Dal Lago di Como alla Via della Seta in bicicletta

Dario Piasini ricorda bene il giorno in cui sorprese suo padre ad osservarlo di nascosto mentre giocava a calcio. «Sono nato nel 1950 e in quegli anni, subito dopo la guerra, lo sport non aveva lo spazio che ha oggi. Mio padre temeva portassi via del tempo allo studio o al lavoro così restava indifferente, però lo vedevo che di nascosto veniva alle partite. Credo che, in fondo, fosse felice». Il giorno in cui molti anni dopo gli hanno proposto di andare da Como a Pechino in bicicletta ha accettato senza pensarci troppo perché con lo sport è sempre stato in debito. «Non avevo più la potenza dei giovani, ma la voglia di conoscere e di mettermi alla prova era la stessa. L'età è spesso un ostacolo mentale».
È il 2005: 14000 chilometri, dal lago alla Via della Seta, quindici ciclisti e tre furgoni. «Se foravamo cambiavamo la ruota, non avevamo nemmeno la camera d'aria. Siamo partiti il 25 aprile, ci sono voluti quattro mesi». Ogni giorno una tappa, pochi giorni di riposo e un traguardo fisso. «Non ho mai avuto dubbi. Chi ha l'opportunità di viaggiare in questo modo è un privilegiato. Non è stato tutto facile: nel deserto non c'erano telefoni, mezzi di comunicazione, bastava una peritonite per lasciarci la pelle». Un medico li avverte: «Dal punto di vista ciclistico non avrete problemi, a livello psicologico invece sarete logorati, la tensione e il nervosismo vi porteranno a litigare per sciocchezze». Piasini queste discussioni le ricorda, come ricorda le lezioni di storia e geografia del professor Corbellini e le confessioni di quelle sere.
«Ci siamo detti cose che non avremmo detto a nessuno: ci liberavamo delle tensioni e delle preoccupazioni di casa, del lavoro. La fatica ti porta a capire». Si scordano facili pregiudizi: a Teheran inizialmente si fanno foto di nascosto, temendo il giudizio della popolazione, poi si scopre che proprio gli abitanti non vedono l'ora di farsi fotografare con questi avventurieri. «Se viaggi per sport, senza mettere in ballo idee politiche o religiose, troverai persone pronte ad accoglierti e aiutarti ovunque» chiosa Piasini.
Dalla Costa Dalmata a Samarcanda, al Kirghizistan e alla sua capitale che ricorda la Valtellina, dalla foto sul confine con i militari cinesi e le guide kazake, alle oasi verdi e al Fiume Giallo, a monasteri e Buddha dormienti, sino all'ingresso a Pechino, scortati dalla polizia. «Ho mangiato scorpioni e bacarozzi fritti e non erano neanche male. Solo ogni tanto ci concedevamo la pasta con la bottarga, visto che un ragazzo sardo aveva messo nel camion quattro chili di bottarga fresca alla partenza».
All'arrivo si vuole tornare ma dispiace perché quel mondo parallelo si sta esaurendo e nella vita di ogni giorno certe sensazioni non si ritrovano più. «Se chiudo gli occhi, rivedo tutto. Capita, ma è ancora presto. Sento di avere la forza per altre avventure. Verrà il giorno in cui dedicarsi al ricordo, ora voglio vivere».


Di ritorni e multidisciplinarità

Non saranno, forse, le due gare più importanti del mondo, nemmeno l'acme della loro carriera, ma vincere ieri è stato importante. Un ritorno in piena regola e nello stesso giorno, a distanza di poche ore, ma che diciamo, di pochissimi minuti e nemmeno troppi chilometri.
Sulle strade di casa sua, in Danimarca, vince l'ex campione del mondo Mads Pedersen, che sostenere arrivi da un momento difficile è un eufemismo, come racconta a fine corsa lui stesso e senza troppi giri di parole: «Al Tour ho sofferto e lottato per raggiungere un buon livello: ma non è un segreto che lì sia stata tutta una merda».
Volata che pareva infinita, gestita splendidamente come ogni tanto gli capita, in quelle giornate di grazia che a volte lo prendono e lo fanno sembrare imbattibile: sconfitti Groenewegen e Nizzolo, di certo non due che si avventuravano lì davanti per caso. Ora che il suo nome torna in voga, sarà un avversario per tutti in ottica Europeo.
In Polonia, invece, passano pochi minuti quando a vincere è Fernando Gaviria. Se Pedersen, in una stagione difficile il segno lo aveva comunque lasciato (Kuurne-Brussels-Kuurne a inizio stagione), il velocista colombiano non vinceva da quasi un anno esatto, due se parliamo di World Tour.
Per farlo si è dovuto inventare un guizzo da cavalletta per mettere il proprio copertoncino davanti a quello di Kooij. Giovanissimo (2001) che fino a un paio di anni fa faceva speed skating a buon livello e che tutt'ora d'inverno continua a praticarlo. Esaltazione della multidisciplinarità.