L'arrivo

L'ammiraglia della Bahrain-Victorious, con alla guida Franco Pellizotti, che si affianca a Santiago Buitrago, mentre il colombiano già vede Derek Gee, a pochi metri, porta un messaggio ben preciso: salire del proprio passo, tenere Gee di riferimento, lasciare da parte la foga, la voglia spropositata di essere da solo, in testa, il sogno degli scalatori. Pellizotti potrebbe dirlo anche all'auricolare, probabilmente l'avrà anche fatto, ma, così, da un finestrino aperto, dalla voce che deve sforzarsi per arrivare, è diverso: basta uno sguardo e ad entrambi è chiaro quanto si creda a quello che si sta dicendo o facendo. Ci hanno sempre detto che un direttore sportivo è sincero a tutti i costi, perché il corridore sa, capisce quando le parole sono di circostanza. Quel finestrino è uno squarcio sulla realtà di entrambi, sullo sfondo le Tre Cime di Lavaredo.

Se Santiago Buitrago, su un tornante, riesce a riprendere Gee e sul tornante successivo riesce a sorpassarlo, se Santiago Buitrago riesce a vincere la sua seconda tappa al Giro, dopo quella dell'anno scorso, è per un insieme di motivi, la capacità di tenere il proprio passo, però, è uno di questi. Ma il proprio passo non è solo il proprio ritmo, quello di Buitrago, è anche la propria predisposizione, quell'idea che si infila nella mente e insiste: «Fai così!». Pensiamo allo scatto di Ben Healy, con una fuga già avviata, a circa cinque minuti, per conquistare punti per la maglia azzurra della classifica scalatori. Pensiamo a Thibaut Pinot che si riporta sotto, al gruppo che reagisce temendo l'insidia Pinot in classifica generale, a chi, come Healy viene ripreso, gli dice qualcosa, scherza, ride. Al fatto che, dopo poco, Healy ci riprovi.

Sono comprensibili le reazioni del gruppo, certamente. Come lo scatto di Healy tatticamente è difficilmente comprensibile, con queste modalità. Eppure, non vi ha appassionato? Non vi ha fatto restare lì, con curiosità, con interesse. Magari sorridevate pure voi oppure vi chiedevate cosa stesse facendo, ma, con quello scatto, Healy è arrivato. Non al Gran Premio della Montagna, ma a chi guardava. Quello è, forse, il suo passo, la sua idea.

Derek Gee, con oggi, totalizza il suo quarto secondo posto in una tappa. Quello che crediamo in molti abbiano provato, quando Buitrago lo ha superato, quel dispiacere, quell'immedesimazione, non dipende solo dall'ennesimo secondo posto, dipende da questo suo essere sempre nel vivo dell'azione, questo provare, in preda, quasi, a una visione, a qualcosa che è talmente chiaro nella sua testa da essere visibile a tutti, pur se non si è ancora realizzato. Anche Gee è arrivato, non primo, secondo, ma Gee è arrivato soprattutto a chi guardava. Come Warbasse, e ci piacerebbe leggere qualcosa scritto da lui su una giornata come questa, alle Tre Cime di Lavaredo, come Cort Nielsen, come Hepburn, come tutti coloro che hanno fatto qualcosa che la ragione, probabilmente, non avrebbe suggerito. Eppure l'hanno fatto e, quando si manifesta il proprio passo, la propria indole, qualcosa, dall'altra parte, arriva sempre. Perché quella fatica non è imitabile, perché è unica.

Mentre tutte le biciclette dei tifosi, appoggiate alle rocce, parevano altri spettatori, parevano proteggere le montagne, come una rete, qualcosa che tiene unito e vicino, Roglič, Almeida e Thomas si sono affrontati con sottigliezza, in equilibrio sull'abisso tra il guadagnare e il perdere. Forse anche con un pensiero a domani, al Lussari. Roglič guadagna tre secondi su Thomas, Almeida ne perde rispettivamente venti e ventitrè. Il loro passo, la loro indole, non può disgiungersi da quel traguardo che, giorno dopo giorno, è sempre più vicino: Roma, il Giro d'Italia. Anche per loro è questione di arrivare. Domani, lassù, sul Lussari, resteranno da soli, ognuno con le proprie forze e la propria indole. Più in alto, l'arrivo.


Sembra un bel finale

Sembra, insomma, che il 106° Giro d’Italia sia una questione per tre. Uno tra Joao Almeida, Geraint Thomas e Primož Roglič vincerà, non si scappa. Tre possibili vincitori che, per motivi molto diversi tra loro, sarebbero degli ottimi vincitori: Almeida vivrebbe un battesimo del fuoco, una consacrazione (sempre che questi due sacramenti siano conciliabili); Geraint Thomas diventerebbe il più anziano vincitore del Giro (al momento il record è di Fiorenzo Magni nel ‘55, quasi 35 anni); infine, quanto sarebbe romantico se Primož Roglič riuscisse a ribaltare il Giro (e tutta quanta la sua narrativa) vincendo all’ultima cronometro?

Sembra ieri che ci strappavamo i capelli per le dipartite anzitempo di Evenepoel e Geoghegan Hart. Con loro il Giro sarebbe stato più bello, certo, ma due arrivi in salita della terza settimana - Bondone e Val di Zoldo - hanno riscattato alcune tappe mosce (Gran Sasso e Bergamo), distribuendo le carte per un finale elettrizzante sulle Tre Cime di Lavaredo. Senza accorgermene, ieri ho fotografato tutti e tre: Almeida alla partenza, con un polpaccio marmoreo guizzante fuori dal calzino; Roglič, subito dopo l’arrivo: con la maglietta aperta gli si contano pure le costole; Thomas, in conferenza stampa, poco prima che risponda a una domanda sui biscotti da thé gallesi e che ricordi a tutti di avere «37 anni, dovrei essere in spiaggia anziché qua».

Sembra che dica così, Thomas, per auto-convincersi di avere il cuore leggero. L’altro giorno gli hanno chiesto se conosce la leggenda delle Tre Cime di Lavaredo, un traguardo storico del Giro, dove hanno vinto in passato Merckx (1968) e Nibali (2013, sotto la neve). No, è stata la sua risposta. «Cos’è, la salita finale? Non la conosco, magari guarderò qualcosa su YouTube stasera».

Sembra, insomma, che oggi ci divertiremo.