Il questionario cicloproustiano di Matteo Donegà

Il tratto principale del tuo carattere?
Non mollare mai.

Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
La qualità che l’uomo deve sempre dimostrare il proprio valore.

Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
La qualità di avere sempre la giusta tranquillità.

Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
La fiducia.

Il tuo peggior difetto?
Testardaggine.

Il tuo hobby o passatempo preferito?
Go Kart e motori.

Cosa sogni per la tua felicità?
Una carriera professionistica di valore nel ciclismo.

Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
La sofferenza della mia famiglia.

Cosa vorresti essere?
Un uomo felice.

In che paese/nazione vorresti vivere?
In Italia.

Il tuo colore preferito?
Nero e Blu.

Il tuo animale preferito?
Leopardo.

Il tuo scrittore preferito?
Giacomo Leopardi.

Il tuo film preferito?
Rocky.

Il tuo musicista o gruppo preferito?
Linkin Park.

Il tuo corridore preferito?
Cavendish.

Un eroe nella tua vita reale?
Mio padre.

Una tua eroina nella vita reale?
Mia madre.

Il tuo nome preferito?
Jason.

Cosa detesti?
Le persone infami e maleducate.

Un personaggio della storia che odi più di tutti?
Hitler.

L’impresa ciclistica che ricordi di più?
Le ultime vittorie di Cavendish al Tour.

Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Giro d’Italia.

Un dono che vorresti avere?
Di ritornare nel passato.

Come ti senti attualmente?
Forte e convinto della strada che sto percorrendo.

Lascia scritto il tuo motto della vita.
Lavora duro e parla poco.


Angelo Furlan: un ex non convenzionale

Era un giorno come un altro, uno di quei giorni in cui i velocisti fanno "la rete", ovvero si ritrovano nel gruppetto che resta in fondo al plotone e arriva al traguardo con minuti e minuti, talvolta mezz'ore, di ritardo. Angelo Furlan era nella rete e, tra gli altri, assieme a lui c'era Mark Cavendish, Campione del Mondo in carica. Proprio "Cannonball" lo affianca ed inizia a parlare:
«Angelo, vorrei proprio essere come te!»
«Ma stai scherzando, Mark?»
«No, no, sono sincero, io vorrei assomigliare a Furlan»
«Sì, dai, piantala! Guarda che maglia hai addosso. Io non l'avrò mai, perché dici queste cose?»
«Vorrei essere allegro e spensierato come te, con la tua stessa grinta»

Di storie simili, in realtà, Angelo Furlan potrebbe raccontarne molte, perché nel gruppetto sono sempre accadute e lui le ha vissute, «dalle strade del Guggenheim Museum di Bilbao, all'arrivo a Parigi, sotto la Tour Eiffel, fino ai confini della Serbia, passando per i rubinetti dorati del Qatar, sino agli anfratti più remoti delle terre in cui pedala il plotone». La bicicletta è diventata il suo punto di vista sul mondo, dagli otto ai sedici anni su una BMX, dai sedici ai trentasei su una bicicletta da corsa: uno sguardo che Furlan assimila ad una forma di arte e che non ha mai voluto perdere, smarrire, in ruoli che non gli corrispondevano. Sarà per questo che si è sempre definito "ciclista non convenzionale", di quel "non convenzionale" convinto, ma educato, come dice lui, lontano da ogni lamentela: «Nel 2005 ho percorso lo Zoncolan con le ruote alte, mi guardavano tutti e dicevano: "Guarda che stupido!". Era una scelta che veniva dal mio passato in BMX, legata alla multidisciplinarietà, quella che piace tanto, anche a me, in Peter Sagan, in Wout van Aert ed in Mathieu van der Poel. Loro arrivano fra i primi, io fra gli ultimi, questa è la differenza sostanziale, per questo la mia pareva una sciocchezza. Non mi sono conformato, ho continuato ad usare quelle ruote, convinto che fosse bello e giusto così, ma non ho nemmeno protestato per il fatto di non essere capito. Ero convinto, ho proseguito in quella strada. Mi piace dirlo ai più giovani, questo è l'essere non convenzionali di cui credo si abbia bisogno. Nel ciclismo e non solo». Un modo di essere in cui ci sono tutte le cicatrici del suo lavoro, «di un potenziale ottimo centometrista che si mette a correre la maratona, non avendone gli strumenti» come ci confessa, e la serenità, la spensieratezza, almeno apparente, che, quel giorno, nel gruppetto gli ha invidiato Cavendish. Entrambe caratteristiche che vengono dalla prima infanzia: i giorni di Natale trascorsi con la famiglia, «tra cugini e parenti vari eravamo più di cinquanta, parlavamo di ciclismo», e la scuola che non gli piaceva, dove i risultati non arrivavano, fino al giorno in cui i suoi genitori l'hanno preso da parte. «La scuola non va, abbiamo capito. Scegli cosa vuoi fare della vita. Il ciclista? E ciclista sia. Ma lì devi andare fino in fondo».

