Sono sempre una ciclista: intervista a Chiara Doni
Era ormai diverso tempo che Chiara Doni aveva deciso: avrebbe voluto diventare una ciclista professionista. Da sempre, il suo lavoro le assorbe ogni istante e Chiara racconta di sentirsi in gabbia, di non essere pronta a passare, in quella gabbia, tutti gli anni di una carriera lavorativa: «Per il mio lavoro ho rinunciato a tanto. Dirò di più: da molto tempo la mia vita è ed è stata solo e soprattutto lavoro. Qualcosa che assorbe ogni attimo della quotidianità e, come sempre, quando accade così, a risentirne è tutto il resto: i rapporti, le relazioni, il tempo libero. Come sostenere questa situazione?».
La boccata d'aria è, per lei, la corsa a piedi, infatti si cimenta spesso nelle mezze maratone, almeno fino a che un problema ad un piede glielo impedisce: dopo dieci chilometri di gara inizia ad accusare dolore e proseguire diventa impossibile. Il caso vuole che, proprio in quel momento, in palestra, cominci a interessarsi di biciclette, di ciclismo: settecento euro per una bici. Un tentativo, un diversivo all'inizio, qualcosa che possa accompagnarla fuori dai pensieri: «Si dice "pannolati", giusto? Ecco, i miei primi giri in bicicletta erano proprio assieme ad un gruppo di "pannolatissimi", non sto esagerando. Però stavo bene, mi divertivo. Uscivamo al mattino alle sette, sette e mezza, perché, per mezzogiorno, le loro mogli li volevano a tavola, a pranzo. Se tardavamo, ricordo che iniziavano a squillare i cellulari: "Dove siete? Quando arrivate?". Era il segnale che bisognava pedalare per non tardare troppo». Chiara Doni non pensava ad altro, però, nei suoi giri, accumulava coppette su Strava e questo qualcosa doveva pur voler dire.
«Non mi sono mai sentita abbastanza, non mi sono mai piaciuta: è valso per ogni campo della mia vita. Riconoscersi brava in qualcosa, o, ancora di più, molto brava non era per me. Si tratta di una forma di insicurezza che non so da dove origini, con cui però bisogna convivere ed io a conviverci ho imparato, tra alti e bassi. Tra le cose che mi permettono di conviverci c'è lo sport. Vogliamo parlare della bicicletta? Parliamo della bicicletta: l'insicurezza c'è ed è tanta fino a che non agganci il pedale e parti, dopo sparisce, ed è bellissimo liberarsene per chi se la porta sempre addosso». Talmente è tanta l'insicurezza che, alcune volte, si sceglie anche di non andare, di non partire: a Chiara Doni è successo così per la Maratona delle Dolomiti, che pur aveva atteso, aveva voluto. Niente, non è riuscita ad affrontarla: il timore e l'insicurezza l'hanno bloccata. Non è partita. Racconta Chiara del momento in cui quei dubbi svaniscono, in cui si prende consapevolezza, e questo ci porta dritti alla Zwift Academy che Doni ha frequentato, arrivando alla fase finale. «Il momento in cui attacchi e resti da sola: ti volti e non c'è nessuno. Quello è lo snodo di ogni cosa. Alla Zwift Academy, in salita, mi è successo e quella salita me la sono goduta: affaticata, ma serena, tranquilla. Qualcuno ha ritenuto che non fossi la migliore, che non dovessi vincere io e va bene così. Chissà se le cose fossero andate diversamente. Di sicuro quello che è accaduto lì, mi ha convinto del fatto che i numeri li ho».
