà una risposta alle contro prestazioni dei giorni scorsi e abbandona per un problema al ginocchio. E poi ancora lo strazio di vedere Petilli, Ulissi e Tesfazion soffrire in discesa e staccarsi. E poi un altro ritiro, quello di Mäder. Pochi giorni fa vinceva la tappa il giorno dopo la caduta con ritiro del suo capitano Landa, prendendosi una rivincita su quel finale strappacuore della Parigi-Nizza. Per la sua squadra un tormento continuo. Bello il Giro d'Italia, è vero, formidabile sport il ciclismo. Ma quanto patire.
Foto: Luigi Sestili
L'ultimo Giro di Manuel Belletti
Quando Manuel Belletti è partito per il Giro d'Italia era felice, ma aveva anche paura. Al Giro di Turchia, una caduta gli aveva causato delle microfratture delle costole, bastava un nulla per peggiorare la situazione ed in corsa può succedere di tutto. «Purtroppo durante la terza tappa sono caduto: il medico di gara ha capito subito la situazione e mi ha consigliato di fermarmi. Non l'ho ascoltato e all'arrivo faticavo a respirare. Nei giorni successivi ho provato a continuare, ma un colpo di vento, mentre infilavo la mantellina, mi ha messo fuori gioco. Non è possibile fare i conti solo con ciò che si vuole, arriva il momento in cui devi accettare ciò che puoi e non puoi fare. Alla sesta tappa, sono tornato a casa».
Sì, perché Manuel il suo ultimo Giro d’Italia avrebbe voluto concluderlo a tutti i costi. «Dopo la caduta ho proseguito solo di testa. Il ciclismo ti insegna anche ad usare la testa per ingannare il corpo e per arrivare dove non penseresti mai. Quando ti guardi indietro, non riesci nemmeno a capire come hai fatto, perché lo hai fatto. Sembra illogico pedalare per cento chilometri quando anche da fermo senti un male assurdo perché non respiri. Anzi, è illogico». Belletti è sempre stato così, sin da ragazzo, dopo quattordici anni di professionismo, però, c'è di più: «Ho imparato a conoscermi, ho scoperto cose di me che non avrei mai immaginato. Molti mi dicono che ora sono un uomo più forte, in parte è vero. Ma è altrettanto vero che sono anche fragile, molto fragile su certi aspetti. Senza dubbio mi conosco e questo credo sia un dovere di ogni persona. Per esempio, dopo la Tirreno Adriatico di qualche anno fa, ho capito che ho paura del freddo, l'ho accettata ed ho provato a farci i conti per superarla».
Belletti è un ragazzo sincero, lo capisci quando gli chiedi come stia e non si limita alla risposta di circostanza. Te lo dice chiaramente, prendendo seriamente la domanda ed ancor più la risposta: non sta ancora bene e si sta sottoponendo a fisioterapia. Una domanda che, quando sei un ciclista, ti senti fare dai tuoi familiari al telefono, ogni mattina ed ogni sera. «Loro vogliono solo che io stia bene e di questo si preoccupano. Però, nel tempo, ho capito anche che non puoi pensare di ascoltare sempre tutti, di non far mai torto a nessuno. La tua fatica e le tue scelte ti appartengono: devi imprimere tu la direzione che vuoi».
Lui spiega di averlo sempre fatto, anche quando ha deciso che sarà l'ultimo anno da professionista. «Proprio perché credo al valore delle decisioni, voglio scegliere io quando smettere. Non voglio arrivare ad essere obbligato a farlo per mancanza di contratti. La mia testa dice così. Chi mi conosce, pensa che avrei potuto ottenere di più nella mia carriera se, in qualche occasione, non mi fossi accontentato. Credo sia vero. Io, così critico con me stesso, mi sono accontentato diverse volte. Continuare a pensarci, però, non cambierà la situazione. Ad un certo punto ho iniziato a sentire il bisogno di una vita più regolare. Meglio: ho iniziato a sentire la necessità di vivere il mondo che c'è la fuori, quello reale».
Ed è a proposito di quel mondo che Belletti ha la sua paura più grande. «Ho fatto tanta fatica in bicicletta, ma chiunque lavori fa fatica. Sono stato un privilegiato perché sono stato pagato per fare ciò che mi piaceva. Molte persone, per portare a casa uno stipendio, devono fare cose che non amano, che odiano nel peggiore dei casi. Ora che anche per me viene il momento di andare là fuori, ho il timore di non esserne capace. So di non avere le competenze per fare un altro lavoro, so di dover ripartire da zero e questo mi fa paura. Ma l'ho scelto e lo farò. Senza dubbi».