«Se sei velocista sai che il gruppo lo vedrai spesso dalle retrovie. Hai qualche minuto di gloria nelle volate: se vinci, hai fatto il tuo dovere, se non vinci, è perché non ti alleni abbastanza. Trecento giorni di allenamenti per quel minuto e per provare a salvarsi in salita. La cicatrice è quella. La cicatrice è quel morire ogni volta in salita e tirare fuori quel 10% in più per arrivare lo stesso. Un dolore diverso da quello di uno scalatore che non tiene le ruote. Qualcosa che fa parte del tuo destino e che non ti togli più. In gruppo sei quello simpatico, che fa ridere, che tiene compagnia mentre si combatte con il tempo massimo. Ai miei tempi, era così, ora, per fortuna le cose stanno cambiando. La leggerezza è, invece, in quei pranzi e in quelle cene a casa, in quello che hai capito in quei momenti». Allora Furlan si è detto che tutte queste esperienze, queste riflessioni, avrebbero dovuto servire a qualcosa: è nato così "Angelo Furlan 360". Un insieme di attività legate al ciclismo e fuori dagli schemi classici: iniziando dal Lounge a cui si accede attraverso parola chiave e si chiacchiera di ciclismo, passando per la Bike Academy per i più giovani o per la "Danza sui pedali".

Si parte dall'Academy in cui si prova a giocare con la bicicletta in maniera strutturata, creando un patrimonio motorio, imparando le caratteristiche aeree del salto, la capacità di pedalare su un terreno difficile in salita, la coordinazione su pista, la curva su terreno sconnesso, il modo di guidare la bici su ghiaia e così via: «L'idea è di accendere scintille in bambini dai sette ai dodici anni e chissà che qualcuna non possa diventare fuoco e divampare. Quando parlo di multidisciplina, intendo un fatto che vada ad agire sull'aspetto coordinativo, su un patrimonio che resta al ragazzo, non solo su un fatto prestazionale. Tenere i giovani a tutta tutto l'anno, facendo solo cambiare disciplina, guardando solo le prestazioni, rischia, al contrario, di allontanarli definitivamente dallo sport». L'esperienza più comune è quella di una pedalata nel bosco, per riscoprire colori, profumi, odori, sensazioni e riappropriarsene. In una passeggiata simile, suo figlio, post lockdown, gli disse: "Che bel quadro", mentre lui e la madre raccontavano che quella era la realtà: «Fondamentale, necessario, è tornare alla base, alla radice, ed i bambini, anche se la società tende ad allontanarli, riescono a mettere molto bene a fuoco le cose che sorprendono, per poi trasmetterle anche a noi che, spesso, come adulti siamo impegnati in mille faccende e rischiamo di svegliarci una mattina scoprendo che i nostri figli sono cresciuti. La strada è a duecento metri, ma i più piccoli non lo sanno e devono trovare una via per tornare a casa, per andare all'arrivo. La prima fase è il capriccio, poi la disperazione, la rassegnazione e, a quel punto, la fase di crescita. Si affronta il problema, tutti assieme, su una bicicletta». Sempre partendo dall'esempio, dal modo di agire di fronte alla fatica ed alla difficoltà.