Ed allora si torna all'inizio, ve l'avevamo già detto: Chiara Doni aveva deciso che avrebbe voluto diventare una ciclista professionista. Al suo fianco c'è Luca Vergallito, dapprima coach, poi compagno. Vergallito analizza i numeri, le prestazioni, con il distacco e l'oggettività necessaria per confermare che quella possibilità c'è, che, se vuole, può provarci, deve provarci. Doni non lo dice in casa, in famiglia. A saperlo, all'ultimo, sarà suo padre: «Mi ha detto che stavo facendo una follia: mollare il lavoro che avevo scelto, a trentotto anni, dopo essermi affermata, era una sciocchezza. Soprattutto era assurdo farlo senza avere alcuna certezza. Sono sincera, quel discorso me l'aspettavo, forse anche per questo avevo aspettato a parlarne. Lo capisco bene, alla luce dell'affetto che un genitore ha per i figli. Ma non lo condivido, non ci riesco. Forse il mio lavoro non l'ho nemmeno scelto desiderandolo veramente, forse l'ho scelto perché le circostanze, l'ambiente che vivevo, mi hanno convinto che fosse giusto così. In ogni caso, perché non dovrebbe esserci la possibilità di cambiare? Soprattutto: perché questa possibilità deve essere preclusa solo per l'età, per i miei trentotto anni?». Il ragionamento non finisce qui: Doni è perfettamente consapevole dei rischi di una scelta del genere, sa che, a trentotto anni, si possono avere due, tre, quattro anni nel professionismo, poi bisogna smettere. Ha già pensato ad un percorso, un progetto strutturato, che parta dalla sua laurea in biologia, dalla specializzazione in tossicologia, e, attraverso un master all'estero, le permetta di lavorare nel mondo del ciclismo anche al termine del professionismo. Un progetto che le permetta di leggere, di studiare, cosa che ora non riesce a fare perché passa già tutto il giorno sulle pagine ed a sera è stanchissima. Un progetto che, però, probabilmente, non viene capito.
L'età, i trentotto anni, sono uno dei punti a cui chi l'ha criticata si è aggrappato spesso: «In alcuni casi, mi hanno fatto sentire davvero vecchia. I commenti sulla mia età si sono susseguiti per mesi. Ripeto: perché a trentotto anni non si deve poter credere di cambiare, di farcela? A qualsiasi età ci si può evolvere». A fine luglio, la telefonata che aspettava, mentre sta pedalando sulla Forcola: Jayco AlUla le propone di correre, come stagista, il Giro dell'Emilia e la Tre Valli Varesine. All'inizio piange per la felicità, poi la tensione, la preoccupazione, tutto quello che c'è da fare ed i conti con le aspettative che chi propone una possibilità di questo tipo legittimamente nutre, ma anche con le proprie aspettative. Si tratta di un qualcosa che la prende completamente per settimane e si placa solo quando incontra la squadra: «Se avessi potuto scegliere, per la preoccupazione che avevo e per la solita insicurezza, non sarei partita nemmeno questa volta, come per la Maratona delle Dolomiti, non potevo, così ho corso». La difficoltà maggiore è nello stare in gruppo: ci sono spallate, spinte e Doni si sposta appena qualche atleta vuole farsi strada in mezzo al plotone: «Letizia Paternoster mi ha fatto da mamma, mi ha aiutato a mettere il numero, mi ha spiegato che dovevo provare a tenere la posizione e che una ciclista non cede mai il posto che ha conquistato. Poi arriva la fatica ed a me la fatica piace, entusiasma cercare il miglioramento, mettermi alla prova». La gara termina, Chiara arriva sessantasettesima e le voci della gente si fanno sentire : «Motorone, motorone e poi arriva oltre il sessantesimo posto?».
Cita questa, ma ce ne sono molte altre a cui si sforza di non pensare: «Sanno che sono caduta? Che la mia bici non frenava? Ho fatto tutta la gara con l'angoscia di andare addosso a qualcuno, di provocare una caduta. A San Luca non funzionava il cambio, mi è scesa la catena, un signore ha cercato di aiutarmi ma c'era poco da fare. Sono ripartita con la bici di scorta, anche se, a quel punto, avrei potuto tranquillamente ritirarmi, non l'ho fatto, perché non volevo un DNF nella mia prima e forse unica volta al Giro dell'Emilia, e, nonostante i crampi, sono andata a riprendere atlete che mi avevano superato. Questo chi critica non lo sa. Purtroppo c'è ignoranza, non ci si rende conto di quanto possa far male un giudizio non pesato, molte persone, poi, parlano per frustrazione personale. Credo che si debba davvero dare retta a poche persone: ascoltare tutti, ma capire quali parole fare proprie e quali invece ci avvelenano. Noi affidiamo tutto ai social, ma le persone non sono come appaiono su Instagram, quello è, di fatto, un modo per nascondersi».
