Filippo, Campione del Mondo

Non crediamo che nel nome di una persona ci sia il destino, o almeno non fino al punto da determinarne vittorie o sconfitte in bicicletta, ma se ti chiami Filippo, in questi giorni, pare che nelle Fiandre tu possa andare discretamente bene. Se Filippo, inteso come Ganna, lo conosciamo bene, oggi è il caso di scoprire un po' chi è Baroncini, che per come è scattato a meno cinque dall'arrivo sarebbe subito da rubare l'idea già usata (e abusata) e scrivere il suo nome tutto in maiuscolo e tutto attaccato: FILIPPOBARONCINI.
Quando lo abbiamo incontrato qualche settimana fa a Trento ce lo ha detto: si sente bene, forte e motivato, ma soprattutto ambizioso. Che quando passerà professionista (Trek-Segafredo) vorrà da subito giocarsi le sue carte.

Ma oggi il suo cammino tra gli Under 23 era da portare a compimento. Esploso sul finire della scorsa stagione, l'ascesa di Baroncini è stata fulminea e ha visto l'apice della sua sin qui brevissima carriera su quella rampetta, quando al traguardo mancavano meno di una decina di minuti.

E lui scattava, «Dentro di me dicevo: vai, vai, vai» - ha raccontato a fine corsa. Con i suoi watt avrebbero acceso probabilmente tutte le luci del viale che lo conduceva verso l'arrivo, mentre dietro Zana, Colnaghi, Coati e Gazzoli (e Frigo nelle prime fasi a lavorare per tutti) lo coprivano, perfettamente, manco fosse una di quelle giornate fredde da passare sul divano a guardare la tv. A guardare ciclismo: gioco che regala oggi la maglia iridata a un solo corridore, ma quanto c'è di squadra dietro ogni successo.

Oggi Filippo Baroncini (che è pure caduto a metà corsa) ci ha fatto saltare da quel divano, ci ha fatto vedere cos'è il talento, la crescita graduale, la potenza del finisseur, ci ha fatto vedere cosa vuol dire finalizzare il lavoro di squadra - Colnaghi all'attacco e gli altri a lavorare per ricucire, Zana stopper come uno di quei cagnacci che ti morde le caviglie - lui che è capace di andare forte dappertutto, ma che non sembra di quelli buoni ovunque e basta, ma di quelli davvero competitivi su ogni terreno: salita, cronometro, finali vallonati e incasinati come quello di oggi.
E a guardarlo negli occhi a fine gara o a rivedere l'azione che lo ha portato a vincere, sembra impossibile che per lui finisca qui. La rampa sopra Leuven lo ha lanciato, ma non sappiamo bene ancora dove potrà arrivare.

Foto: Bettini


UCI e Gravel, ne parliamo con Enough

L'annuncio UCI, riguardante la creazione di una nuova serie gravel e di un campionato mondiale apposito, ha aperto un interessante dibattito nell'ambiente. Abbiamo scambiato qualche impressione con Federico Damiani, una delle anime del team Enough, che in Italia è velocemente diventato un riferimento nel settore: «Sono tematiche complesse in cui la lucidità di analisi è fondamentale. Prima di farsi un'idea specifica di ciò che potrebbe accadere, bisognerebbe conoscere in maniera accurata quello che l'UCI vorrà fare e a oggi questo non lo sa nessuno. La speranza è che venga salvaguardato il clima di condivisione e festa che, soprattutto qui in Europa, è alla base del mondo gravel. Nessuno, anche ai vertici, però ha detto che questo non avverrà». Damiani pone l'accento su un tema importante: si parla spesso di spirito e disciplina gravel, ma il termine gravel racchiude un insieme di cose talmente diverse da non potersi semplificare così. «È una disciplina così vasta da non essere una disciplina: credo che se questo avverrà, sarà sul modello americano, gare più veloci su fondo sterrato. In Europa, invece, abbiamo gare più lunghe e basate anche molto sulla fruizione del paesaggio, che si avvicinano di più al mondo ultracycling. Basta fare un confronto fra Unbound Gravel e Badlands».

Le gare lunghe, specifica Damiani, sono, in fondo, un modo diverso di viaggiare: «Di solito nel viaggio scegli tu dove andare, come e quando, riservandoti anche di rimandare. In queste gare invece è il mondo a “capitarti” addosso e tu lo vivi in quel momento».

