La crescita e l'orgoglio

La giornata era iniziata con una mezza delusione perché, diciamocelo, ci aspettavamo Filippo Ganna in finale per l'inseguimento individuale. Magari in una finale tutta italiana con Jonathan Milan, ve la immaginate? Ma, alla fine cosa puoi dire a Ganna? Qualcosa si può dire: non toccategli l'orgoglio per quella finale mancata, perché si inventerà qualcosa di assurdo. E assurdo, parlando di Ganna, significa incredibile, bello. Basta guardare la prestazione che ha tirato fuori nella finale per il bronzo. Ha raggiunto Claudio Imhof, ha vinto e avrebbe tirato dritto per ribadire che stamattina è stato un errore ma lui, su quei tempi, non si batte. È stato fermato dalla giuria, mentre i compagni al centro della pista invitavano il pubblico alla standing ovation, altrimenti chissà che tempo avrebbe realizzato. Non ufficiale certo, ma è una gran bella risposta. Della classe nemmeno parliamo perché sarebbe scontato.
Erano in attesa Ashton Lambie e Jonathan Milan. Trenta anni contro ventuno, Usa contro Italia, Nebraska contro Friuli Venezia Giulia. I baffoni americani contro i 194 centimetri del ragazzo di Buja. Quei baffi che sembrano uno scherzo all'aerodinamica, quei centimetri che sembrano inconciliabili con l'armonia che Milan mostra su quella sella mentre spinge sul parquet.
I tempi parlavano chiaro: Lambie era favorito. Ex meccanico di biciclette, l'americano, che a forza di averle fra le mani si è deciso a provarle. Era partito con la gravel, poi ha provato la pista. Dalla polvere al velluto del velodromo, lisciato dopo ogni impatto che potrebbe rovinarne la superficie. Si prende la scala per lisciare il legno, perché l'inclinazione è tanta, perché a piedi non sali.
Milan è lì. Ieri ha lanciato il quartetto, oggi si è lanciato, forse anche troppo veloce nelle fasi iniziali. Villa glielo ha detto subito. È rimasto lì, perdeva qualche centesimo ma non naufragava, denti stretti, saldo in sella. Si è scomposto solo nel finale, quando ormai Lambie era lanciato verso l'oro. Si potrebbe dire che ha perso l'oro, vogliamo dire che ha vinto l'argento. Non era facile. Non era facile perché c'era Lambie, non era facile nemmeno a livello psicologico essersi guadagnati quel posto, sostenere la tensione di quella finale in cui tutti aspettavano Ganna. Alla fine, però, è così che si cresce: affrontando ciò che sembra più grande di te e che momentaneamente, magari, lo è anche. Lanciandosi nel velodromo e portando a casa l'argento mondiale.
Ashton Lambie sorride sotto i baffi, si avvolge nella bandiera americana. Ad agosto, in altura, aveva frantumato il record sui quattro chilometri, scendendo sotto il muro dei quattro minuti. C'è qualcosa in sospeso con Ganna, una sfida lanciata. Come, dopo oggi, c'è qualcosa in sospeso con Milan e chissà che nei prossimi anni la sfida non si ripeta e sia Milan a spuntarla. C'è la fantasia di una finale italiana e che bello sarebbe. Ci sono un argento e un bronzo in più nel medagliere ma non finisce qui. Nei velodromi, ogni sfida è un preambolo di altro che verrà, una motivazione, un pungolo di quelli per costruire qualcosa di migliore. E se le premesse sono queste...


Il ritorno di Letizia Paternoster

L'eliminazione ovvero il timore di quella luce che si accende sul casco, il tabellone che indica il tuo nome, la tua nazionalità, la ruota posteriore che taglia la linea bianca del velodromo in ultima posizione, l'atleta che scende a bordo pista: gara finita. Ogni due giri una spada di Damocle che pende su una ciclista. Nel mezzo la lotta per limare, per essere nella posizione giusta, per non stare nelle retrovie e dover continuare a rilanciare, ma anche per non stare troppo esposti, sempre davanti, evitando il timore, sprecando troppo e rischiando di restare svuotati quando è il momento di sprintare. Già, perché non ci sono storie: da ventuno si resterà in due e lì vince chi è più veloce, più scaltro.
C'era tutto questo, poco dopo le 21:00 di ieri, nella testa di Letizia Paternoster. Lei che aveva lasciato a Chiara Consonni il posto nel quartetto, per andarsi a giocare la propria possibilità, una possibilità a cui pensava dall'Europeo e forse anche da prima. È stata impeccabile Letizia: nelle posizioni buone del gruppetto, apparentemente senza alcuna fatica, qualche rilancio, ma con facilità, con leggerezza. Il brivido, il timore di quella condanna non ci ha sfiorato quasi mai.
Scendono a bordo pista Canada, Messico, Gran Bretagna, più avanti Giappone, Kazakistan, Spagna e Svizzera, poi il momento delle condanne eccellenti, quella della Francia, ad esempio. Sì, perché basta un attimo, una distrazione e chiunque può cadere in trappola. Diminuiscono le atlete e aumenta il rischio. Eppure Paternoster è sempre lì. Cinque, poi quattro e infine tre. Qualcuno potrebbe pensare che, in fondo, il podio c'è, che una medaglia c'è. Nella testa di Paternoster c'è altro: ci sono due anni difficili, tentativi a vuoto di ritornare quello che era, quello che è sempre stata ed è ancora. I momenti no accadono. Paternoster ha ventidue anni, anche se non sembra per quell'elenco di vittorie e di medaglie così ampio. Verrebbe da dire che si può sbagliare sempre, a ventidue anni forse ancora di più, perché c'è tutto il tempo. Spesso per gli atleti non è così, un continuo rimpallo dalle stelle alle stalle, anche per il minimo errore. Non è giusto, ma accade e non è il caso di imbastirci tante storie. Saperlo sì, rifletterci sì.
Jennifer Valente scende dalla pista. Restano Paternoster e Kopecky, Italia e Belgio. Letizia controlla, poi parte. È la più veloce, una velocità costante e rilanciata, che la proietta su quella linea bianca in prima posizione. Alza le mani, grida, guarda lo staff e poi piange. A dirotto. Dentro a ogni abbraccio, a ogni complimento. Le salviette asciugano gli occhi e le lacrime che tornano a scendere. Probabilmente Paternoster di qualche anno fa non sarebbe scoppiata in quel pianto, lei così forte, lei abituata a vincere su tutto e tutte. Ieri sì.
La sofferenza degli altri non si può capire, si può rispettare e forse intuire pensando alla propria sofferenza. Di certo bisogna sapere che la forza è fatta di fragilità e anche di debolezza. Per questo Kopecky la cerca e le dà una pacca sulla spalla. Letizia Paternoster che vince l'oro nell'inseguimento a squadre è più forte di prima. Perché ha visto e ha capito. "La dedico alla mia squadra, alla mia famiglia: solo loro mi sono restati accanto, tutti gli altri se ne sono andati in questi due anni". A queste condizioni non è facile tornare. Mai e a ventidue anni ancora meno, perché sei giovane, perché a certi tagli non sei abituato. Lei è tornata. Con quell'oro ha fatto felici tutti quelli che sono sempre restati lì ad aspettarla ma soprattutto si è fatta felice. Ed è questo l’importante.