Il viaggio di Luis Ángel

Luis Ángel Maté ci scrive intorno a mezzogiorno: «Sono a casa con il bambino e sta dormendo. Vi scrivo più tardi, così non lo svegliamo». Passano pochi minuti e a squillare è il nostro telefono.
Luis sa bene che vogliamo parlare de “La Vuelta de la Vuelta" ovvero del suo ritorno in Andalusia in bicicletta da Santiago de Compostela, luogo di conclusione della Vuelta e meta di pellegrinaggio per molte famiglie. Ci sono voluti sei giorni e poco più di mille chilometri. Nel frattempo, Luis è tornato a respirare.
«Eravamo alla Parigi-Nizza, dopo una tappa stressante, al traguardo c'era la solita folle corsa alle borracce, ai massaggiatori e ai pullman. Le nostre corse non finiscono al traguardo, bisogna saperlo. Sfrecciai accanto a Michele Scarponi e lui mi richiamò: “Luis, fermati”. Michele mi fissò e prese un forte respiro invitandomi a fare lo stesso. Scoppiammo a ridere, però, come spesso accadeva con lui, dietro la battuta c'era una profonda serietà. Mi invitò a prendermi il tempo di respirare, almeno all'arrivo. Non siamo abituati a farlo». Da quel giorno, Luis ci ha pensato spesso e, soprattutto, ci ha pensato quando ha immaginato questo ritorno in bicicletta da Santiago de Compostela.
«Se guardassi solo al mio lavoro, non riconoscerei più la bicicletta, non saprei più perché l'ho scelta e perché, ancora oggi, quando qualcuno mi dice che la bicicletta è il mio lavoro rispondo che è molto di più». Per un professionista il ciclismo diventa stress, watt da sviluppare, allenamenti, grammi da perdere, pasti contati e ansia di controllare sulla bilancia che il peso non sia aumentato. Luis Ángel non può adeguarsi a questa idea, per questo ha progettato questo viaggio. «Voglio raccontare alle persone una storia diversa. Voglio dire che la bicicletta è il primo mezzo di emancipazione di un bambino, che in bicicletta hai il diritto di avere tempo per guardarti attorno e vedere ciò che ti circonda, che è un modo di vivere, incontrare persone e comunicare. Tutte le informazioni e l'attenzione alla performance di cui il ciclismo si è circondato hanno aiutato a formare altri campioni, ma siamo certi che non ci si perda più di quanto si guadagni? Noi non ci rendiamo nemmeno conto di dove siamo».
Maté ne è certo. Ha attraversato tutta la Spagna e sa descriverne i minimi dettagli: dal verde e dall'umidità della Galizia e del nord del Portogallo, al clima mediterraneo del sud della Spagna. Il percorso, Luis l'ha studiato nei dettagli, prima di partire: «Normalmente quando viaggiamo scegliamo il percorso più comodo o più veloce per andare da un punto all'altro. In questo modo mi sono allontanato dalle strade conosciute e ho percorso stradine nascoste, spesso deserte perché nemmeno la gente del posto, presa dalla quotidianità, sa che esistono. Ci sono monumenti e viste rare».
E poi la possibilità di fermarsi a un bar e raccontare al barista da dove si viene e dove si sta andando. Di pranzare e cenare senza fretta o di visitare un piccolo negozio locale. Di vedere ragazzi e ragazze che in Portogallo cercano strade nuove da percorrere. Qualche volta di chiacchierare con un contadino. «Ho capito che è proprio vero: tutto quello che ho, me lo ha dato la bicicletta. Non il ciclismo, non il mio lavoro, la bicicletta pura e semplice attraverso cui sto imparando a conoscere il mondo e anche me stesso».
Luis ha viaggiato con Antonio Ortiz, ex professionista di Mountain Bike e suo amico da tempo. «Quando fatichi senti la necessità di avere vicino qualcuno che ti conosca e ti capisca. Qualcuno con cui parlare di tutto o di niente alla sera». Magari insieme a qualcuno che hai appena conosciuto perché la bicicletta è anche un mezzo di socializzazione. «Non importa che tu parta da solo o con amici. Lungo la strada conoscerai persone e storie». E, ci viene da dire, la vera ricchezza sta tutta qui.


A piccoli passi: intervista a Filippo Zana

Mancavano pochi chilometri all'arrivo della prova in linea per Under 23 dell'Europeo di Trento, quando Filippo Zana rompeva gli indugi. In Piazza del Duomo la gente si affollava davanti al mega schermo e si sentiva il boato della folla: tutto questo per aver visto le maglia azzurre davanti.

Il suo scatto faceva saltare la corsa come quando lo spumante cerca di uscire dalla bottiglia. Gli spagnoli, fin lì padroni del gruppo come cattivoni di un b-movie, si facevano da parte. Davanti restavano in sette.

«Baroncini e io stavamo bene» mi racconta Zana giorni dopo, soddisfatto per come è andata la corsa, nonostante il piazzamento finale: Baroncini 2° e Zana 6°. «Ho fatto il forcing: meno corridori fossimo rimasti lì davanti e più possibilità di medaglia avremmo avuto. Io non sono molto veloce, sono un passista scalatore e amo fare la differenza su salite di massimo 6/7 chilometri. Ho provato di nuovo la sortita arrivando in città. Alla fine non è andata male, una medaglia che ci dà fiducia per il futuro».
A sorprendere tutti Thibau Nys, che fa base nel ciclocross, ma mostra da tempo eccellenti qualità su strada e allo sprint. «Fare ciclocross ti dà qualcosa in più - afferma sempre Zana – l'ho praticato da ragazzo e quest'inverno tornerò anche io a sporcarmi nel fango. Parteciperò a qualche corsa per fare fatica e prendere freddo; per affinare il motore quell'ora che fai fuori soglia è tutto un guadagno quando riprenderai l'attività su strada».

