Il richiamo delle cime
C’è stato un momento, sulla Croix de Coeur, in cui il nostro sguardo ha incrociato quello di Thibaut Pinot. Anzi, per la precisione, noi fissavamo gli occhi, nascosti dagli occhiali, di Pinot, mentre Pinot guardava altrove. Proprio questo altrove è il punto: nel mezzo dello sforzo, il francese è riuscito a guardare il paesaggio. Non quello verso l’alto, quello che si fissa per capire quanto manca al Gran Premio della Montagna, quello verso il basso e non verso il gruppo che insegue, verso il vuoto, verso la valle. Pochi istanti, certo, ma importanti. Abbiamo pensato a una sorta di richiamo della montagna. Che, se volete, può anche essere naturale per un ciclista con le caratteristiche di Pinot. Ma questo richiamo della montagna non finisce lì, non si esaurisce nel gesto atletico.
Il richiamo delle vette è in quella sorta di attrazione che si sviluppa tra un essere umano e la montagna. Un’attrazione che si potrebbe assimilare a una calamita, perché c’è qualcosa di magnetico e irrazionale in un ciclista che scala: la sua posizione in sella, la sua continua proiezione verso l’alto, certamente pure gli occhi che vanno oltre, che sono sempre un metro avanti rispetto alla pedalata che si sta compiendo. Ma di richiami ce ne sono molti, almeno in astratto, quelli che contano sono quelli che sentiamo e che assecondiamo. In quello sguardo di Pinot verso la valle c’è il suo ascolto di questo richiamo.
Poi Thibaut Pinot fa il ciclista di mestiere e quell’ascolto lo declina su una bicicletta. In ogni scatto che oggi ha fatto Pinot, forse troppi, forse anche sbagliati, visto poi il risultato di tappa, c’era quel richiamo. In ogni volta in cui si è alzato sui pedali ed ha cercato di allontanare Cepeda e Rubio, c’era quel richiamo. Pure quando sbuffava, innervosito dall’atteggiamento di Cepeda, Pinot avvertiva quel richiamo. In ogni movimento, nel dinamismo di uno scalatore e, nella fattispecie di Pinot, si risentiva quella voce delle vette che, probabilmente, richiama così perché assomiglia agli esseri umani e tutti, anche chi in montagna non ci va, anche chi parla della malinconia delle montagne, la sentono.
Cime innevate, a riposo, come gli uomini che ne hanno passate tante e hanno bisogno di un inverno in solitudine per tornare. Thibaut Pinot è stato questo. Cime in piena luce, più vicine al sole, in cui il caldo è più caldo ed fresco è più fresco. Anche questo è stato Pinot. Cime tempestose, tormentate, che attraggono e respingono, che si amano e si odiano. Queste sono le cime che non si lasciano mai, a cui si appartiene sempre, perché è l’essere vetta, è l’essere montagna, è l’essere uomini a esporre a queste tormente. Pure in giorni in cui si fa come ha fatto Pinot oggi, in cui il desiderio ed il talento sono più che mai la chiave per salvarsi e salvare, ma non basta.
In quei giorni in cui, poi, capita che manchi la forza all’ultimo, che si sia secondi con una smorfia, dietro ad Einer Rubio, che oggi sembra l’unico ad aver davvero fatto tutto giusto, tutto perfetto. Capita poi che si vesta la maglia azzurra, che tanto si desiderava, con negli occhi una nostalgia primitiva, una cima tempestosa, anche se c’è luce sopra Crans Montana, perché quel richiamo non si è colmato, perché qualcosa è sfuggito. Probabilmente è proprio quel qualcosa che manca sempre a un essere umano, a far venire voglia di guardare la valle, per qualche istante. Pure nella fatica di uno scatto appena partiti, in una tappa accorciata, che inizia già arrampicandosi sulle strade strette delle vette, col respiro a tratti più stretto di quelle vie. Dall’alto si cerca la completezza.
Nel gruppo non è accaduto molto, Damiano Caruso ha acceso una fiamma, all’ultimo. Si è parlato tanto della tappa accorciata, questo sì e ognuno avrà la propria idea. Ma c’è stato un momento, sulla Croix de Coeur, in cui il nostro sguardo ha incrociato quello di Thibaut Pinot, intento a guardare la valle, per una frazione di secondo, nel pieno dello sforzo. E questo è molto, molto di più.
Il nome del Giro
Nelle "Postille a Il Nome della Rosa", uscite in un’edizione successiva del romanzo e divenute tanto celebri quanto il libro stesso, Umberto Eco rivela tante cose sulla creazione del suo capolavoro. Tra tutte, ogni volta mi colpisce il singolo motivo scatenante, uno solo, per la realizzazione del libro: «Avevo voglia di avvelenare un monaco». È una frase di una semplicità disarmante se messa a confronto con la complessità del libro e i vari livelli di lettura cui si presta: proprio questa discrepanza tra il nocciolo della questione e il risultato finale mi pare la caratteristica fondamentale delle corse a tappe di tre settimane.
La Bra-Rivoli è stata, per fare un paragone piemontese, l’impasto di cacao e zucchero che avvolge la Tonda gentile: molto buona e gradevole, ma non del tutto cruciale, perché ciò che vuoi addentare sta al centro. «Il resto», dice sempre Eco nelle Postille, «è polpa che si aggiunge strada facendo». E così la corsa è transitata ai piedi di un luogo echiano come la Sacra di San Michele, ma gli uomini da classifica generale, temendo forse il veleno sugli angoli delle pagine, non hanno voluto aprire il libro della guerra.
Oggi, forse, una sbirciata al finale del romanzo riusciremo a darla. Per la verità, non è ancora successo che uno dei contendenti al podio finale sia uscito di scena per hybris, per voglia di conoscere il contenuto misterioso non di un libro rarissimo ma delle proprie gambe. Alcuni sono usciti di scena causa malattia (Evenepoel, Vlasov, Uran), altri per sciagure di varia entità (Geoghegan Hart, Vine): tanti vorranno tenere le proprie carte in mano, giocare sulla difensiva, cercare di rimanere fuori dai guai. Come insegna il Nome della Rosa, non è sempre la strategia corretta.