Io non ho paura

Bisogna fare come Wout van Aert quando si ha paura. Stamattina alla partenza si diceva fiducioso e motivato, ma con una sensazione dominante, che poi era la stessa che aleggiava, come uno spirito maligno, per tutti in gruppo: la paura per quello che avrebbero affrontato. Montagne, discese, caldo, partenza di quelle che ti friggono gambe e cervello.
Van Aert ha preso la paura e se l'è scrollata di dosso nel modo più naturale che ci sia: andando in fuga, facendo fatica. Perché è solo in quell'automatismo sensuale, il pedalare, che si scacciano i cattivi pensieri; è solo nello sforzo che si mandano via quei turbamenti che si annidano, silenti, nell'acido lattico che riempie i muscoli dopo due settimane di Tour.
Non solo van Aert ha scacciato la paura, ma ha aiutato Kuss a non averne. Il cuore di Kuss, sotto l'impulso di van Aert, ha preso a pulsare trascinandolo alla vittoria. Kuss, che da ragazzo la mattina si alzava e guardava le montagne rocciose con aria di sfida, che facendo sport di ogni genere ha imparato ad affrontare la vita con coraggio.
Anche Armirail è un inno alla baldanza, tira tutta la tappa per Gaudu che qualche giorno fa di paura ne ha avuta tanta sul Mont Ventoux e che oggi ha provato a ribaltare la sua sorte. Ma è andata com'è andata. E Valverde? A lui fa paura solo l'idea di smettere, e oggi a 40 anni per poco non vince e ci convince.
Quando Kuss conquistò una tappa due anni fa alla Vuelta, prima di tagliare il traguardo rallentò per battere il cinque a tutti i tifosi assiepati sulle transenne. A fine tappa disse: «Il ciclismo è l’unico sport dove si tifa anche chi arriva ultimo e sapete perché? Molti dei tifosi pedalano e sanno cosa vuol dire far fatica. Il mio è un gesto per omaggiare chi rende grande questo sport e ci aiuta a sopportare la sofferenza». E, aggiungiamo, da oggi, anche per scacciare la paura.


La Colombia è lontana

Le gambe di Sergio Higuita sono cavalli pazzi, nervi scoperti. Quasi nessuno si è sorpreso vedendolo all'attacco ieri in una tappa, tra Carcassonne e Quillan, che del nervosismo ha fatto il piatto principale, nell'avvicinamento ai Pirenei di oggi. Non molto tempo fa, Jonathan Vaughters, dirigente della Education First ha raccontato a Cyclingtips che in Higuita c'è un qualcosa di irrefrenabile. «Nelle corse in Cina non ci sono grossi strappi, anzi spesso sono dei tracciati piatti. Lui, però, partiva ad ogni cavalcavia. Faceva quasi sorridere perché vedevi questo scalatore minuto fare azioni impensabili su terreni improbabili».
Medellín è sempre stata troppo lontana per un ragazzo che voleva fare il mestiere del ciclista. Troppo lontana per conoscere l'Europa e anche per farsi conoscere. Non è un caso se Rigoberto Urán, quando gli chiesero un parere su questo ragazzino, disse: «Non l'ho mai sentito nominare. Non so chi sia». Per chi viene da quella terra, la bicicletta, all'inizio, può essere un'idea, forse un mezzo di spostamento. Higuita probabilmente non poteva neppure immaginare che, per fare il ciclista, avrebbe dovuto misurare i millimetri della sella o del manubrio.

Il suo era istinto puro. Quando disputò la sua prima gara in Europa arrivò con più di venti minuti di ritardo dal vincitore. Non un esordio facile, insomma. Lui non ci pensò molto. «Volevo fare il ciclista, ma volere non basta. Devi combattere per quello che vuoi». Tra l'altro, quella volontà Higuita la maturò per puro caso, dopo che un insegnante lo iscrisse a una gara del paese e da lì, quasi per evitargli altre strade, qualcuno gli consigliò di andare al velodromo per incontrare Efraín Domínguez. In fondo, è grazie a lui se Higuita è il ciclista che è oggi, se attacca, un po’ alla maniera dei barodeur, un po’ a quella degli scalatori, per non lasciare che la corsa passi nella noia. Perché Higuita attacca anche quando potrebbe aspettare, quando forse gli converrebbe. Soprattutto è grazie a Domínguez se Higuita non ha paura delle discese e scende che è un piacere, dote rara per i colombiani.

Solido, sicuro, convinto di ogni decisione. Con lui le apparenze ingannano. Ne sono testimoni i compagni che lo hanno accolto all'arrivo in Europa. Alla prima riunione, arrivó con vecchie scarpe al limite dell’inutilizzabilità e con vestiti non proprio da ciclista. Qualcuno chiese. Higuita, consapevole del materiale di pregio che avrebbe trovato in Europa, aveva lasciato le cose più belle che aveva ai ragazzi di Domínguez. Sembra che quella non sia stata l’unica volta, sembra che Sergio Higuita continui a mandare del materiale a quei ragazzi. Perché la Colombia è lontana, ma scordarsela è impossibile.