Ciclocross, cos'altro?

Abituati a tenere monitorati quei tre lì, segnandoci sul calendario il giorno del loro ritorno in gara, stiamo forse facendo passare sottotraccia le cose interessanti che sta regalando il ciclocross in queste settimane.
Ieri Besançon, per una volta Francia e non Belgio e Olanda, non è stata da meno, anzi. Il canovaccio era quello tipico di una tipica domenica di fine autunno; giornate che a noi comuni mortali ci tengono inchiodati sul divano: freddo e pioggia fuori, e a uscire di casa non se ne parla.
Toon Aerts ed Eli Iserbyt, invece, esseri umani uguali, ma così differenti da noi e tra loro, e soprattutto con una missione differente, loro sì erano fuori casa a darsele, scrivendo un altro capitolo dei loro duelli ridleyscottiani.
Proprio come nell'opera in questione, due strutture agli antipodi: Iserbyt piccolo e agile, Aerts lungo e potente. Un tratto li accomuna: la grinta.
Ieri a Besançon, in mezzo a tutto quel fango, con un sacco di gente a incitare (e parola di Iserbyt «A emozionare i corridori») su un tracciato tecnico e reso ancora più complesso dalle condizioni meteo, hanno inscenato una sfida spettacolare che inizialmente sembrava dovesse favorire il lungagnone (più a suo agio su un tracciato inscurito dalla pioggia) in confronto al piccoletto (che spesso non ama condizioni estreme).
A un certo punto, però, si era all'incirca al 51' di gara, ormai verso la conclusione, Aerts allungava e sembrava farlo in maniera definitiva, ma una leggera discesa e poi una curva insidiosa gli mostravano il conto.
Aerts, disarcionato dalla sua bici incastrata e impazzita in mezzo alle canalette create dal passaggio delle ruote sul fango, risaliva senza poter più colmare il gap che riusciva a scavare Iserbyt, arrivato lordo di fango e vittorioso al traguardo.
Ma ciò che ci premeva sottolineare in questo lunedì mattina non è tanto il risultato, ma è il fatto di aver visto Aerts, una volta superata la linea d'arrivo, francamente distrutto e deluso, scendere dal suo mezzo, avvicinare le transenne, mescolarsi tra il pubblico che lo guardava incredulo e incitare chi arrivava dopo di lui, in particolare il giovane compagno di squadra Ronhaar, campione del mondo under 23 e al primo podio in carriera tra gli élite (e terzo più giovane di sempre, indovinate chi sono i primi due?).
Quella qui in fondo al testo è una delle immagini dell'anno. Senza dubbio. Quello che abbiamo visto è ciclocross, cos'altro?


L'empatia di un direttore sportivo: intervista a Enrico Gasparotto

«Come atleti si è abituati a considerare la propria prova ed il proprio interesse, un direttore sportivo ha un quadro più ampio da considerare. Essere bilanciati è fondamentale; la prima prova per me sarà proprio l’acquisizione di questa capacità». Non è passato molto tempo dal suo annuncio fra i direttori sportivi della Bora-Hansgrohe per la prossima stagione ed Enrico Gasparotto riflette ogni giorno su quello che sarà il suo compito. L’esperienza fra le squadre Continental è importante ma nel World Tour cambia quasi tutto. «Se dovessi riuscire a instaurare il clima di armonia a cui punto fra tutto lo staff, i corridori e me stesso, umanamente sarei già contento. Quando ti ritrovi a prendere decisioni, ad essere l’unico responsabile di venti persone durante le trasferte, non puoi fare tutti felici ma questo è il prezzo del decidere. Devi, però, fare in modo che ciò non influisca sull’armonia e la serenità del gruppo». In quest’ottica il ragionamento va a toccare un meccanismo che in realtà riguarda anche la vita di tutti i giorni.