Chiara Doni si chiede cosa avrebbe potuto dire oggi, se quelle gare fossero andate diversamente, se avesse avuto tra le mani quel contratto che invece non avrà. Parla di due ferite, la Zwift Academy e questa avventura, ferite che, come sempre, sono andate ad incidere nei sogni, nelle cose a cui più si è legati. Ferite che, spesso, sono connesse a quel che si è, a quel che si fa: «In discesa, qualche volta ho pensato di lasciare andare di più i freni, ma, proprio in quell'istante, mi veniva in mente il mio lavoro, il fatto che, se fossi caduta facendomi male, sarebbe stato un problema ed il giorno dopo mi aspettavano in ufficio. Non posso negarlo, nella mia testa c'era anche questo». Ma, nonostante le ferite, la bicicletta resta importante nella quotidianità di Chiara ed in quel mondo continua a credere ci sia un posto anche per lei, senza farsi spaventare eccessivamente dalle paure, perché, altrimenti, non varrebbe la pena esserci, avere la possibilità di fare, di impegnarsi. Questo è il punto e Chiara Doni lo racconta con convinzione, mentre ci saluta: «Sono insicura, ma ho imparato a battermi per le cose in cui credo, per far sentire la mia voce e spronare chi ha un dono, un talento, a non lasciare perdere. La storia di Luca Vergallito la conosciamo tutti».
Gialdini Sport, Brescia
Non appena qualcuno, passando da via Triumplina 45, a Brescia, scorge la vetrina di Gialdini e varca l'ingresso, dopo essersi guardato bene intorno, una fra le prime domande che pone, a Paolo Gialdini, a Matteo, il fratello maggiore che segue l’amministrazione, oppure agli altri ragazzi che lavorano in negozio, è tanto semplice quanto dalle radici profonde. Magari accanto ad una bicicletta oppure ad un'attrezzatura da bikepacking, da sci, mentre si chiacchiera di percorsi e avventure, di materiali e di dettagli, ecco l'interrogativo: «Ma tu l'hai provato? Tu l'hai fatto? Ci sei stato?». Vale per qualunque cosa, è una sorta di testimonianza diretta che viene richiesta a chi sta affidando una bici oppure il consiglio di un viaggio, quasi un punto d'appoggio per la fiducia che si cerca di instaurare mentre si conversa: «Non è così strano, in fondo. Succede anche quando ci si incontra tra amici; qualcuno propone qualcosa e l'istinto umano è di trovare un appiglio, una certezza, per potersi fidare e, semmai, sperimentare la proposta. A me pare, anzi, molto bello perché è come se la persona con cui stai dialogando dicesse: "Mi fido della tua impressione, delle tue sensazioni". E, se fra amici è cosa normale, quando non ci si conosce, è fatto raro. Il punto è provare a non deludere quella aspettativa: per farlo è necessario mettersi in gioco in prima persona, conoscere nei dettagli ciò di cui si racconta. In una parola: provare, essere dentro quel che si racconta». La lezione di Paolo viene da suo padre ed è una di quelle lezioni tanto forti perchè non trasmesse solo a parole, ma legate ad un modo di essere e di fare. Potremmo anche dire che la lezione venga da lontano, nel senso sia cronologico che spaziale. Due coordinate: Africa, 1978.