Un indizio che propende per il modello americano è il fatto che, a quanto pare, sarà prevista una vera e propria Gravel Fondo Series per le qualificazioni agli eventi più importanti. «Qui i punti sono due. Il primo è capire in che relazione saranno questi eventi con il calendario gravel che conosciamo. Di certo, se i nomi maggiormente rappresentativi non dovessero partecipare a queste gare, il potenziale Campione del Mondo in carica sarà parzialmente delegittimato. Il secondo, invece, concerne il fatto che chi partecipa a questi eventi anche per il paesaggio e i luoghi che vede, e sono moltissimi, farà più fatica a dedicare un intero fine settimana a una gara che in realtà da questo punto di vista non offre nulla». A questo proposito gli fa eco Mattia De Marchi, recente vincitore di Badlands: «Dovremo essere noi bravi a raccontare alle persone che, qualunque sia la decisione presa, nella visione della bicicletta e del ciclismo non cambierà nulla: già adesso ci sono persone che hanno una maggiore propensione agonistica e altre che invece vogliono solo godersi il momento».

Già, perché tanto De Marchi quanto Damiani sono concordi sul dire che nessuna scelta UCI potrà mai cambiare ciò che il gravel significa per ciascuno. «Crediamo sia sbagliato togliere l'aspetto di festa e scambio dalle gare gravel, però non bisogna nemmeno demonizzare la parte di agonismo che c'è. Quella c'è in tutte le circostanze della vita, non si può fingere di non vederla». Mattia De Marchi continua: «Mantenere le relazioni è molto semplice: basterebbe dormire tutti nello stesso villaggio e preservare i momenti di convivialità. Evitare che ad un certo punto ci sia un fuggi fuggi ognuno nella propria camera di albergo perché “si deve gareggiare”. Se lo si farà, questa scelta potrà anche avere buoni effetti». Il vincitore di Badlands si riferisce alla possibilità che più professionisti si avvicinino a questo mondo, soprattutto coloro che soffrono l'eccessiva competitività, le rinunce e le pressioni. «Saranno pochi, magari, ma di certo qualcuno ci sarà e questo sarà il modo per raccontare un ciclismo diverso, per far capire che può esserci». Del resto, come Federico Damiani spiega bene: «Il mondo gravel non è più un mondo di nicchia e ovviamente crescendo ha iniziato a suscitare interessi commerciali. Peter Stetina ha detto che si sarebbe dovuti per forza arrivare a questo punto. Non so se “per forza”, ma che ci si sarebbe arrivati era prevedibile».

Di fronte a ciò che accade, allora, la domanda migliore che ci si possa fare è come leggerlo per trasformarlo in una opportunità. «Se si avvicinassero sempre più media? Se anche la televisione provasse a raccontare una gara in Kenya, ad esempio? Forse non in diretta, ma in leggera differita. Un sacco di persone seguono i nostri tracciati sulle mappe interattive - continua De Marchi - proviamo a pensare a cosa potrebbe voler dire seguire le immagini televisive. Non tanto per la cronaca, per raccontare il prima e il dopo. Per raccontare gli ultimi ancora più dei primi: è in loro che le persone si immedesimano».

Il mondo cambia e Federico Damiani fa notare che ciò che avviene ora nel gravel è già avvenuto nella mountain bike senza tutte queste discussioni: «Non mi risulta che ci siano persone che si domandano se sia corretto oppure no disputare una gara di cross country. Il punto è sempre il come. Penso alle regole: è del tutto ovvio che delle regole servano, ovunque non solo nel gravel. Ad oggi si rispettano anche tante regole non scritte, per esempio in alcuni eventi, fermarsi tutti assieme ai ristori e poi ripartire. Se ci saranno tante regole scritte, dubito che qualcuno rispetterà quelle non scritte. Anche perché il livello cresce sempre».
Detto che in ogni scelta è lecito seguire anche una logica commerciale, l'importante è che non ci si limiti esclusivamente a quella. «Si può parlare con i brand, ma è necessario parlare anche con gli atleti o gli organizzatori degli eventi e questo, purtroppo, al momento non è stato fatto. Speriamo che l’UCI lo faccia presto» si augurano Federico e Mattia.

Il giudizio è, quindi, sospeso almeno fino a quando non ne sapremo di più.