«È stata dura?»

Intorno alla bocca, Giosuè Epis ha un segno che pare un principio di disidratazione. Subito tagliato il traguardo, affannato ma felice, circondato da un gruppo di persone, esclama con un sorriso a pieno volto: «Questa è buona!» lasciando in sospeso il riferimento: la vittoria nella seconda tappa del Giro della Regione Friuli Venezia Giulia, la più importante della sua giovane carriera? Oppure il piacere di scolarsi una bevanda - seppure in versione ridotta - che quando la mandi giù dopo una giornata in bicicletta provoca un benessere difficilmente spiegabile? Non glielo abbiamo chiesto.
Vanno all'attacco in nove, poi diventati otto vedremo, su un percorso che è un su e giù estenuante, durante tutto l'anno, per i ciclisti amatori della zona che spesso maledicono il dover tornare a casa passando per queste strade, sapendo che non c'è un metro di pianura, ma che invece, chi il corridore lo fa di mestiere (o studia per esserlo) beve di gusto come fosse, appunto, la bevanda di cui sopra. Dissetante, ma con le bollicine.
Ha tenuto duro, Epis, racconta a quel gruppo di persone che lo circonda, ma sapeva di poter contare sul suo guizzo veloce; con lui c'era gente navigata - per la categoria - come Zurlo, oppure la coppia piena di talento della Alpecin Devo, Vandebosch e Verstrynge, ma davanti è arrivato lui, con la maglia gialloblù della Carnovali Rime. Questo è ciò che conta.
Subito dopo passato il traguardo di Colloredo di Monte Albano, in provincia di Udine, un rettilineo infinito che tira all'insù, Davide Toneatti sembra quasi spaesato. Si guarda intorno dentro la sua maglia azzurra leggermente diversa dal celeste Astana che indossa in questa stagione su strada: è qui con la nazionale italiana che per l'occasione ha portato cinque corridori tutti provenienti dal ciclocross. Toneatti è un ragazzo della zona, di Buja per l'esattezza, come Milan, come De Marchi per contestualizzare il talento che arriva da un piccolo paese alle porte di Udine, e ci teneva a spiccare e poi a lasciare il segno. In fuga anche lui ci è andato vicino tanto così.
Lo dipingono tutti come puntiglioso, serio, quasi maniacale nel cercare la perfezione. Lo sprint lo vede battuto, ma più che spaesato in verità sta cercando con lo sguardo i suoi genitori che da almeno un'ora e mezza non stavano più nella pelle in attesa dell'arrivo del figlio.
La gioia di Epis, la tranquilla ricerca di uno sguardo familiare di Toneatti, la delusione di Nicolò Buratti, altro ragazzo quasi di casa, Corno di Rosazzo, sempre in provincia di Udine, ma quasi dalla parte opposta.
Indossa la maglia gialla di leader - che passerà sulle spalle di Zurlo - perché ieri sera la sua squadra, il Cycling Team Friuli, aveva dominato la crono che apriva il Giro della Regione Friuli Venezia Giulia (Giro del Friuli, per gli amici e per farla breve) e lui era passato per primo sotto lo striscione del traguardo.
Oggi l'arrivo era perfettamente tagliato sulle misure di un ragazzo (classe 2001) cresciuto per gradi, ora esploso quest'anno e appena uscito da tre vittorie in fila, Poggiana e Capodarco, dure e prestigiose, Rovescalesi. Tre vittorie che indicano perfettamente le caratteristiche di un corridore veloce, resistente, esplosivo.
Davanti in fuga c'era Bryan Olivo suo più giovane compagno di squadra (2003) nel Cycling Team Friuli: altro ragazzo friulano. Talento da coltivare del nostro ciclismo, forte nel ciclocross, fortissimo su pista e - giovanissimo, è un primo anno - alla ricerca della sua dimensione anche su strada.
Un problema meccanico lo ha tagliato fuori dalla fuga e la sua squadra successivamente non è riuscita a chiudere il buco. Ci dicono piangesse a fine gara per la delusione, ma le occasioni non mancheranno per ricamare un palmarès da primo della classe.
La rabbia di Buratti ha gli occhi rossi dalla fatica, ma si dissolve all'improvviso quando si accorge che dietro le transenne ci sono alcuni amici venuti a vederlo correre. «È stata dura?», gli chiedono. Buratti, fa un segno con la testa come dire: "che ci vuoi fare, questo e il ciclismo". Buratti, poi, sorride.


Dietro il sorriso di Chaves

Eppur sorride. Verrebbe da dire così, incontrando Esteban Chaves in questa Vuelta a España. Eppure ovvero nonostante tutto. Nonostante la fatica che è più fatica del solito, nonostante i risultati che non arrivano, nonostante le ruote degli altri sempre più distanti. Una distanza che aumenta ogni volta, davanti a lui, non dietro. Da solo, con pochi, in coda, non in testa. Quasi che quel colibrì danzante fosse diventato un colibrì sgraziato. Leggero eppur pesante. Non una leggerezza di pensieri e azioni, di imprevedibilità e velocità, di scatto e controscatto. Una leggerezza di vuoto: quando le gambe non vanno, quando l'energia finisce.
Pensare a Esteban Chaves senza quel sorriso fa quasi strano perché il suo è un sorriso che sembra restare anche quando fatica, quando si commuove, quando non ce la fa più. Quasi un negativo di una foto, qualcosa che in controluce traspare sempre. Anche in questi giorni in cui, già fuori dalla lotta per la classifica generale, dopo aver lavorato, dopo aver preparato la corsa, far fatica sembra senza un fine, se non quello di immagazzinarla, di assorbirla, di farsene parte. Una prospettiva difficile.
Qui la leggerezza diventa davvero difficilmente sostenibile; da vivere e da trasmettere. Eppur ancora c'è, eppure ancora sorride quando può. Quel sorriso è in realtà un modo di prendere le cose, una filosofia semplice e profonda. Un fanciullino di Pascoli, qualcosa di primordiale. Primordiale, all'origine come sognare di vincere una grande corsa a tappe: così puro, così grande sognano i bambini. Gli adulti ridimensionano, talvolta nascondono quando il sogno è troppo grande. Chaves, per i sogni, è restato il bambino che era e lo ammette.
Anche se ora ha paura. Non tanto di non vincere: un ciclista sa che perdere è molto più facile, molto più probabile. Ha paura di deludere la squadra, le persone che lavorano con lui, che credono in lui. Ha paura perché sente di non poter dare quello che ci si aspetta da lui. Qui la leggerezza diventa pesante, diventa difficile. Perché anche vedere quella festa sulle strade può fare male quando non sai perché le gambe non girano, quando non ti riconosci.
Restare Esteban Chaves, restare un colibrì, che fatica a planare, ma pur sempre un colibrì, era la prova decisiva, l'ostacolo da affrontare ancora una volta. "È la vita da atleta, da professionista" ha detto Chaves. È la vita, direbbe chiunque. Chaves ci sta riuscendo.
La misura di ciò in cui crediamo è nei giorni in cui quel qualcosa, pur potendo svanire, resta. Perché lo abbiamo voluto, non solo perché è capitato. Questa è la forza: Chaves che continua a sorridere e pensa a quando quella bicicletta lo farà nuovamente felice. Davanti a tutti.