«Ai miei tempi zera così», ovvero la Serenissima Gravel
A Jesolo, Filippo Fiorelli scherza, salutandoci: «Non mi preoccupa molto la gara. Più che altro penso a come tornare a casa se foro lontano dal tratto in cui c'è il nostro meccanico. Mi tocca andare a piedi, sennò mi lasciano qui». Passano poche ore e radiocorsa annuncia: «Segnalato atleta Cofidis in località Portegrandi. In attesa di essere recuperato da un mezzo, ha avvisato i carabinieri». Insomma, pensiamo, l'indole scherzosa di Fiorelli non c'era andata molto lontano. La realtà è che alla Serenissima Gravel, prima gara gravel italiana per professionisti del World Tour, tra Jesolo e Piazzola sul Brenta, non c'è assistenza al seguito del gruppo: le stradine strette dello sterrato veneto non lo permetterebbero neppure. La soluzione sono tubeless da 40, e giù di lattice per chiudere qualche piccolo foro, ci spiega Andrea Fedi, meccanico della Bardiani CSF Faizanè. Anche il cambio è meccanico per non rischiare malfunzionamenti causati dalle sollecitazioni del terreno. Anzi dalla terra stessa.
È bugiarda qui la terra. Al passaggio del gruppo in questi rivoli vedi alzarsi una nuvola bianca e cerchi di coprirti gli occhi. Come la nuvola si abbassa e li scopri, ti accorgi che la terra è ancora lì, si appoggia sulla pelle e brucia ai lati degli occhi.
«Ai miei tempi zera così» dice un anziano signore rivolgendosi all'amico.
«Perché te si vecio» lo prende in giro il coetaneo.
Chissà cosa avrebbe detto vedendo Jan Petelin che si portava a spasso un tubolare sulla spalla alla partenza. Le persone sono curiose, perché è la prima volta ma non solo.
«È vero che le strade sono di tutti ma è anche vero che non tutti riescono a scalare il Mortirolo o lo Stelvio. Queste stradine sterrate può farle chiunque» ci racconta un tifoso. E giura di aver visto qui qualche avventuriero in Graziella. Gli crediamo? Non è questo a fare la differenza. La differenza la fa la voglia che ha la gente di sentirsi vicina ai professionisti nel modo di vivere e di pedalare.
«Poi in queste strade ti senti sicuro: fori, al massimo rompi la bicicletta ma non ci sono auto o altri pericoli. Le sbucciature guariscono» aggiunge Fedi.
Poi è questione di prospettiva. Chi diceva che la corsa sarebbe stata tranquilla fino agli ultimi giri, perché, come in tutte le prime volte, si va alla cieca e non si rischia troppo, avrebbe dovuto parlare con Alexey Lutsenko che, mentre si passa da Treviso, parte con la lancia in resta. In fondo, con la terra funziona come con qualunque altra cosa: devi conoscerla per affrontarla con sicurezza e non sbagliare troppo. Per questo non sorprende che i primi a inseguire siano i fratelli Braidot, Dorigoni e Cribario, loro di polvere se ne intendono. Ma puoi essere anche Taco van der Hoorn e ti diverti lo stesso, perché «Anche i professionisti vogliono divertirsi» come ci hanno detto. «Passavo gran parte del tempo sul letto, con gli occhi chiusi, al buio. Ero senza contratto» aveva raccontato Taco dopo la vittoria nella terza tappa del Giro d'Italia quest'anno. Pensate quanta voglia possa avere lui di divertirsi.
«Pensa se un giorno a Piazzola arriva van der Poel?» dice una voce vicino a Palazzo Contarini, imponente, maestoso, quasi un contrasto nel giorno del terriccio, del gravel, della bicicletta che torna all'essenziale, ai tempi dei nonni e dei bisnonni, coloro che poi spiegavano quelle giornate ai nipoti e si commuovevano all'idea di aver visto Fausto Coppi. Chissà, le prime volte sono belle anche per questo, perché puoi immaginare tutto quello che verrà. Hanno il fascino del foglio bianco, prima della scrittura del pezzo. Il fascino del sentiero gravel in cui il solco devi tracciarlo tu e sperare di non sbagliare. Alexey Lutsenko, Riccardo Minali e Nathan Haas dicono queste cose qui. Chi ha creduto di portare trentasette ciclisti fra le strade selvagge del Veneto dice queste cose qui. Persino quel ragazzo, che vorrebbe van der Poel a Piazzola, dice questo. Le prime volte conoscono l'illusione, magari, non la disillusione e, nella realtà quotidiana che di disillusioni vive, è un bene. Perché da queste esperienze nasce il futuro, come ci ricorda Lutsenko. Noi ascoltiamo: un giorno in gravel, in fondo, serve anche a ricordarsi questo.