L'anno è quello in cui il padre scopre l'Africa: inizia a studiarla, a conoscerla, ne resta affascinato, ne parla spesso, a casa e con i conoscenti, sogna, spera, pensa, ipotizza e progetta di andarci. Il crescendo rossiniano dei verbi è lo stesso delle azioni, l'idea si fa sempre più concreta: viene allestito un camper, con tutto quello che può servire e non resta che partire, per toccare con mano ciò che la mente aveva esplorato da tempo. Già, ma l'Africa è lontana e le comunicazioni sono quasi impossibili con Brescia: si fa ponte a Napoli e da lì al capoluogo lombardo. Arriva dicembre, per due settimane c'è solo silenzio: nessuna notizia, nessun contatto. Un quotidiano locale, una mattina, titola: "Bresciani dispersi nel deserto". A casa si ha paura: è l'ansia, è il panico. Per fortuna sarà un falso allarme: papà Gialdini tornerà a Brescia, entusiasta del viaggio, innamorato dell'Africa, contento dell'esperienza vissuta. «La sua prima riflessione era stata: "E se questo entusiasmo potessero viverlo anche molti altri? Alla fine, non serve molto, forse potremmo provare a mettere a disposizione delle persone che passano da qui quel che serve, in modo che quel desiderio, magari nascosto dalla quotidianità e dall'apparente impossibilità del viaggio, possa diventare realtà". Detto, fatto. Attraverso l'allestimento di furgoni e camper per il deserto, ha cercato di trasmettere ai suoi clienti quel che aveva vissuto in quei giorni». Il negozio Gialdini esiste dal lontanissimo 1860, inizialmente come bulloneria e ferramenta, ma da quel 1978 comincia il cambiamento: abbiamo parlato di attrezzature per camper e furgoni, verrà, poi, la passione per la speleologia, le gite in montagna e quell'amico che gli parla dell'outdoor. Gran parte di quel che il signor Gialdini conosce arriva in negozio e si migliora di anno in anno, un luogo di condivisione di idee e progetti. Tanti sipari che si aprono in quello spazio: il running, il trekking, l'outdoor, lo sci, lo scialpinismo, l'alpinismo, il camping. Paolo Gialdini cresce in questa atmosfera.
Praticamente di fronte a casa, c'è il Monte Maddalena e sono tanti i giorni che trascorre in montagna: fa snowboard alle Deux Alpes, inverni su inverni a Madonna di Campiglio, linee in free ride, alla ricerca costante dell'adrenalina, di qualcosa di estremo che gli resti addosso. Nel frattempo passano gli anni, la vita cambia, gli incontri si succedono: è il portellone aperto di un furgone a fargli scoprire più da vicino la bicicletta. In quel furgone ce ne sono diverse e un dipendente gliene parla, proposta e prova, come succede con le scoperte. Giù dalla montagna in bicicletta: dapprima il cross country, successivamente una bicicletta che si rompe, proprio in discesa, è il pretesto per sperimentare il downhill, fino al 2014, all'interesse per la mountain bike e per i viaggi, poi, per il gravel. «Ho compreso ben presto che la bicicletta rappresentava un insieme di cose che già facevano parte della mia quotidianità, era solo il momento di cambiargli forma, modo di manifestarsi, ma di fatto non cambiava molto, non si perdeva nulla, semmai, anzi si aggiungeva qualcosa. Una bicicletta è la fatica della salita, dello spostamento, solo con le proprie energie, è l'adrenalina della discesa, ma anche la scoperta continua del viaggio, di pochi metri, come di centinaia di chilometri». Paolo Gialdini lascia la montagna, anzi, lascia un certo modo di viverla e continua a esplorarla attraverso la bicicletta, con cui ricerca sentieri nuovi e nuove sensazioni. Il legame padre-figlio, in questa storia come in molte altre, si manifesta in vari fatti, per esempio nella stessa modalità di rielaborare ciò che capita e di raccontarlo, di metterlo a disposizione. Si arriva così ad un nuovo sipario in negozio, uno spazio che già esisteva, ma che si amplia, quello legato al mondo bici, al mondo viaggi e avventure pedalate, al vento in faccia e all'acido lattico nelle gambe. «Ho portato la bicicletta nel mio lavoro o, forse, lei stessa si è intrufolata in quel che facevo. Ne sono grato perché non capita a tutti di poter lavorare attraverso una passione, un divertimento. Fosse una persona la ringrazierei, con una bicicletta è più complesso e il modo per dire grazie è farne parte della quotidianità, viverla il più possibile. Non a caso sono particolarmente fiero della polvere, del fango e dei graffi, dei segni, sulla mia gravel. Ne sono orgoglioso perché significa che abbiamo fatto tante cose assieme, che ho passato tempo, ore, in bici. Così li guardo e mi sento fiero».
