La solitudine dell'aquila

A vederlo pedalare curvo in bicicletta, con le spalle che ondeggiano come dicesse sempre no a qualcuno o qualcosa, Bauke Mollema appare un goffo levriero. Ma quando gli chiedono che animale vorrebbe essere, risponde senza pensarci: «Un'aquila. Per aprire le ali e spiccare il volo».
Divoratore di libri, durante il Giro per rilassarsi ha letto un romanzo di Lize Spit, qui al Tour "Utopia Avenue" di David Mitchell, l'autore tra gli altri di Cloud Atlas.
Efficace come l'abito di un sarto italiano, se lo metti in fuga lui sta, controlla, tira, parte, vince. Secco archibugio esperto, sciorinatore di causa-effetto.
Vince poco, ma bene, a lunga gittata appare quasi infallibile. Ha pure un marchio di fabbrica nelle sue azioni: gli altri si guardano e lui parte. Poi non lo riprendi più.
Ha un motto: "Se passi per l'inferno, continua ad andare per la tua strada" e non si vincono tappe al Tour per caso, né un San Sebastian, né un Giro di Lombardia, come quando nel 2019 sfruttò il marcamento per partire e, appunto, andare. Come oggi: infallibile il suo fiuto a quarantuno chilometri dall'arrivo.
Di corsa e da corsa, come quel levriero a cui lo abbiamo paragonato, soffre il freddo forse per quella forma fisica, ama il caldo, oppure in certi momenti semplicemente si trasforma. Coglie l'attimo.
Oggi scappare via dal gruppo appariva impossibile: la fuga era ustionante come il panace di Mantegazza, come l'hogweed cantato dai Genesis. Si è fatto di tutto per estirparla. Quando è partita, finalmente, era composta da corridori così forti che avresti fatto fatica a scegliere un nome e allora quando lo hai visto hai pensato: "Se Mollema fa il suo scatto, chi lo rivede più?". Veloce come un levriero ha seguito il suo istinto, ha aperto le ali, rapace, un'aquila in solitaria che fa quello che gli riesce meglio: controllare, tirare, partire, vincere.


Testacoda

«Tutti mi chiamano trattore e mi piace. È vero: so di non essere una Ferrari, so di non aver mai vinto, ma ogni tanto chiudo gli occhi e immagino come possa essere vivere quel momento».

Tim Declercq in carriera non ha mai vinto una corsa: paradossale per la squadra che da anni è la più vincente del gruppo. Ieri, mentre il suo compagno di squadra Cavendish eguagliava Merckx a quota 34 successi al Tour, El Tractor, come viene chiamato da un po' di tempo per l'intuizione di un telecronista argentino, doveva ancora percorrere gli ultimi dieci chilometri di corsa.

L'importanza di Declercq in gruppo la capisci accendendo la televisione quando all'arrivo mancano centinaia di chilometri. Sempre in testa a chiudere, a tirare, a dare cambi, a portare a spasso, ad arare, come si addice a chi porta quel soprannome. Fuori dalle corse lo definiscono docile come un bambino, in corsa farebbe paura al più impavido degli eroi.

Ieri, Tim Declercq, da anni considerato il più forte gregario del gruppo, tanto da aver vinto un paio di stagioni fa un premio ideato da una rivista inglese, è caduto, ma non ha desistito. Si è rialzato ed è arrivato al traguardo nonostante le botte e le ferite. Mark Cavendish aveva un appuntamento con la storia e lui, che delle vittorie degli altri è sempre uno dei fautori, avrebbe dato in pasto ai cani anche il suo cuore pur di arrivare alla fine.

È arrivato, ultimo, ma è arrivato. Quando è arrivato, Cavendish aveva già festeggiato sul podio. Ma un pezzetto di vittoria è comunque suo e da oggi proverà a ripartire con il solito spirito: menare, menare, menare, per gli altri e per realizzare se stesso. Senza vittoria? Non importa, prima o poi arriverà anche quella, al massimo chiuderà gli occhi e inizierà a sognarla.


Tra il pubblico

Ogni volta che la nostra macchina passa fra le roventi strade del percorso del Tour de France, qualcuno, guardando la targa, esclama ad alta voce: «L'Italie, l'Italie». Sembra che Alfredo Martini dicesse che il ciclismo è amicizia. Forse, di sicuro è conoscenza.

Di Rafael, ad esempio. Un signore incontrato a Saint-Paul-Trois-Châteaux che ci ha raccontato di conoscere Azzurro, la canzone di Adriano Celentano che l'altra mattina era trasmessa al villaggio di partenza e, quando ha capito che eravamo italiani, si è avvicinato a noi provando a canticchiarla. In realtà, inizialmente, voleva solo sapere se la sua pronuncia fosse corretta, successivamente, però, ha ammesso di essere da sempre un appassionato di musica e di avere sentito quella canzone per la prima volta a Roma nell'estate del 1971.

Jacques, invece, intento a bagnare i suoi fiori, su un balcone di una vecchia casa di Carcassonne, ci dice che se pensa all'Italia gli vengono in mente i Trulli di Alberobello. Spiega che gliene hanno sempre parlato tutti, ma lui non è mai riuscito ad andarci. In Puglia è stato solo una volta, era su un pullman turistico che si è guastato in mezzo ad una strada di campagna. «La strada non era male, ho pensato fosse una fermata».

Conoscenza perché ti incontri per caso, ma raramente vai via senza aver detto qualcosa. Una famiglia in albergo a Beziers vuole che raccontiamo qualcosa del Giro d''Italia. Loro del Tour ci dicono che, un anno, hanno seguito tutta un'edizione in camper. «Il momento più difficile è stato quando siamo rimasti senza energia elettrica. Lì ci siamo davvero chiesti come facessero tanto tempo fa e abbiamo capito quante cose non sappiamo più fare».

Qualcuno si chiede se l'Italia vincerà l'Europeo e scherza: «Dopo il blu francese, il vostro azzurro è il mio colore preferito». Qualcuno non chiede nulla, non dice nulla, se non “benvenuto” quando capisce che non sei di qui, che è poi un linguaggio universale. Perché c'è un senso di appartenenza particolare al Tour. «Sulle strade del Tour c'è tanta gente a cui del ciclismo non interessa nulla» dice Monique. «Scende in strada perché può fare festa e stare insieme. Pensare che qualcuno venga da un altro paese alla tua festa è più bello, no? Sì, perché non si trova lì per caso, ci arriva apposta e lo fa solo per vedere la tua festa».