La mia prima 5mila Marche
«Ciclismo». È la prima volta che rispondo così a un medico dello sport. Mi ha appena chiesto per quale sport sto facendo la visita medico-sportiva agonistica: evidentemente non ha notato il cappellino iridato con la scritta EDDY MERCKX che ho portato in testa fin dentro lo studio. Dopo avermi appiccicato elettrodi e fili su tutto il corpo, torace in particolare modo, inizia a farmi correre sul tapis roulant. Di recente ho letto che, agli albori della sua storia, il tapis roulant venne usato nelle prigioni come strumento di tortura, e avviso il dottore che per me sarà più o meno la stessa cosa. Da quando ho smesso col calcio e anche le partitelle tra amici si sono diradate, non corro sostanzialmente più. La mia unica attività sportiva è la bici.
Il dottore è soddisfatto del test, tutto in regola, idoneità conseguita. Salgo sulla city bike e torno a casa per la strada lunga: è poco che mi sono trasferito a Bologna e girare per una città ancora sconosciuta è un’esperienza unica. Passando su un cavalcavia, noto un murale firmato da un collettivo di donne peruviane. Che bello sarebbe, pedalare sulle Ande. È un breve tratto in salita, questo cavalcavia sui binari del treno, ma per superarlo un rider pieno di borse e zainetti deve spingere sui pedali con tutto se stesso. La salita non è sempre uguale per tutti.
L’idoneità agonistica è obbligatoria per la 5mile Marche: oltre 250 km sono uno sforzo enorme per amatori o dilettanti o cicloturisti. Oggi non solo faremo quella distanza, ma ci metteremo cinquemila metri di dislivello in mezzo: le salite hors categorie di Sassotetto e Monte San Vicino saranno le più dure. Se penso che partiremo a Porto Recanati, a due passi dal mare, e transiteremo ai 1.455 metri d’altitudine di una stazione sciistica, vado già in acido lattico. Dal buffet della fin troppo ospitale struttura in cui trascorro il week-end marchigiano, che culminerà domenica nella GF Nibali, ho sottratto un paio di vasetti di marmellata in più, qualche fetta biscottata, miele, succo di frutta. Non dovrebbe fare caldo, anzi, ma serviranno tantissimi zuccheri.
Spero non piova, non faccia brutto, non ci sia nebbia nemmeno lassù: vorrei riempirmi gli occhi col parco dei Monti Sibillini per alleviare la fatica. Sono pazzo? È la prima volta che attacco un qualsiasi numero alla bici e lo faccio per una gara di oltre duecentocinquanta chilometri. C’è quella telecronaca, «A molti corridori dopo duecentocinquanta chilometri si spegne la lampadina invece la sua luce irradia il circuito di Varese», che riascolto almeno una volta al mese perché è perfetta. Racconta un momento storico mentre accade e lo fa con grazia e precisione. Solo ieri notte - quando non si dorme, bisogna premere play sui video a cui si è più affezionati - ho realizzato che è la stessa distanza che mi toccherà oggi. Altro che lampadina, qua potrebbe saltare un intero impianto d’illuminazione.
Non devo dimenticare i tre punti di ristoro, Tolentino, Sassotetto e San Vicino. Non devo dimenticare di bere costantemente, anche a costo di fermarmi e ricaricare le borracce tramite fontanelle a bordo strada. Non devo mai andare troppo in su coi bpm (non ho la fascia cardio, come la controllo ’sta cosa?), mai sotto le sessanta/settanta pedalate al minuto (non ho il contapedalate, come la controllo ’sta cosa?). Non devo dimenticare di abbassare la luminosità del Garmin, che se si scarica nella prima metà di gara poi come ci torno a Porto Recanati?
Un’ultima considerazione, che sono quasi le sei del mattino e stanno aprendo il ritiro pettorali: avrei voluto un numero figo, il #100, il #91 di Rodman, il #71 con cui Colbrelli ha appena vinto la Roubaix, che ne so. Mi bastavano anche numeri sotto il 230 circa, così avrei guardato le ultime startlist di Giro o Tour e mi sarei immaginato di essere il ciclista corrispondente. Perlomeno, avrei desiderato almeno numeri che finiscono con zero o cinque, perché danno un’idea di rotondità, o numeri divisibili per tre (feticismo ereditato dal prof del liceo). Invece: 1057. Molto deluso, cerco qualcosa su questo inutile numero a quattro cifre e scopro che nel 1057 morì Macbeth, il re di Scozia su cui Shakespeare ha basato la famosa tragedia. Non è un’opera nuovissima ma non l’ho mai letta e non voglio spoiler. Nemmeno voglio paragonare la vita di un reale britannico dell’undicesimo secolo alla faticaccia ciclistica che mi aspetta. Ditemi solo: finisce bene Macbeth, vero?