Questo è il principio guida nel lavorare con i giovani: un percorso complesso, per cui bisogna prestare ancora più attenzioni: «I volontari servono, sono indispensabili, altrettanto però sono necessari lo studio e la preparazione, perché in quegli istanti si stanno trasmettendo anche importanti basi tecniche, pur nella leggerezza che permette ai ragazzi di assimilare quel che si spiega». Si comprendono così le cicatrici e si affrontano, restano nei ricordi e non vanno sprecate. Angelo Furlan ricorda bene una tappa di una corsa francese, quando l'asma lo colpì in corsa, per la prima volta: iniziava a nevicare, faceva freddo, gli pareva impossibile continuare, il medico gli si stava avvicinando. «Al limite, anche oltre il limite, il cervello innesca le reazioni più strane: la musica, ad esempio. Una musica a caso che ti arriva in testa, una sorta di analgesico naturale, per darti il ritmo che ti manca. Non credo di essere unico, è una reazione che può capitare». Qualche minuto, una mano davanti alla bocca, qualche colpo di tosse e, piano piano, la tosse se ne va. Mezz'ora dopo si lancia in volata: quarto. Ancora una volta salvo da quelle cicatrici. Nella "danza sui pedali" c'è tutto questo.

La musica, inizialmente, è un metodo per fare i rulli, il momento più difficile per un ciclista, quello più noioso, successivamente, Furlan associa alla musica i suoi istanti in sella: la concitazione di una volata, la fatica di una salita, l'adrenalina di una discesa e sui pedali cerca di trasmetterli a chi pedala con lui, in presenza o in collegamento. «La bicicletta è ritmo, il ciclismo è ritmo. All'esterno pare che si stia solo ascoltando musica e pedalando seguendo i miei incitamenti, in realtà è una trasmissione di vissuto, è un lasciapassare delle sensazioni che fa bene alla quotidianità di tutti i giorni. La profondità di certi istanti in sella, a mio avviso, deve servire a traghettare e a tradurre emozioni, di cui conosciamo bene l'intensità. Lì c'è l'arte, dobbiamo provarci almeno».

Per questo, Angelo Furlan confessa che, negli ultimi anni di professionismo non vedeva l'ora di smettere, per confrontarsi con altre realtà, per crescere e conoscere ancora e, magari, mettere a disposizione di chi avesse avuto voglia di ascoltare e pedalare quel che aveva visto in giro per il mondo. Angelo Furlan, sì, quel ciclista non convenzionale


Sartoria Ciclistica, Como

Fra le mura di Sartoria Ciclistica, in via Borgo Vico 54, a Como, l'attimo migliore, il più romantico, è al mattino presto, quando le acque del lago sono placide ed il sole, facendo capolino tra i monti, sparge i primi raggi fra le vie della città. Quella manciata di luce dorata arriva fino qui, si infrange sui vetri del locale, mentre la vetrofania si riflette all'interno, poco più sotto, la foto di un panorama polveroso delle strade bianche: là fuori, a quell'ora, ogni tanto, passa la "sciura Maria" che, con la sua "olandesina", sta andando in posta a ritirare la pensione o, magari, una raccomandata. Alessandro Tino osserva le sue pedalate, riflette, abbassa il volume della musica, e sottolinea: «È una ciclista, punto e basta. Siamo tutti ciclisti nel momento in cui pedaliamo, qualunque sia il motivo, qualunque sia il sogno. Ciclista è chi porta la propria Brompton sul treno, all'alba, per andare al lavoro, piuttosto che chi progetta un viaggio in Patagonia. Sono certamente ciclisti i professionisti del Giro d'Italia e del Tour de France, ma non solo loro.

Poi c'è il ciclista inteso in senso etico e, in questo senso, ciclisti dovremmo essere tutti, anche chi non pedala: perché un ciclista è una persona che porta con orgoglio la bandiera dell'ecologia, farebbe bene al nostro pianeta, che dovremmo salvaguardare, invece maltrattiamo sempre più. Chissà, forse tra una decina di anni, qualcosa cambierà». In realtà, la "sciura Maria", solo qualche anno fa, nel 2017, quando Sartoria Ciclistica era da un'altra parte della città, si limitava a guardare da fuori, con pudore, quasi con timidezza, magari rivolgendosi a qualche amica, proprio mentre era sul punto di varcare la soglia: «Ah no, questo è il bar dei ciclisti». Allora tornava sui propri passi e quel caffè lo andava a bere da un'altra parte, rinunciando a quella iniziale tentazione. La causa era una sorta di blocco mentale, quel timore dell'esclusione che abbiamo tutti quando ci rechiamo in un luogo in cui, magari, tutti condividono una passione o un interesse tranne noi. La paura di restare soli, forse di non essere all'altezza, perché diversi.

