La filosofia di Marlen Reusser
Marlen Reusser è felice, ma, in realtà, la felicità non le interessa nemmeno più di tanto. È capitato anche alla trentenne svizzera di sentirsi infelice, nonostante il ciclismo e le vittorie: andava tutto bene, ma il morale era a terra. Non c'è alcuna difficoltà ad ammetterlo. «Non è obbligatorio essere felici. Puoi esserlo oppure no» ha raccontanto in un’intervista a Procycling. «L'importante è che tu impari a conoscerti, a sentire il tuo corpo e a capirlo. Una volta che lo hai imparato ti servirà in ogni circostanza, in qualunque lavoro, io lo sto imparando correndo in bicicletta». Questo ragionamento l'ha sempre aiutata nella sua prova prediletta: la cronometro.
Nel tempo, molti le hanno chiesto quale sia il suo approccio mentale alla cronometro e lei ha sempre risposto che non c'è una regola, semplicemente perché la nostra mente fa ragionamenti nuovi e ci sottopone una realtà diversa ogni giorno, quindi è inutile proporsi di vedere le cose in un determinato modo, perché quel giorno potresti non riuscirci. Quando ti sveglierai, saprai chi sei in quel momento e con quello dovrai fare i conti. Regola aurea visti i risultati di Reusser contro il tempo nel 2021: argento alle Olimpiadi di Tokyo, oro agli Europei di Trento e ancora argento ai Mondiali delle Fiandre.
Marlen Reusser approda relativamente tardi al ciclismo professionistico, a causa di un infortunio. All'inizio, forse, nemmeno le piace molto pedalare, però le viene facile, estremamente facile così qualcuno le suggerisce di provare a farlo come lavoro. Oggi dice che, se non ha mai mollato, è solo perché, in fondo, le cose che non le piacevano del ciclismo erano meno di quelle che le piacevano, per esempio quello stato costante di imprevedibilità, la possibilità di conoscere luoghi e persone e, qualche volta, di sentirsi meglio perché sai che qualcuno è interessato a te, anche se fai fatica, piove e fa freddo.
Probabilmente, proprio per questa facilità innata, anche se non lo ha mai detto, Reusser ha sempre creduto alla possibilità di fare bene nel ciclismo. «Può sembrare arrogante dirlo, ma non lo è. Puoi avere tutto il talento che vuoi, ma per emergere devi lavorare sodo e io l’ho fatto. Mi sono posta degli obietti e mi sono impegnata al massimo per raggiungerli: prima o poi i risultati dovevano arrivare». Una delle più grosse difficoltà è stata riuscire a stare in gruppo nelle gare su strada, quelle in cui se non hai qualcuno che ti aiuta, di cui ti fidi e che si fida di te, difficilmente riesci a fare bene perché stare nella pancia del gruppo è davvero difficile. Lei ha imparato provandoci, con una tranquillità di fondo, però: «Se non ci fossi riuscita, probabilmente avrei smesso di gareggiare su strada. Che senso ha continuare a fare una cosa che non ti diverte?».
La Reusser ha le idee chiare, per prossimo ha voluto fortemente l'approdo in Sd-Worx, una squadra di campionesse. Ma fra loro non c'è rivalità, bensì apprezzamento. «Non credo sia un bene che in una squadra ci sia un solo campione e tante seconde linee che gli girano attorno. Non mi piacerebbe neppure se la campionessa fossi io. Per avere la possibilità di correre al meglio ogni gara occorre che tutta la squadra sia di alto livello».
Per il futuro, Reusser ragiona come per la felicità. Arriverà comunque e non ha nemmeno senso farsi tante domande. Lei è dottoressa e prima di dedicarsi al ciclismo lavorava in ospedale, è appassionata di politica e le piace impegnarsi per aiutare gli altri. Il ciclismo, per Reusser, è fatto di traguardi, ma la vita porta tante cose e fra quelle bisogna scegliere. Così, se è vero che vorrebbe vincere un titolo mondiale a cronometro, è anche certa di non voler invecchiare nel ciclismo: «Annemiek van Vleuten ha trentotto anni, Mavi Garcia trentasette. Non credo che continuerò così a lungo. Voglio fare molte altre cose nella vita, ho ancora troppe cose da imparare».