Arriva dalla provincia di Vicenza, Zana, fa parte di quella classe '99 che tanto pare possa dare al ciclismo italiano. I suoi genitori hanno una birreria e lui ama i cavalli. Un doppio binomio: birra-fatica, cavalli-ciclismo che pare scritto apposta. «In realtà io sono la pecora nera degli Zana: da noi ha sempre dominato il calcio. Però i cavalli sono stati una parte della nostra famiglia. Me ne sono comprato uno qualche anno fa con i risparmi, le paghette, i premi vinti da ragazzo. Si chiama Vior; l'ho preso che si chiamava così e gli ho lasciato il nome: dicono che ai cavalli non vada cambiato». D'inverno, racconta, va nei boschi a fare legna per mantenere la forma fisica e Vior è sempre con lui.

Se scrivesse un programma politico, il suo impegno avrebbe un motto: "A piccoli passi". Dice di aver scelto di restare un altro anno in Bardiani-CSF-Faizanè perché è la realtà perfetta per uno come lui, perché se avrà la possibilità di passare nel World Tour vorrà essere pronto al 101% e qui trova lo spazio giusto per crescere con calma. «Se fai il passo più lungo della gamba rischi di bruciarti. Guarda tutti quei ragazzi che passano da junior a professionisti. Te lo puoi permettere se sei Evenepoel, ma se non sei un fenomeno cosa fai? Sbagli un anno e rimbalzi indietro e magari nemmeno una Professional ti vuole più».

Sesto all'Europeo, terzo all'Avenir, vincitore della classifica finale del Sazka Tour in Repubblica Ceca, risultati tutti ottenuti con la nazionale Under 23: la maglia azzurra lo gratifica, e lui vuole portarla in alto. «A inizio stagione con Amadori (il CT della nazionale Under 23, N.d.A.) ci siamo parlati e abbiamo programmato la stagione così. Che dite, secondo voi ho ripagato la fiducia?».
Vorrebbe far scorrere tutto il possibile sotto le sue ruote: ama la Roubaix, sogna la classifica in un Grande Giro («devo migliorare a cronometro e sulle salite lunghe, ma mi sono accorto di avere buone doti di recupero»), ma quest'anno l'infatuazione più grande è arrivata alla Strade Bianche. «Sullo sterrato e sugli strappi mi sono divertito un mondo. Certo che van der Poel ha fatto quello che voleva».

Racconta di non avere un proprio punto di riferimento in gruppo, ma di captare segreti da ognuno: «Ma soprattutto cerco gli errori per non commetterne in futuro io stesso». Si allena guardando watt e dati, ma in gara si lascia trasportare dalle sensazioni. Se pensa al ciclismo pensa al sacrificio, agli allenamenti, al “non si molla mai un metro”: freddo, pioggia o caldo che sia. Ma soprattutto, sostiene, il massimo è la soddisfazione che ti dà una vittoria. E prima o poi, a piccoli passi, arriverà anche quella importante.

Foto: Bettini


"Finalmente ho vinto"

Seduto sulla poltroncina - in (finta?) pelle grigia - che spetta al leader della cronometro dello Skoda Tour Luxembourg, Cattaneo ha visto passare avversari su avversari: gli finivano regolarmente dietro e nemmeno di poco.

Ha pennellato e spinto. Ha tagliato il traguardo ed era primo, ha battuto il danese Skjelmose, vent'anni, una carriera davanti che gli sorriderà dopo un passato che lo ha visto fare tempi à la Remco e poi l'ombra di una squalifica per doping.

Ma Cattaneo, dicevamo. Si è seduto su quella specie di trono di plastica. Ha visto scorrere i tempi: nessuno gli si avvicinava nemmeno lontanamente, e quando è stato il turno del compagno di squadra Almeida, quello che fino a ieri pomeriggio ha difeso come fosse una porta da tenere inviolata, ha tremato.

Abbiamo, poco sportivamente, ma ogni tanto capita, sperato che Almeida tirasse con meno precisione una curva, che rilanciasse con meno forza, perché i due erano vicinissimi. Quando ha chiuso la sua prova, il verdetto: due secondi di ritardo per il portoghese. O ribaltando: due secondi di vantaggio per l'italiano. Quanto bastava per vedere Cattaneo incredulo, felice e poi commosso. «Finalmente ho vinto». Le sue prime parole.

Cattaneo corre tra i professionisti ormai da quasi dieci anni. Prima promessa, poi dimenticato. Con Savio si è rilanciato e ora, in maglia Quick Step, vive una seconda parte di carriera che dà il giusto tributo al suo talento.

A Trento lui c'era a farsi in quattro per la Nazionale; quando è con la squadra di club l'atteggiamento non cambia: lo chiami e lui interpreta al meglio il suo compito.
Al Tour ha sfiorato la vittoria che oggi è arrivata. Ieri per Modolo erano tre anni e mezzo di digiuno, oggi per Cattaneo poco più di due. Ha vinto poco (tre volte) e proprio per questo ci pareva giusto omaggiarlo.

Foto: Bettini