Un sussulto di gioia
Un capannello di fotografi, giornalisti e membri della squadra corrono al fianco di una ciclista. Sono così tanti che dev’essere la vincitrice, ma non si capisce chi sia. Oltre al tanto pubblico, sul traguardo di Épernay anche gli addetti ai lavori sono un bel po’. Quindi c’è un bel casino, non tanto differente da quello che si vive in tanti traguardi del Giro d’Italia. Un urlo, però, si eleva sopra il trambusto: è quello della vincitrice di tappa, inconfondibile, perché è un personaggio sopra le righe e mai banale, Cecilie Ludwig.
La campionessa nazionale danese ha una maglia pulita. La croce bianca al centro, sfondo rosso, nessuno sponsor. Lo stesso vale per casco e guanti. Quando riesco a farmi spazio tra la folla, vedo Ludwig seduta per terra, esausta ed ebbra di gioia, impegnata ad abbracciare la sua massaggiatrice e a chiederle qualcosa da bere. Quando le viene passata una lattina di aranciata, ha un ulteriore sussulto di gioia: le emozioni sono così per Ludwig, una dietro l’altra. Ha appena vinto una tappa nella corsa più importante della stagione e riesce ad essere contenta anche di bersi un’aranciata.
La stappa ma non la beve nemmeno. Si porta una mano al petto, forse realizza cos’ha appena fatto. Marianne Vos è stata talmente sverniciata da aver definito le dimensioni del gap «abbastanza grandi». Si stende in posizione prona, coi gomiti tiene il busto poco alzato e solo allora sì che beve un po’. È esausta, si lascia andare completamente sull’asfalto come fosse un lettino da spiaggia. Il busto si ingrossa e si assottiglia ad ogni respiro, a occhio e croce sarà ancora oltre i centocinquanta battiti al minuto. Le dicono che deve andare sul podio ma si prende ancora qualche secondo per stare sull’asfalto: ha vinto, che problema c’è.
Mentre la danese è già sul palco, Emma Norsgaard (23 anni oggi) raggiunge alcune atlete della FDJ–Suez–Futuroscope perché portino i complimenti alla sua connazionale. Scherza sul fatto che Cecilie ha vinto nel giorno del suo compleanno e dovrebbe quantomeno dividere i premi con lei. Una massaggiatrice della FDJ tira fuori un telefono cosicché Guazzini, Le Net, Muzic e Brown possano guardare Ludwig in conferenza stampa. La vedono piangere, piangono anche loro, si abbracciano. Tutte hanno belle parole per Cecilie Ludwig: un’altra meravigliosa vincitrice di tappa in uno splendido Tour de France Femmes.
Che colpa abbiamo noi
Ma che colpa abbiamo noi se non siamo riusciti a capirci niente di questo Tour. 'Ché tutto girava così veloce e la media record di sempre ne è testimone. 'Ché si partiva a razzo: boom, via a cinquanta all'ora. Così, giusto per prendere la fuga e alla fine le energie per scattare ce le avevano solo un paio di corridori, un paio di corridori e mezzo, per stare larghi. E in salita la storia era fatta di resistenza e logorii da pendenza asfissiante.
Abbiamo pensato a Pogačar vincitore, facile facile, alto in sella, se fosse uno scrittore sarebbe uno di quelli in punta di penna, talmente gli viene naturale districarsi, come un serpente nella roccia, nel mestiere di ciclista.
Che colpa abbiamo noi se Vingegaard ha superato ansie e paure («quando era ragazzo vomitava prima di ogni gara» racconta sua madre e quando vinse tappa e maglia al Polonia, primo successo tra i professionisti, «mi chiamò per dire che non aveva chiuso occhio tutta la notte» parole di uno dei suoi allenatori) e ha superato pure Pogačar, che alla vigilia metteva ansia e paura, e, anzi, lo ha dominato in maniera (quasi) totale.
Sorprendente Vingegaard, che al Giro della Valle d'Aosta di qualche anno fa, quando conquistò il prologo tutto in salita, disse: «Non sono adatto alle salite lunghe». Forse soltanto la Jumbo Visma sapeva che in qualche modo sarebbe andato così forte e lo ha messo nella condizione di non bluffare. E a proposito di bluff mancati, risuonano come principio assoluto le parole di Pogačar nei primi giorni: «Vingegaard è il miglior scalatore di questo Tour».
Che colpa abbiamo noi se loro, intesi i Jumbo Visma, hanno dominato; se hanno sacrificato Roglič che ha corso dieci giorni con le vertebre fratturate e si rendeva utile - se non decisivo - alla causa, nel giorno del Granon che resterà, quando descriveremo il Tour 2022, come quello de "la crisi di Tadej Pogačar".
Pogačar si è fatto ingolosire dal connazionale rivale senza sapere che ad attenderli i loro tifosi erano gemellati al traguardo, mescolati in mezzo a migliaia di camper. Poteva stare più cauto. Si è sentito forte, ha perso. Ci ha provato dal primo giorno, non ha lesinato, benedetto talento della natura. Si è mostrato umano nella retorica della sconfitta sportiva. L'anno prossimo non si farà trovare impreparato - il resto, però, dovrà farlo la sua squadra.
Che colpa abbiamo noi se Geraint Thomas, in arte G, ha guidato splendidamente fino a Parigi, ha superato lo scetticismo - quelli del sottoscritto che stravede per lui, ma non da vederlo sul podio. Ha superato avversari più giovani di un paio di lustri, ha trasformato un banale errore nella cronometro - ha corso con lo smanicato usato nel riscaldamento - nell'occasione di dare spettacolo fuori dalla corsa creando l'hashtag #wheresGsgilet con tanto di giochino da fare a ogni tappa (un tifoso diverso al giorno avrebbe portato alla frazione successiva lo smanicato, tenendolo al sicuro fino a Parigi). Pare che grazie all'idea di Lizzie Banks la giacchetta Ineos continuerà a viaggiare anche durante il Tour femminile.
Ha superato le gerarchie e al solito non si è morso la lingua nelle interviste: «La Ineos voleva fare di me un Sepp Kuss». A 36 anni ha fatto un piccolo capolavoro simile a quello di Richie Porte un paio di anni fa.
Che colpa abbiamo noi se abbiamo sottostimato la capacità di Wout van Aert di fare ciò che vuole con il ciclismo. " il corridore più forte del mondo" come lo definisce Simone Basso; supercombattivo del Tour, maglia verde che gli sta persino stretta e avesse vinto lui a Hautacam, avrebbe potuto conquistare pure quella a pois. Ha fatto la sua corsa, quella di Vingegaard, quella di tutti gli altri del gruppo. Quando ha deciso avrebbe vinto Laporte così è andata.
Che colpa abbiamo noi se ci piace Gaudu con quella faccia da Harry Potter francese e il suo lento recuperare passo dopo passo e arrivare al 4° posto, oppure Simmons che a 21 anni e più giovane al via, nel computo delle fughe viene oscurato solo da van Aert. Che colpa abbiamo noi se di volate ce ne sono state poche, meglio così, ma buone, come l'ultima a Parigi.
Che colpa abbiamo noi se l'Italia – al maschile – fa fatica, troppa, e ci rimangono solo i segnali mandati da Dainese, Bettiol e Mozzato, promossi con lo sguardo per tutti e tre verso un finale di stagione in maglia azzurra.
Che colpa abbiamo noi se un altro Tour è andato e l'unica cosa che possiamo chiederci resta: quanto manca alla prossima Grand Départ?