La normalità di Geraint Thomas
Ricordiamo tutti il volto di Geraint Thomas ai microfoni, al termine del Tour de France 2018. Un pianto liberatorio e quelle parole ripetute: «Non ci posso credere, ho vinto il Tour. Non è vero». Non riusciva nemmeno a parlare il britannico, eppure, al giornalista che gli chiese se quella fosse l'emozione più importante di tutta la sua vita, rispose subito, senza indugiare un secondo. «No, l'emozione più grande della mia vita è stata il mio matrimonio, andare verso l'altare con mia moglie. Non si possono paragonare queste cose». Già, ogni cosa al posto giusto, col giusto valore. Tempo dopo, quasi si scusò per quelle lacrime: «È imbarazzante piangere davanti alle telecamere, ma in quel momento mi stavo rendendo conto di cosa avevo fatto».
Da quel momento, le cose non sono più andate come Thomas avrebbe sperato, forse creduto. Una storia di cadute e sfortuna. Fu lui stesso, dopo la caduta al Tour dell'anno successivo a parlare di frustrazione, a dire che non c'era una spiegazione per quella caduta e questo peggiorava le cose. Lì il danno fu poco e Thomas finì in seconda posizione la Grande Boucle. Come il podio di Parigi, però, nei ricordi resta l'assurda caduta nella tappa dell'Etna al Giro d'Italia 2020. Assurda per le modalità, cadde a causa di una borraccia, assurda per l'esito: arrivò al traguardo con più di dodici minuti di ritardo fra lo stupore di tutti e le critiche che iniziavano a muoversi. Perché uno dei candidati per la vittoria finale pagava dazio già nella prima tappa di montagna? Aveva una frattura del bacino, Thomas. Scalò l'Etna così.
E ancora cadute, frustrazione e delusione. Geraint Thomas ha saputo anche ridere, scherzarci su, quasi ad anestetizzare l'amarezza. Per esempio quest'anno, quando al Giro di Romandia è caduto a cinquanta metri dal traguardo. Se non bastasse aver vinto il Tour de France per parlare di un campione, basterebbe questa ironia. Difficile, soprattutto quando tutti chiedono, aspettano, giudicano. Quando, forse anche tu, inizi a non capire più che ti sta succedendo.
A Cyclingweekly, Thomas ha raccontato che l'inizio di questa stagione è stato forse uno dei migliori inizi di sempre. Nonostante tutto. «Non sono diventato un ciclista mediocre, all'improvviso» ha detto ed ha ragione. Per le caratteristiche atletiche e anche per come parla, per come si racconta e per le idee che continua a mettere in campo nonostante tutto vada storto. «Continuerò a impegnarmi e a buttarmi nella mischia per vincere, perché ora conta solo vincere, tornare a vincere. Poi tornerò ai Grandi Giri, non solo però. In fondo ho sempre avuto stagioni con lo stesso programma in tutti gli anni di carriera, ho voglia di cose fresche, di cambiare, di mettermi alla prova su altri percorsi».
E questa spensieratezza preservata a colpire e a farlo restare in sella. Nei gesti e nelle parole, come in Watts Occurring, il podcast che Geraint Thomas gestisce con il compagno di team Luke Rowe. «Raccontiamo di noi. Certe volte ridiamo anche e prendiamo in giro qualcuno, solo per divertimento. Inizialmente non ci riflettevo, adesso invece ci penso perché le nostre parole le sentono tutti e non sai mai come vengono interpretate».
Thomas che a inizio carriera, lo ha raccontato spesso, avrebbe desiderato vincere ogni corsa, su strada, su pista, oggi ha capito che bisogna saper scegliere. Saper scegliere e continuare a lavorare sodo. Con grande impegno, ma anche con grande serenità e perché no con la giusta dose di leggerezza.
Sul Giro d'Italia 2022
Ormai è passato più di qualche giorno (forse persino oltre una settimana) da quando il Giro d'Italia è stato presentato. Anzi "finito di presentare": che suona male, un po' strano. Strana presentazione perché divisa in puntate, inusuale, come se farne un racconto seriale desse un tono più contemporaneo all'evento o ne accresca maggiormente l'attesa.
A chi scrive, inizialmente ha creato solo più confusione che altro, per fortuna che c'era poi chi, contemporaneamente alle uscite, raccoglieva e metteva tutto assieme tappa per tappa e nel giusto ordine.
Tuttavia: primo episodio dedicato alle tre tappe ungheresi e dal titolo “Grande Partenza”; secondo episodio, quelle di pianura, “Volate” (oh-oh), poi quelle miste dal titolo “Tappe Mosse” (qui la fantasia si è sprecata), e a seguire “Tappe di Montagna” (ineccepibile).