Quell'angolo del negozio, che Paolo cura personalmente, racconta anche un'altra sfaccettatura delle giornate di Gialdini e di chiunque: «Si parla spesso di libertà, parlando di biciclette e di ciclismo, quell'angolo è il mio angolo di libertà. Durante le nostre giornate, siamo spesso costretti a fare ciò che ci viene richiesto, dalle esigenze o dalle volontà di altri: lì decido io, scelgo, invento, provo, riprovo». Dicevamo che la bicicletta era già tema del negozio e qui torna il signor Gialdini, il padre di Paolo, «quel veggente», come lo descrive il figlio, che già vent'anni fa, in un viaggio in Europa, in Germania, vide le prime borse da bikepacking e pensò di portarle in negozio, perché le persone cercavano quelle borse, le volevano, ne avevano bisogno. Una veduta ampia, come quella che si gode appena si entra da Gialdini: una metratura decisamente importante e l'occhio si perde tra tutto quello che è esposto, che si può cercare, tra tutto quello che «possiamo dare». La citazione è sempre di Paolo: quel poter dare rende bene l'idea dell'interpretazione di un mestiere. Come quando, pochi minuti dopo, aggiunge, con entusiasmo genuino: «Tempo fa, sono passato da Scavezzon, a Mirano. Stavamo parlando d'altro, quando mi ha detto: "Ah sì, conosco Gialdini". Parlava di mio padre. Mi sono sentito grato e mi sono tornate in mente molte cose».
Si riferisce ai viaggi di papà, in cui, ogni volta, cercava qualcosa di nuovo, qualcosa che potesse migliorare ciò che già c'era. Ripensa alla curiosità con cui il signor Gialdini si guardava e si guarda attorno, provando a cogliere i dettagli delle cose, anche ora che, con internet, è molto più difficile innovare, ma non importa, suo padre continua a farlo ed a Paolo ed al fratello ha insegnato a orientarsi così tra le cose con cui hanno a che fare, che è poi, aggiunge Paolo, l'unico modo in cui è possibile svolgere questo tipo lavoro, provando a dar corpo ad una visione.
L'altra caratteristica fondamentale è l'ospitalità: «Si declina nel tentativo di far sentire a casa, in un luogo sicuro, protetto, chi viene a trovarti, per lasciare un buon ricordo, perché è solo così che si sceglie di far ritorno. Non solo: per il rispetto che si deve a chi decide di fidarsi. Chi acquista deve poter chiedere informazioni, tutte quelle che vuole e deve trovare qualcuno preparato, che risponda in maniera minuziosa, mettendo sul tavolo non solo la propria competenza ma anche la propria esperienza personale, cosa che spesso la grande distribuzione, quella legata ad internet, non può fare. Noi crediamo nel presentarci con nome e cognome, nel bere un caffè assieme, nel creare un rapporto basato su comprensione delle esigenze ed empatia. La curiosità, di cui parlava mio padre, non è fondamentale solo per le biciclette, anche per le persone. Devi avere voglia di conoscerle, di capirle». Tutt'attorno, alle biciclette ed alle parole, le immagini del viaggio di Ettore Campana, Scalo Sogni, quello di Willy Mulonia, che proprio qui si è rifornito per il suo viaggio in Patagonia, in Alaska, ed è diventato un amico, le foto delle montagne bresciane e quelle di un cliente che è andato in Nepal, per aiutare i bambini. A tratti una sorta di museo, immerso in aria di montagna.
Chi lavora qui conosce perfettamente i sentieri della zona, è in grado di segnalare ogni minimo cambiamento, ogni rischio, ma anche ogni vista mozzafiato ed ogni posto in cui riposarsi, asciugarsi il sudore o bere un sorso di acqua fresca: una goduria, in certe circostanze. L'attenzione, la cura, non termina nel momento della vendita, prosegue, in un filo temporale senza soluzione di continuità, in cui la dedizione è la parola chiave: «Non sto esagerando, l'idea è quella di immedesimarsi nel cliente. Scegliamo quel che è giusto fare, oppure che è meglio fare, come se la bicicletta fosse la nostra, come l'avventura fosse la nostra. Lo avvertiamo come un dovere. Ovviamente si può scegliere diversamente, anche il contrario di quel che indichiamo, però è giusto agire così, un fatto di coscienza».
