Lennard Kämna è tornato (felice)
Non è chiaro cosa successe a Lennard Kämna nel maggio 2021. Qualcosa di certo si ruppe: portò a termine una Volta ao Algarve piuttosto incolore, poi decise di dimenticare la bici per qualche mese. Doveva essere la stagione della consacrazione: nel 2020 vinse una tappa al Tour de France e una al Delfinato, ma l’anno successivo « ho vissuto la mia vita in modo sbagliato» racconta. La pressione e l’auto-imposto stress per rendere al meglio lo hanno sfibrato: «Forse ho prestato troppa poca attenzione al mio recupero fisico e a ciò che il mio corpo provava a dirmi».
Ha parlato di questo momento difficile anche dopo la sua vittoria al Tour of the Alps, nella terza tappa con arrivo a Villabassa, un paesino incantevole in Alta Pusteria. «Non andrò nei dettagli, ma sono stato molto contento di riattaccarmi il numero alla schiena. Ho imparato a capire chi sono, dove sono». Lo ha molto aiutato un’esperienza fatta in Sudafrica col compagno di squadra Ben Zwiehoff, a una durissima corsa di mountain bike a coppie, la Cape Epic. Zwiehoff ieri mi ha detto, con una certa sorpresa, che Lennard se l’era cavata egregiamente pur non avendo un background da biker come il suo.
La BORA-hansgrohe lo ha supportato nel periodo lontano dalle corse su strada, rinnovandogli il contratto per un ulteriore anno. In questa stagione Kämna ha già vinto due corse, entrambe pane per i suoi denti: attaccando da un gruppo ridotto, con tanto dislivello nelle gambe prima del finale. «Nella prima ora io e Domen Novak abbiamo tirato a tutta per un’ora per non far andar via la fuga» mi dice uno stremato Edoardo Zambanini dopo la tappa. Poi finalmente la fuga è partita. Kämna è riuscito a riacciuffare il gruppetto di testa e non se n’è più andato. Con un timido sorriso da introverso qual è, all’arrivo dice di essere contento. «Sono tornato».
L'ultimo muro di Don Alejandro
Già, proprio così. Anche se qualcuno ancora non ci crede e spera possa ripensarci. Chi, romantico o illuso, non riesce ancora a venire a patti con il tempo che passa.
Gli ultimi minuti di Alejandro Valverde sul Muro di Huy, domato per cinque volte in carriera, sono stati proprio gli ultimi. A 42 anni ha provato a vincere di nuovo la Freccia Vallone, ma cos'è mancato? Un niente.
Che poi un niente... parliamone. Era la forma di Dylan Teuns, primavera d'acciaio la sua, piazzato e piazzato bene ovunque. Oggi ha vinto lui e ha meritato. Alejandro Valverde ci ha creduto, come tutti noi, come la sua squadra che lo portava davanti con Mas a scandire il ritmo prima del cambio di pendenza finale.
Mentre Pogačar arrancava - ed è una novità - e faceva il buco nel quale inghiottiva Alaphilippe e Martinez, Valverde davanti, posizionato benissimo come chi conosce ogni centimetro di questa salita, come l'avesse progettata dopo averla vista in sogno, accelerava, accelerava e accelerava. Ma Teuns, agile e scattante, con quella fisionomia da suricato, non ne voleva sapere di staccarsi. A chi interessa la storia del ciclismo? A nessuno se c'è da vincere una Freccia Vallone.
Indifferente dall'avere davanti chi a suo piacimento ha dominato su queste terre, Teuns non mollava un attimo, perfido, affiancava Valverde e lo batteva superandolo poco prima del traguardo. E Don Alejandro chiudeva la sua ultima volta sul Muro al secondo posto.
Il tempo abbatte tutto in modo inesorabile. Come le gambe che sentono l'usura dell'età. Come una ruga che spunta sul viso e viene a ricordarti chi sei.
Forza sapiente sul Mur de Huy
Una decina di giorni fa all'Amstel Gold Race, Marta Cavalli decideva di cogliere alla lettera il significato di "prendere l'attimo giusto" trasformandolo in una vittoria. Oggi, sulla strade della Freccia Vallone, più precisamente sul Mur de Huy, la storia si è ripetuta in una forma leggermente diversa, ma con un risultato simile.
Tatticamente perfetta, Marta Cavalli ha scrutato i movimenti delle altre, banalmente ha battezzato l'unica ruota che sapeva sarebbe andata via, o che almeno ci avrebbe provato, quella di Annemiek van Vleuten.
A qualche centina di metri dall'arrivo, nel tratto più duro, l'olandese faceva la differenza o almeno così pareva a un occhio disattento, mentre l'italiana, il suo un occhio attento, all'apparenza calma e con un filo di gas, si adagiava quatta quatta alla sua ruota. Quando la strana spianava e partiva la decisiva volata a due, Marta Cavalli sprigionava quella che in questo momento è la miglior gamma a due ruote. In fatto di testa e gambe.
Ci vuole testa, appunto, ma ci vogliono le gambe: oggi Marta Cavalli mette insieme un binomio che - ciclisticamente parlando - quando la strada sale rasenta la perfezione.
Non svegliateci da questo momento. Quello in cui il ciclismo femminile italiano sta dominando il ciclismo femminile mondiale.