A chiudere la presentazione della tappa finale “Grande Arrivo” con la cronometro di Verona che si chiuderà tra Piazza Bra e l'Arena come due anni e mezzo fa. Della brevità (contro il tempo) ne parleremo in seguito, ma se non altro sarà un finale estremamente scenografico e chissà che non sia di nuovo pieno di ecuadoriani come nel 2019, ma è prestissimo per parlarne.
Ora, invece, è tempo di dare un punto di vista veloce su come ci pare il percorso di questa edizione di Giro fermo restando che il Giro è sempre il Giro e, probabilmente, appassionerebbe anche se fossero 21 tappe di pianura - no, beh abbiamo esagerato, ma è per capirci: comunque vada la Corsa Rosa ci sta a cuore e non vediamo l'ora sia il 6 maggio, giorno fissato per la partenza - anzi “La Grande Partenza” - dall'Ungheria.
COSA CI PIACE - Le tappe mosse . Se chi scrive appartenesse alla generazione Z esclamerebbe (o forse in realtà lo ha fatto, ma in forma privata): “tanta roba!”. Sono la vera chicca della prossima edizione, una tappa più bella dell'altra: quella piemontese con arrivo a Torino sarà massacrante (un filino corta), quella friulana con arrivo a Castelmonte è ricca di trabocchetti (le discese mettono i brividi) e il Monte Colovrat è salita vera. Muri marchigiani e tappa calabro-lucana due gioiellini (e il chilometraggio è soddisfacente), arrivo a Napoli suggestivo. Saranno tappe insidiose per la classifica, che sorridono ai corridori da corse di un giorno (ma amaramente ci chiediamo: chi ci sarà fra i mammasantissima delle classiche dopo la campagna di Primavera?), saranno tappe che, sempre sulla carta ci potranno far divertire. Fuga all'arrivo e/o battaglia tra gli uomini di classifica ci penseremo a tempo debito.
Ci piace anche, e molto, la tappa con arrivo sul Blockhaus, ma soprattutto quella che termina sulla Marmolada. Forse ci vorrebbe qualche chilometro in più (anche 40, 50), ma l'arrivo sul Fedaia non teme confronti con nessun altro finale di nessuna corsa del mondo. Da Malga Ciapela in poi vengono le vertigini, male alle gambe e fioccano i ricordi.
E poi le cartine altimetriche del Giro restano sempre le migliori; sembra un fatto banale ma non è così. Realistiche, dettagliate, facilmente fruibili. Provate a controllare quelle del Tour (per altro quelle del 2022 ancora non ci sono) e a fare un'analisi basandovi su quelle e noterete la netta differenza.
COSA NON CI PIACE – Facile: 26 chilometri a cronometro sono pochissimi. Persino inspiegabili. Corsa sbilanciata e senza una vera crono lunga. Ma quanto erano belle le crono vallonate di 40/50 km di qualche stagione fa? E no, qui non si tratta di nostalgia anche se l'età avanza per tutti ed è più semplice rimpiangere e leggere il passato che rendersi conto del, e apprezzare il, presente.
Qui non c'entra la salvaguardia del, come si è letto in giro, “patrimonio Ganna”, qui si tratta di avere il dovere (sic) di arrivare almeno a 50/60 km di cronometro per rendere la corsa completa e meno sbilanciata. Per quale motivo dovrebbe essere meno spettacolare una crono lunga (o medio lunga?) rispetto a una crono di 9,2 km (la prima) e di 17,1 (!) , la seconda? Poi certo – e anche qui se ne parlerà a tempo debito – l'ago della bilancia, quello che sposterà ogni commento concreto sarà scoprire i nomi che si giocheranno la maglia rosa, oggi si commenta l'uscita delle tappe, non altro.
E la questione del chilometraggio è quella più calda: solo tre tappe sopra i 200 km (per altro appena sopra i 200 km) tra cui due piatte per velocisti e una messa pure di domenica, la prima domenica: certo non il miglior spot per tenere incollati in tv gli appassionati a inizio maggio. Diverso il discorso per noi malati della pedalata altrui: ce la guardiamo senza fiatare dal km 0, ci chiederanno perché ci facciamo così del male e il perché è sempre quello: il Giro è sempre il Giro e già facciamo il conto alla rovescia per quando inizierà (da oggi dovrebbero essere 168 giorni!).