In realtà, la Sartoria Ciclistica di quei giorni era differente. Innanzitutto si trovava in un'altra parte della città, ma soprattutto era declinata in un format differente: si trattava di un bar caffetteria con un angolo dedicato a souvenirs da ciclismo. Nel periodo della pandemia, avviene un ripensamento, l'idea si evolve e si modifica: «Volevamo ricreare un ambiente il più possibile somigliante a quello di una casa ed a casa nessuno si pone problemi di sorta, anzi si sente tranquillo, sicuro, a proprio agio. Allora abbiamo pensato di mettere molti divani e divanetti, invece di tavoli in stile ristorante, nessuna tovaglia, una rete wi-fi veloce e la possibilità di prendersi tutto il tempo che si desidera, senza fretta. Apriamo al mattino alle otto e mezza e chiudiamo al pomeriggio alle quindici. La sera siamo tendenzialmente chiusi, tranne in casi di eventi o incontri particolari. È il nostro modo di vivere il primo cycling cafè in Italia». Lo dice con soddisfazione Alessandro: si sente dal tono di voce, si avverte dal linguaggio non verbale. Alessandro Tino, per i più, e anche per noi, mentre dialoghiamo, è semplicemente Alex Mitchumm: un soprannome che riporta all'albero genealogico, alle origini, a suo padre Daniele e, prima ancora, a suo nonno che si sono sempre occupati di abiti e di sartoria, in una zona come quella del lago di Como, conosciuta in tutto il mondo per il valore delle stoffe e dei tessuti prodotti: parliamo, in questo caso, di Mitchumm Industries. «Quando ho dovuto scegliere il nome da dare alla nostra creatura, ho pensato che la parola "sartoria" dovesse esserci. Non solo perché ha a che fare con la mia storia personale, soprattutto perché qui si sperimenta una vera e propria "esperienza sartoriale". Mi spiego meglio: cosa accade in una sartoria? Si cerca la miglior combinazione possibile al fine di trovare ciò che meglio si adatta alla tua pelle, quel che tu vorresti sentirti addosso.

Vero, noi ci occupiamo anche di collezioni, ma, anche a prescindere da questo aspetto, quella perfetta corrispondenza tra abito e persona è una metafora, un fil rouge, che può essere trasposto anche alla nostra idea di rapporti con le persone che vengono a trovarci». Le collezioni firmate Sartoria Ciclistica sono pensate da Alex e Annalise «come se fossero abiti nostri, attraverso ciò che piace a noi, l'unica possibilità per ideare qualcosa che interessi. Si tratta di un processo che porta anche ansia e tensione, ma quando gli scaffali si riempiono di ciò che hai progettato tu e vedi lo sguardo delle persone prima di acquistarli e la soddisfazione dopo l'acquisto passa tutto. Capisci che ne è valsa la pena».

All'esterno del locale, in effetti, notiamo uno zerbino con una scritta che riassume perfettamente la spiegazione che Mitchumm ci ha appena fatto, la filosofia alla base di Sartoria Ciclistica: "Welcome home cyclists". Fino ad ora avevamo parlato di chi, non essendo pedalatore, avesse ritrosia nel fermarsi lì, ora affrontiamo l'altro versante della questione, ci dedichiamo, per l'appunto, ai ciclisti, di qualunque tipologia. Tino pensa ad un alveare, alla casa delle api, e a tutte le api che vi entrano e vi escono, talvolta si allontanano, talvolta vi fanno ritorno: in fondo, il gruppo, il gruppetto, dei ciclisti non è molto diverso: «L'ape che torna nell'alveare sa di essere fra altre api, c'è un linguaggio comune e quindi una comprensione istantanea. Chi calpesta quello zerbino, chi legge quella frase, può finalmente abbandonare ogni maschera, ogni sovrastruttura, può dirsi: "Sono fra persone che mi assomigliano, mi capiranno, non mi giudicheranno". Fa la differenza». Come sempre, l'importante sono i dettagli ed in questo caso i dettagli prendono, ad esempio, la forma del sudore di chiunque, sceso di sella: spiega Tino che, talvolta, un ciclista ha remore nell'entrare in un locale perché sudato, sporco. C'è un'apparenza che incute pressione: la paura che tutti si voltino a guardarti per come sei vestito, per come sei messo. Sono gli stessi dubbi di chi non pedala, semplicemente al contrario: «Il mio sudore è uguale al tuo, uguale a quello di chiunque altro, per questo, se dovessi descrivere Sartoria Ciclistica, metterei un'alfa privativa davanti a qualsiasi caratteristica diversa dal desiderio di stare insieme e dall'interesse per la bicicletta: siamo a-politici, a-religiosi e così via».