I ciclisti che arrivano da Gialdini sono i più disparati, caratteristiche, biciclette e modi di viverle completamente diversi. Brescia, il posto felice di Paolo, la città in cui giravano le prime bici gravel, riesce a unirli tutti, sarà per la varietà del territorio, che spazia dal centro, al lago, alla base delle montagne, alle salite, sempre differenti, quelle che permettono di fare 1500 metri di dislivello in pausa pranzo e tornare al lavoro rinfrancati, un giorno con la bici da strada, con la gravel, anche con la mountain bike, divertendosi. Magari passando da Gialdini, per due chiacchiere o per chiedere qualcosa e progettare una nuova gita.
Foto: Paolo Penni Martelli
Voglio essere il migliore
Lo sguardo è come un marchio di fabbrica che ci identifica, caratterizza, lo portiamo avanti sin dal primo sviluppo. Se vediamo una foto che ci ritrae, magari di quando eravamo bambini, faremmo fatica a riconoscerci, se non per lo sguardo. Il suo sguardo resta sempre quello: ti scruta come se la tua anima fosse una porta accessibile a tutti e lui cercasse di entrarci educatamente, bussando e chiedendo permesso. Occhi grandi, la voce bassa, ma chiara. Tono deciso. I risultati, contassero qualcosa in questa vicenda, non sono più gli stessi. Il tempo è passato e non ha cancellato niente, semmai ha amplificato. Potrebbe essere una questione di numeri, date e dati: sono passati oltre seicento giorni da quell’incidente, qualcosa che chiunque fatica a cancellare dalla propria mente, tifosi, semplici osservatori, qualcosa che a Eganito ha scosso l’anima, rischiato di menomare il fisico, gli ha lasciato cicatrici indelebili, ha diviso la sua carriera in due - per il momento, diviso, capiremo se è stata definitivamente spezzata quel giorno lì, quando Bernal è finito contro un pullman mentre si allenava e ha rischiato di morire. Ne sono passati quasi un migliaio da quel 30 maggio 2021, quando salì in maglia rosa sul podio finale a Milano.
Prese il simbolo del primato a Campo Felice, con un’accelerazione nel finale che sarebbe potuta essere un’arma da mostrare in quelle sfide che ci siamo immaginati chiudendo gli occhi, contro Roglič o Pogačar, o gente di quel livello. Prese la maglia Rosa e la portò fino all’ultimo giorno. Rischiò, ma si salvò, Martinez fu il suo compagno più fedele, Caruso e Simon Yates i nemici più temibili. Due stagioni prima vinse il Tour de France e ci si chiedeva quella volta se la sua sarebbe stata la prima di una lunga serie di vittorie in terra di Francia. Conoscevamo già le qualità dei suoi avversari e già si pregustava una serie di sfide che avrebbero visto coinvolto anche lo scalatore colombiano.
La sua storia è nota ed è così classica, intrisa di quel realismo magico che solo la Colombia può e affascina senza diventare (troppo) retorico, è una storia di famiglia umile, anzi povera, di una nascita turbolenta, di un’adolescenza passata a lavorare, di un talento in bicicletta che gli permette il salto in Europa. Di un talento in bicicletta che gli permette di passare in poco tempo in una delle squadre più forti al mondo. Di un talento in bicicletta che gli permette di vincere il Tour e il Giro in un paio di anni. Poi quel maledetto gennaio 2022 che un anno dopo diventa una ricorrenza: «Ho ricevuto gli auguri come fosse stato il mio secondo compleanno», raccontava a Tuttobici tempo fa, «ma d’altra parte è una data importante per me: sarei potuto morire oppure restare per sempre su una sedia a rotelle». E quindi non ci stupiamo se quel corridore che in salita andava così forte abbia iniziato a far fatica a tenere le ruote dei migliori in un ciclismo che corre alla velocità della luce; in un ciclismo che è saltato su un piano temporale differente come fosse sceneggiato da Nolan, ma trasmesso sullo schermo senza quell’audio fastidioso tipico dei suoi film: c’è la vita di Bernal in bicicletta che ha iniziato a scorrere lenta, c’è quella del professionismo che viaggia a una velocità interstellare. «Dal 2005 a oggi», racconta per esempio Pozzovivo, «sembrano passati 40 anni».