«Tutti vogliamo vincere, essere i migliori e ottenere risultati, il punto è che siamo inseriti in un’organizzazione e ciò comporta anche delle rinunce personali a favore del gruppo. Il cammino di un ragazzo, giovane e meno giovane, verso il successo deve passare da qui. Bisogna sapere che la rinuncia personale a favore del gruppo è fondamentale talvolta. L’egoismo non fa bene». Gasparotto sorride e ripensa al corridore che è stato, alle scelte che ha fatto e alla sua indole. «Io questi errori li ho fatti. Ero un testardo, spesso concentrato sui miei risultati e basta. Ho sbagliato diverse volte e, forse, anche per questo sono la persona giusta per parlare di questo ai ragazzi. Con alcuni mi scontrerò di sicuro perché capire queste cose, da giovani, in un ambiente di alto livello e dalle forti ambizioni personali è difficile».

Enrico Gasparotto è consapevole dei propri errori ma è altrettanto consapevole che ha avuto la fortuna e il tempo per comprenderli e magari porvi rimedio. «Col ciclismo di oggi quel tempo non c’è più, vorrei lo capissero questo i ragazzi. La velocità del mondo di oggi è tale per cui è sempre più difficile porre rimedio agli errori. Certe cose vanno capite subito, altrimenti è tardi». Se ha accettato l’incarico in Bora è stato anche perché si è parlato del tempo: «Sono sempre meno gli ambienti in cui si comprende che dopo i cambiamenti serve tempo per fare in modo che tutto funzioni. Bisogna lavorare sodo, ma anche concedersi il tempo che serve».

Giro d'Italia 2019 - 102nd Edition - 14th stage Saint Vincent - Courmayeur 131 km - 25/05/2019 - Marco Marcato (ITA - UAE - Team Emirates) - photo Luca Bettini/BettiniPhoto©2019

La parola chiave è fiducia, qualcosa per cui si lavora già da adesso. Gasparotto sta andando a casa dei vari ragazzi che non conosce o che conosce poco, per parlare e, soprattutto, per ascoltare. «Credo che nella vita riesca bene chi ha la capacità di ascoltare tutti. È difficile perché basta poco, una giornata storta, per dimenticarsi di ascoltare gli altri. Se non ascolti, non conosci e se non conosci non puoi capire». Già perché a casa dei ragazzi non si parla solo di ciclismo: qualunque esperienza personale, qualunque problema degli anni trascorsi può influire su ciò che sarà e Gasparotto ha necessità di capire tutto questo.

«Si tende a ridurre tutto a numeri e i numeri sono importanti, però un direttore sportivo ha necessità di conoscere gli uomini che ha di fronte. Di essere loro amico, nel rispetto dei ruoli. In questo senso basta guardare Davide Bramati: i successi che ottiene sono spesso frutto dell’empatia che instaura. Abbiamo suddiviso la squadra in vari gruppi con cui ciascun direttore sportivo lavorerà, in modo da intensificare questa conoscenza, questo rapporto». Lo stress e la tensione saranno l’altra chiave di volta, saperli affrontare la possibile soluzione del problema. «Essere un corridore che ha smesso da poco può essere un vantaggio o uno svantaggio. Anche qui dovrò essere bravo a pesare le cose: se non riuscirò a togliermi la veste da corridore per indossare quella da direttore sportivo, sarà un problema. Se la veste da direttore sportivo mi farà scordare ciò che si prova da corridori sarà un problema altrettanto grosso».

Appena ha saputo del proprio incarico ha parlato con Bramati e con Franco Cattai, colui che l’ha messo in bici e che in dialetto veneto gli ha insegnato ciò che oggi sa. In Bora sarà a stretto contatto con Rolf Aldag, professionista che stima e con cui si confronta abitualmente, però il fatto di trovarsi in un ambiente nuovo, in cui molti non lo conoscono è uno stimolo in più: «Dove nessuno ti conosce, sai che sarai valutato per ciò che farai e non per ciò che hai fatto. È difficile perché riparti da capo e hai tutto da dimostrare. Da atleta ho cambiato molte squadre e mi è successo spesso. La crescita passa da lì, non puoi migliorare se non sei disposto a lasciare da parte un poco di tranquillità e di comfort».