In Sartoria Ciclistica, si abbinano egregiamente due termini, due usanze, due abitudini che fanno costume e tempo libero: bicicletta e caffè. Non a caso l'invito di Mitchumm è sempre stato: «Vieni a trovarmi per un caffè e un poco di sano e romantico ciclismo italiano». Il caffè, ci spiegano, è molto simile alla bicicletta e come il tè, altra bevanda che tutti conosciamo e consumiamo, fa salotto, fa familiarità. In Inghilterra c'è il tè delle cinque, in Italia si usa consumare uno o più caffè al giorno, dopo la pandemia, tra l'altro, è aumentato, nelle famiglie, il desiderio di avere una macchinetta del caffè a casa, di sedersi lì vicino, con una tazzina in mano, a chiacchierare, a raccontarsi la giornata. Il caffè di Sartoria Ciclistica è un rito che si ripete ogni volta e, soprattutto, prima dei giri in bici tutti insieme: «All'inizio della conoscenza, si sperimenta sempre una parziale diffidenza, è normale. Quella tazzina è un antipasto di confidenza: le prime domande, le prime parole. Poi si sale in sella e quel processo continua». Qui emerge chiaramente l'essenza di Sartoria Ciclistica: non un negozio di biciclette, nemmeno un normale bar. Piuttosto un concept store. Le magliette dei ciclisti, all'interno, sono appese vicino alla macchinette del caffè, notiamo quella di Tadej Pogačar al Tour de France e quella di Chris Froome, quasi una cornice di tutto ciò che accade in quei locali. «Racconto spesso che la parte più bella del mio lavoro consiste nelle ride della domenica mattina. Fa strano parlare di lavoro per un giro in bicicletta, me ne rendo conto, infatti mi sento fortunato perché quel vento in faccia fa parte del mio lavoro. Assieme alla meraviglia che sperimento ogni volta in cui mi accorgo che, pedalando, diventiamo tutti libri aperti, ci mettiamo a nudo. Quello "spogliarsi" permette la nascita di alcune amicizie: a me è successo. Allora il giro in bici lo organizzi anche dopo il lavoro, perché ti piace troppo, ti fa stare meglio, ti libera. Poi vai a mangiare un hamburger e a bere una birra». Il tutto con un occhio attento alla cultura ed alla sensibilizzazione perché, altrimenti, come sottolinea, tutto perderebbe molto di senso: «In quelle "Sunday ride" ho la responsabilità delle persone che accompagno. Spiego loro come si sta in gruppo e come si sta in strada. Che la strada è di tutti, ma, affinchè sia davvero così, serve un reciproco rispetto che è essenziale. Per questo mi arrabbio con chiunque non rispetti le regole, ancor di più se sono ciclisti, perché è il primo passo per ottenere rispetto».

