Ci hai fatto urlare, Alberto Bettiol

Come brillano i muscoli di Bettiol quando sul traguardo leva le mani dal manubrio, sorride, li mostra, ci crede, occhi nascosti dagli occhiali che riflettono la luce del sole che abbaglia Stradella.

Ci crede, sì, ma fino a un certo punto. Ci ha creduto, pareva non arrivasse più questa vittoria, in una giornata dura, da fuga pazza, da finale a tutta, chiama all'appello il pubblico che risponde, e quel punto esclamativo davanti al suo nome scritto sugli appunti si cerchia di rosso.
Un gladiatore, Bettiol: gettato nell'arena mostra i pericoli delle sue zanne. Infligge ferite: chiedete a Cavagna. Ripreso sull'ultima salita esplode per tenergli la scia come se davanti alle sue ruote la forza di Bettiol emanasse vapore bollente.

Ci hai fatto urlare, Alberto Bettiol. Finalmente Bettiol, ci vien da dire. Vittoria cercata e arrivata, suggerita da ogni angolo del globo ciclistico. Dopo aver mostrato di andar forte ovunque a questo Giro, pure in salita, Hugh Carthy se lo è tenuto stretto. Bettiol vicino a lui, una guardia, una coperta in inverno, con tutto il freddo che hanno preso. Francobollato alla sua schiena, Carthy, come se dalla linfa di Bettiol prendesse forza. Come se i suoi muscoli bastassero per due.

E non poteva esistere, in un mondo fatto di ruote, grasso e catena, che uno così avesse vinto solo due corse in carriera. E non poteva esistere che in un gruppo di bei nomi come quelli oggi in fuga, uno come Bettiol non fosse tra i favoriti.

E non poteva scegliere tappa migliore. Infinita da non sembrare vero con i suoi 231 km al diciottesimo giorno di corsa. Da attaccanti, da lunghi rapporti in salita che lui spinge con la naturalezza di un animale nato per vincere oggi. Salite spacca gambe che ispirano il talento, discese più che pennellate affrontate in sicurezza. Uno scenario da cartolina da mandare a casa e scrivere: "Ciao mamma, oggi ha vinto Bettiol!" e di fianco una faccina sorridente, un cuore scarabocchiato, un altro punto esclamativo di fianco al suo nome.

Occhialini tricolori e casco rosa: apoteosi della partigianeria in salsa Giro. È uno strano animale da corsa Bettiol, a volte te lo aspetti e non arriva, oggi lo vedi lì, frizzante, ma quando parte Cavagna pensi di nuovo all'occasione sfumata.

Invece appare calcolato: animale razionale che usa finemente il cervello, sfrutta muscoli d'annata, e una pedalata, oseremmo dire, da giorni migliori. Da giorni forse mai visti. Quei giorni che un paio di anni fa gli permisero di staccare altri animali, quelli da pavé al Fiandre.
Quel giorno come oggi dove tutto fila liscio come l'asfalto dell'Oltrepò Pavese che si insinua seguendo curve e controcurve, dove la pianura cozza con la collina.

E così ha vinto Alberto Bettiol. Scattando a Cigognola, sgasando a Broni, sfogandosi a Canneto Pavese, traduzione maccheronica di quel Oude Kwaremont che lo ha reso grande.
Cavallo di razza, estroverso e simpatico, coinvolgente, con quell'accento toscano, lui che sogna la Strade Bianche, ma vince il Fiandre e una tappa al Giro. Speciale come ogni animale ciclistico e col merito di averci fatto urlare oggi: Alberto Bettiol!

Foto: Luigi Sestili


Per raccontare Egan Bernal

Per raccontare Egan Bernal, forse, basterebbe raccontare ciò che ha detto ieri in conferenza stampa, in un giorno difficile, in un giorno in cui avrebbe anche potuto non avere voglia di parlare. Ha detto che, in fondo, per le persone che amano il ciclismo è meglio così, perché il Giro è più aperto, perché non si sa mai cosa aspettarsi, perché, se gli attacchi continueranno, sulle strade ci sarà spettacolo e la gente si divertirà. Non è facile dirlo, non è facile quando hai perso, quando sembravi poterti fermare da un momento all'altro su quella salita.

Poi, per raccontare Bernal, si potrebbe o si dovrebbe raccontare Daniel Martínez, il suo compagno di squadra, colui che ieri l'ha incitato fino alla fine mentre perdeva le ruote. «Mi diceva di resistere, mi diceva “Pensa che vinci il Giro”. Dani è un amico». E pure quell'inciso sull'amicizia è tutt'altro che scontato. Perché si potevano usare le solite parole: compagno di squadra, gregario, scalatore. Invece no, Bernal dice “amico”. Soprattutto Bernal dice.

Ce lo hanno spiegato Santiago, Mariana e Mateo, colombiani come Egan e Daniel, quanto sia importante. «Martinez non avrebbe fatto nulla di male se non si fosse voltato e non lo avesse incitato. Un gregario non deve necessariamente voltarsi ed incitare, per quello ci sono i tifosi. Ma lo ha fatto ed in quel farlo probabilmente c'è anche la Colombia. Tutti pensano alla povertà come ad una mancanza di cose, la povertà è anche mancanza di parole. Delle tue e di quelle degli altri. Perché in certi casi le persone non sanno cosa dirti e tu non hai nemmeno il coraggio di chiedere. C'è anche questo nel nostro essere solari, nel nostro accogliere, invitare ed incitare».

Per raccontare Egan Bernal non si potrebbe non raccontare del rapporto con la sua famiglia. «La maglia rosa ti toglie tanto tempo, sei l'ultimo a tornare in albergo e, sei vuoi mantenerla, devi riposare bene, quindi devi andare a letto presto e non hai molto tempo. Però, per parlare con mia madre, mio padre e la mia ragazza quel tempo me lo ritaglio. Sono loro la mia motivazione». Umile, per nulla egocentrico perché «in casa non ho foto mie in bicicletta, nemmeno miei ritratti. Ne ho una di Marco Pantani e mi basta».

Bisognerebbe raccontare della sincerità di Egan Bernal. «Sì, forse sarebbe stato meglio andare a vedere la salita di Sega di Ala. Forse avrei fatto meglio. Come, probabilmente, a me il giorno di riposo ha fatto male ed è anche per questo se ho pagato. Ma non si possono nemmeno prendere queste scuse. Yates mi avrebbe staccato comunque perché era più forte oggi. Bisogna dirlo e basta». Ed ancora bisognerebbe raccontare di tutto ciò che non ritiene scontato e della fame di esserci, di essere lì, di non sparire. Qualche anno fa lo disse: «Non voglio essere uno di quei corridori che appaiono a ventidue anni e di cui a ventisette non si ricorda più nessuno». Chissà, forse Mateo, Mariana e Santiago direbbero che pure qui c'è la Colombia e tutte le cose che in quelle terre non hai. Anzi, direbbero certamente così. Lo decidiamo noi.

Per raccontare Bernal bisognerebbe andare nella sua terra ed osservare per qualche minuto un bambino che lo guarda mentre attacca, un padre contadino che si asciuga la fronte dal sudore per vederlo ed un anziano che chiama la compagna per tifarlo assieme. Bisognerebbe andare in quella terra per capire cosa significhi per loro Egan Bernal. Bisognerebbe andare in quella terra perché, per raccontare Egan Bernal, bisognerebbe soprattutto raccontare la loro speranza.

Foto: BettiniPhoto