Bernal è riuscito a risalire in sella in una situazione in cui «i medici mi dicevano che difficilmente avrei potuto di nuovo riprendere in mano la mia vita da corridore». Ha corso un Tour e una Vuelta nelle retrovie, salvandosi, cercando di incrementare un tanto alla volta, giorno per giorno, le sue prestazioni. L’idea, però, su cui si basa la sua storia, è che il peggio sia alle spalle, non solo quello fisico, ma quello emotivo. Un’idea maturata pensando agli insegnamenti dei giorni della convalescenza: «Potrà sembrare strano, ma il 2022 è forse stato uno dei migliori anni della mia vita».
Non importa se il sogno di una tripla corona: («Dopo il Tour e il Giro vorrei vincere la Vuelta») si sia infranto, e chi scrive pensa che mai più potrà realizzarsi. «Penso che vincere una tripla corona sia più importante che vincere di nuovo il Tour» - diceva poco dopo la vittoria al Giro. E oggi, dopo aver provato sulla sua pelle, nel vero senso della parola, un momento di crisi quasi definitiva, senza margini, Egan Bernal la pensa diversamente. L’incidente ha messo in prospettiva le cose: «Ha annullato tutto, mi ha costretto ad aver pazienza, mi ha insegnato che la famiglia è ciò che conta di più in assoluto. Siamo tutti umani, ci può succedere qualunque cosa», raccontava, sempre in esclusiva a Tuttobici. «Ormai non mi chiederò più se riuscirò a vincere ancora un altro Tour de France» la chiave di tutto, ma, come vedremo in seguito, con un asterisco.
Poche settimane fa, Bernal ha partecipato a un criterium in Giappone, ha raccontato di quanto fosse stanco dalla stagione, ha ricordato i giorni dell’incidente, spiegando di sentirsi un miracolato: «Sono felice di essere vivo: il modo in cui sono sopravvissuto non è normale. Nel ciclismo pensiamo sempre a essere i numeri uno e a vincere il Tour de France, ma è chiacchiericcio. Quando ti rendi conto che sei, come dire, una persona normale e puoi morire, e ti trovi a letto incapace di muoverti, e tutte queste cose... beh, sì, sono stato fortunato». Ha ricordato quei brutti momenti, come riportato da Sophie Smith su Cyclignews. Il risveglio: «Non pensavo più a essere un ciclista, ma a muovermi, a essere una persona normale», ribaltando il punto di vista: «Credo sia uno dei motivi per cui dopo quell’incidente non ho mai avuto brutti momenti: so quanto sono stato fortunato a sopravvivere».
Dopo 47 giorni da quel grave incidente, Egan ha ripreso - lentamente - ad andare in bici, ha bruciato le tappe schierandosi al via tra agosto e settembre del 2022. Poi la stagione 2023 non è ripresa su passi decisi, bloccato da piccoli malanni fisici, un ginocchio che lo tormenta, i problemi alla schiena che ne hanno sempre limitato le prestazioni. Corre il Tour - dove si vede poco e nulla, perché «andavano tutti a tutta dal primo giorno, me compreso, e dopo una settimana non avevo più un briciolo di energia. Non me la sono goduta». Aggiungendo come non sia certo la miglior gara dove andare a soffrire per ottenere qualcosa. Chiude 36° senza farsi vedere praticamente mai, mentre alla vuelta, schierato qualche settimana dopo, fa 55° ma le cose vanno diversamente: «Ho anche attaccato, non mi sentivo così lontano dai primi».
Col microfono in mano davanti alla platea, Egan Bernal, scruta e ritroviamo il suo sguardo che lo caratterizza, gentile, ma fermo. Non si ferma a dare un'occhiata, ma ci sono anche le parole: dice che fino a quando il suo pensiero sarà quello di sentirsi pronto a tornare al suo livello, continuerà a correre, altrimenti penserà al ritiro. Sono pensieri fatti con la leggerezza che ne contraddistingue(va) la pedalata in salita. Quel pensiero resta, ma non è così fondamentale: vincere la Vuelta e chiudere il cerchio. Perché, nonostante tutto, nonostante abbia smesso di chiedersi se mai vincerà un Tour, «prima voglio dimostrare di poter tornare a essere uno dei migliori al mondo». Altrimenti non importa, lo pensa, lo fa capire con uno sguardo, lo dice: conta esserci ancora dopo quello che è successo.
Foto in evidenza: ASO/Pauline Ballet