La sfida a Pogačar viene dal Nord

Il ciclismo del nord Europa vive, senza ombra di dubbio, il momento migliore della propria storia. A vittorie sporadiche e a volte isolate, nell'arco dei decenni, fa seguito un vivaio sempre più prolifico e di qualità da cui attingere.
Chiariamo: ciclismo del nord non con riferimento a Belgio e Olanda, ma ancora più su, Danimarca e Norvegia per la precisione.
I risultati dei danesi, recenti, sono sotto gli occhi di tutti, dal Mondiale di Pedersen all'esplosione di Vingegaard, passando per le monumento di Fuglsang e il Fiandre di Asgreen fino alla definitiva maturazione di corridori come Cort Nielsen, di recente vincitore di una tappa alla Vuelta, e diversi risultati di peso qua e là. E tanto altro arriverà grazie a interessanti giovani in rampa di lancio.
In una direzione simile (verso il vertice) si muove la Norvegia, che ai soliti noti (vedi Kristoff, e dove Hushovd e Arvesen sono stati un po' pionieri di questa nuova generazione, tanto che Arvesen ora è direttore sportivo della squadra norvegese UNO X-Pro Cycling Team, compagine emergente del ciclismo mondiale) affianca alcuni fra i maggiori talenti da seguire a livello assoluto: Foss, Leknessund e da quest'anno anche Tobias Halland Johannessen.
Il giovane "norge" Tobias, grazie anche all'aiuto del gemello Anders, è stato l'autentico dominatore del Tour de l'Avenir, concluso, pochi minuti fa, con due vittorie di tappa (che per la Norvegia diventano cinque su dieci se contiamo quella di Anders e le due di Wærenskjold) e la vittoria nella classifica generale, conquistata davanti a due corridori già presenti nel mondo del professionismo: lo spagnolo Carlos Rodriguez (INEOS Grenadiers) e l'italiano Filippo Zana (Bardiani). Rodriguez che oggi sfiora un'impresa clamorosa, rimontando 2'11 dei 2'18'' che aveva di distacco, con una fuga solitaria di quasi 50 km.
Tobias Halland Johannessen (per farla più breve: THJ), corridore esplosivo più che scalatore puro, è alla sua prima vera e propria stagione su strada dove si è diviso tra squadra Continental e Professional; arriva da mountain bike e ciclocross, vive vicino a Oslo e in alta montagna non si è mai praticamente testato: alla conquista del Tour de l'Avenir mette vicino anche il podio al Giro Under 23 alle spalle di quel fenomeno che porta il nome di Ayuso.
Nelle scorse settimane, THJ ha prolungato di tre anni il contratto con la Uno X Pro Cycling Team, la squadra, si diceva, rivelazione, della stagione, che a suon di investimenti vuole crescere a dismisura facendosi portavoce del movimento nordico.
In pochi anni, UNO X ha creato due squadre - prima la Continental, poi quella Professional - e ha lanciato diversi corridori sia norvegesi che danesi (i già citati Foss e Leknessund, ma anche Hindsgaul, il campione europeo U23 Hvideberg, il vice campione olimpico su pista Larsen, e poi Andersen, Wærenskjold, eccetera), si è messa in grande evidenza in diverse corse in Belgio, dal 2022 avrà la sua squadra femminile (già chiesta la licenza per far parte del Women's World Tour) e dal 2023 l'idea è chiara: Uno X vorrà entrare nel mondo del WT.
Uno X che lo scorso anno ha tesserato simbolicamente Johannes Klæbo, il fondista più forte del mondo.
Nella giornata di ieri, poi, al termine della fatica fatta sulle Alpi francesi dai ragazzi del Tour de l'Avenir, il CEO di Uno X, Vegar Kulset, tra il serio e il faceto (ma nemmeno troppo) scriveva così su Twitter: «Uno X Mobility (progetto fondato proprio da Kulset e improntato a diverse soluzioni per la mobilità sostenibile N.d.A.) e Uno X Pro Cycling Team invitano LEGO™ a unirsi con i propri mattoncini all'avventura norvegese-danese. Vingegaard e i fratelli Halland Johannessen nella stessa squadra potrebbero diventare dei seri avversari per Pogačar in un paio di anni».
Il vento del nord spira e sembra davvero fare sul serio.


Quanto bene vogliamo a Damiano caruso?

Il cuore dell’Andalusia è terra secca, fatta di salite aspre, poca vegetazione, sole a picco sulla testa. E a fine agosto fa un caldo terribile. È terreno per imboscate e alla partenza da Puerto Lumbreras l’atmosfera è di quelle tese. Almeno tre della banda Ineos pronti ad attaccare Roglic. Manca solo la musichetta da western. Luogo designato per lo scontro: l’Alto de Velefique, salita durissima che conduce al traguardo.
Ma c’è qualcuno che se ne frega dei progetti degli altri, viene da Ragusa e si chiama Damiano Caruso. Da quelle parti non è meno secco e aspro l'ambiente d'estate. Parte con un gruppetto, con Bardet, Majka e Amezqueta, tra gli altri, sulle prime rampe del secondo colle, l’Alto Collado Venta Luisa. Poi in un tratto di falsopiano a metà salita rompe gli indugi e quando mancano 71 km all’arrivo, se ne va #alvento, da solo. Pedala bene Damiano, sembra quello del Giro. Regolare, ritmo altissimo. Passa per primo sul Venta Luisa, inizia la discesa e non molla. Il suo vantaggio sul gruppo della Roja supera i 5 minuti. La Jumbo non spinge troppo e Damiano ne approfitta.

