L’eliminazione ovvero il timore di quella luce che si accende sul casco, il tabellone che indica il tuo nome, la tua nazionalità, la ruota posteriore che taglia la linea bianca del velodromo in ultima posizione, l’atleta che scende a bordo pista: gara finita. Ogni due giri una spada di Damocle che pende su una ciclista. Nel mezzo la lotta per limare, per essere nella posizione giusta, per non stare nelle retrovie e dover continuare a rilanciare, ma anche per non stare troppo esposti, sempre davanti, evitando il timore, sprecando troppo e rischiando di restare svuotati quando è il momento di sprintare. Già, perché non ci sono storie: da ventuno si resterà in due e lì vince chi è più veloce, più scaltro.
C’era tutto questo, poco dopo le 21:00 di ieri, nella testa di Letizia Paternoster. Lei che aveva lasciato a Chiara Consonni il posto nel quartetto, per andarsi a giocare la propria possibilità, una possibilità a cui pensava dall’Europeo e forse anche da prima. È stata impeccabile Letizia: nelle posizioni buone del gruppetto, apparentemente senza alcuna fatica, qualche rilancio, ma con facilità, con leggerezza. Il brivido, il timore di quella condanna non ci ha sfiorato quasi mai.
Scendono a bordo pista Canada, Messico, Gran Bretagna, più avanti Giappone, Kazakistan, Spagna e Svizzera, poi il momento delle condanne eccellenti, quella della Francia, ad esempio. Sì, perché basta un attimo, una distrazione e chiunque può cadere in trappola. Diminuiscono le atlete e aumenta il rischio. Eppure Paternoster è sempre lì. Cinque, poi quattro e infine tre. Qualcuno potrebbe pensare che, in fondo, il podio c’è, che una medaglia c’è. Nella testa di Paternoster c’è altro: ci sono due anni difficili, tentativi a vuoto di ritornare quello che era, quello che è sempre stata ed è ancora. I momenti no accadono. Paternoster ha ventidue anni, anche se non sembra per quell’elenco di vittorie e di medaglie così ampio. Verrebbe da dire che si può sbagliare sempre, a ventidue anni forse ancora di più, perché c’è tutto il tempo. Spesso per gli atleti non è così, un continuo rimpallo dalle stelle alle stalle, anche per il minimo errore. Non è giusto, ma accade e non è il caso di imbastirci tante storie. Saperlo sì, rifletterci sì.
Jennifer Valente scende dalla pista. Restano Paternoster e Kopecky, Italia e Belgio. Letizia controlla, poi parte. È la più veloce, una velocità costante e rilanciata, che la proietta su quella linea bianca in prima posizione. Alza le mani, grida, guarda lo staff e poi piange. A dirotto. Dentro a ogni abbraccio, a ogni complimento. Le salviette asciugano gli occhi e le lacrime che tornano a scendere. Probabilmente Paternoster di qualche anno fa non sarebbe scoppiata in quel pianto, lei così forte, lei abituata a vincere su tutto e tutte. Ieri sì.
La sofferenza degli altri non si può capire, si può rispettare e forse intuire pensando alla propria sofferenza. Di certo bisogna sapere che la forza è fatta di fragilità e anche di debolezza. Per questo Kopecky la cerca e le dà una pacca sulla spalla. Letizia Paternoster che vince l’oro nell’inseguimento a squadre è più forte di prima. Perché ha visto e ha capito. “La dedico alla mia squadra, alla mia famiglia: solo loro mi sono restati accanto, tutti gli altri se ne sono andati in questi due anni”. A queste condizioni non è facile tornare. Mai e a ventidue anni ancora meno, perché sei giovane, perché a certi tagli non sei abituato. Lei è tornata. Con quell’oro ha fatto felici tutti quelli che sono sempre restati lì ad aspettarla ma soprattutto si è fatta felice. Ed è questo l’importante.