Il caldo non da tregua. Quando attacca la rampa dell’Alto de le Velefique pedala bene, rilancia la sua Merida, maglietta aperta e bocca spalancata. Damiano è a tutta. Fa caldissimo, è secco tutto attorno. Probabilmente Damiano si sente come in Sicilia, quando pedalava da ragazzo. Lo aspettano 11 km e mezzo da fare fuori soglia. E mentre lui conta le gocce di sudore che cadono sull'asflato, ecco iniziare le sparatorie dietro di lui: Adam Yates prima, risponde Roglic, rientra Bernal. Ci riprova Carapaz, ma niente da fare. Ancora un allungo di Yates. Cedono tutti, cede anche Bernal. Se ne vanno Mas e Roglic, a tutta. Una serie di attacchi feroci. Ma Damiano è là davanti, sempre a maglietta aperta, sempre a bocca spalancata. E pedala sempre bene. E fa sempre un caldo maledetto.

Nessuno sconto per lui, alle sue spalle se le danno di santa ragione. Ma Damiano vede l’ultimo chilometro e a quel punto non molla più. Fa in tempo a chiudersi la maglietta, ad esultare come avesse segnato un goal in finale, a tagliare il traguardo con più di un minuto su Primoz Roglic ed Eric Mas.

Una giornata di ciclismo eroico, un Damiano Caruso d’annata, che sembra migliorare sempre di più. Maglia a pois di miglior scalatore da portare con orgoglio.
«Sono andato via da solo a 71 km dall'arrivo perché ho sentito che la Ineos voleva chiudere il buco e allora mi sono sentito di provarci da solo» ha detto subito dopo la gara.

Quanto ti vogliamo bene, Damiano!


Alta fedeltà

Si scrive Salvatore Puccio si legge alta fedeltà. Come uno strumento fondamentale che ti serve e trovi nella cassetta degli attrezzi, oppure uno di quegli elettrodomestici che in cucina fanno tutto, ma proprio tutto.
Si scrive Puccio, si pensa all'usato sicuro; se guardi quando è arrivato al team Sky, era l'estate del 2011, ti accorgi che solo un certo Geraint Thomas ha militato più di lui nel team britannico: G è infatti l'unico ancora attivo dall'anno della fondazione (ci sarebbe Swift, il quale però, ha passato qualche stagione fuori da casa) della squadra.

Se pensi a Puccio, e questo sarà lo stesso ragionamento che faranno loro, i suoi tecnici, pensi a quel ragazzone di ormai 32 anni che in carriera non ha mai vinto, ma è il combustibile per fare andare avanti la macchina. È il collante che tiene uniti i pezzi, il "penso quindi sono" fondamentale per costruire una squadra, soprattutto quando poi davanti - o a ruota - ha corridori che altrove potrebbero essere capitani ovunque: Bernal, Adam Yates, Carapaz, Sivakov giusto per fare quattro nomi presenti alla Vuelta e dove gli altri sono, oltre a lui, Narvaez, Pidcock e van Baarle.

Se pensi a Puccio pensi a ieri alla Vuelta quando lo vedevi tirare nel tentativo di riavvicinare il gruppo a Caruso in fuga, e allora per una volta dicevi, "dai Puccio, lascia stare, vai piano, lascia Caruso davanti con quel bel vantaggio".

Scrivi Puccio e pensi al gregario: funzione basilare per ogni azione da mettere in pratica in uno sport che premia l'individualità, ma che dietro ha la squadra, ma soprattutto corridori come lui.
E quando guardi nel suo palmarès ricordi quella volta che vinse un Giro delle Fiandre, no, non stiamo dando i numeri, era un Fiandre per Under 23, Beloften oppre Espoirs, lo chiamano. Quel giorno Puccio vestiva la maglia della nazionale e quinto, sempre con la maglia azzurra, arrivò Trentin: le loro carriere sono state poi diametralmente opposte.

E quando pensi a Puccio, pensi a un ragazzo che a 12 anni si trasferiva dalla Sicilia all'Umbria perché suo padre lavorava da tanti anni da quelle parti come camionista; a casa a Menfi rientrava così poco che la scelta, per tutti, di emigrare fu naturale. Vedi un ragazzo umile che quando si racconta ti rimanda indietro semplicità. «Quante gare avrei potuto vincere? - raccontava tempo fa a Bicisport - Non molte. E allora mi sono ritagliato il ruolo di gregario, la squadra lo apprezza e mi premia, economicamente e professionalmente».

Zero vittorie da professionista, ma 27 classiche monumento disputate (pure con un 12° posto alla Sanremo nel 2014), 15 Grandi Giri, quest'anno di fianco a Bernal al Giro, vinto e alla Vuelta, in questi giorni. Una maglia rosa vestita per un giorno sarà il punto più alto della sua carriera, ma di fianco a lui quante soddisfazioni per i capitani. A lui questo importa: perché essere Puccio significa essere fedeli. A ogni costo.