Questo insieme di rapporti ed interazioni ha a che vedere con il romanticismo a cui Alex Mitchumm crede molto «a costo di sembrare fuori dal tempo, di passare per ingenuo, ma penso ancora che siano sempre le persone a fare la differenza, anche nella scelta dei fornitori applico questo criterio. Guardo sia il marchio che la persona che lo rappresenta». Insomma, Alex Mitchumm è un laghèe romantico. Quando gli chiediamo un luogo ideale, il più bello, in cui andare in bicicletta, nei dintorni di Como, mette da parte i posti de "Il Lombardia", pur famosissimi, e ci parla del Rifugio Venini, sul monte Galbiga, dove, tre anni fa, ha chiesto a sua moglie Annalise di sposarlo: da Como ci si dirige verso Argegno, San Fedele, fino a Pigra, proseguendo su una strada a mezz'asta che costeggia la montagna e arrivando a 1573 metri. Gli ultimi metri si percorrono anche in bicicletta da gravel, i panorami sono mozzafiato su Svizzera ed Italia. Sì, un laghèe romantico che saluta tutti con un "ciao", al loro arrivo in Sartoria, ma pur sempre un laghèe, ovvero un abitante delle zone del lago. «Sappiamo essere gioviali, anche caciaroni, talvolta soggetti da osteria, ma in noi resta un indole da vecchi toscanacci, quindi da testardi. Più ci dicono che qualcosa non si può fare, più proviamo a farla, anzi, vogliamo farla e, spesso, ci riusciamo anche. In fondo, i ciclisti sono così, devono essere così». Di fatto, Sartoria Ciclistica è soprattutto un punto di incontro internazionale per ciclisti e cicliste che, in inglese, si scambiano pareri ed informazioni, però, Alex Mitchumm non si ferma qui. Nel cassetto è rimasto un sogno: replicare Sartoria in altre nazioni, in altri paesi. Il luogo predestinato potrebbe essere Girona, in Spagna, forse Parigi, in Francia, ma, se proprio deve sognare, Mitchumm pensa all'America. Il sogno è nel cassetto, ma il cassetto è aperto, chissà che presto non si realizzi.


Un negozio di bici, montagne, le strade di casa: intervista a Francesca Barale

L'ultima lunga chiacchierata con Francesca Barale era stata più di due anni fa, così, quando ci si ritrova, nelle interviste, come in qualunque altra circostanza di vita, accade di fare il punto su quel che, nel frattempo, è successo: ciò che è cambiato e ciò che è rimasto uguale. Nel 2021, era un giorno d'estate, "appiccicoso" di caucciù, come avrebbe cantato Paolo Conte, poco dopo la cronometro dei Campionati Italiani junior, a Faenza, con una maglia tricolore appena indossata. I primi cambiamenti, a dire il vero, non serve nemmeno raccontarli, sono evidenti: in quei giorni Barale faceva parte del VO2 Team Pink, ora, veste da due stagioni la maglia del Team dsm-firmenich PostNL e, soprattutto, corre con le élite. Le prime cose di cui parla Francesca Barale sono consapevolezze: racconta di essere certa di sapere, adesso, cosa voglia dire essere atlete professioniste e di aver capito, sempre di più, cosa sia necessario per arrivare dove certi atleti arrivano. Ammette anche di essere un poco cambiata, ma non tornerebbe indietro, ed il passaggio in una squadra straniera l'ha aiutata ad aprirsi, a capire meglio il suo sport. «Se devo essere sincera, a grandi linee, questi aspetti li ho sempre conosciuti, ma, nella teoria, non consideravo molte sfaccettature. Ero convinta che, in fondo, il passaggio da junior ad élite sarebbe stato sì difficile, ma accettabile. Invece è cambiato tutto, ogni dettaglio è divenuto essenziale. Forse perché sono sempre stata forte mentalmente, ma io ero davvero una di quelle atlete convinte che la testa non contasse e che servissero solo le gambe. In Italia siamo ad un ottimo livello, però su questi aspetti dobbiamo ancora crescere ed il mio era un pensiero di molti. Credo che i problemi che ci sono da noi, l'assenza di squadre World Tour, ad esempio, derivino anche da una concezione dell'atleta incompleta. Fino a quando le cose vanno bene la si pensa così, quando, invece, ti stacchi, non tieni le ruote e non ti riconosci più, sei costretto a cambiare idea, a capire che se non ci credi, se non hai fiducia in te stessa, non ci sono gambe che tengano». Le parole chiave di una atleta sono, quindi, fra le altre: sacrificio, dedizione, allenamenti e fiducia. Nel caso di Barale, poi, ce n'è anche un'altra che le permette di affrontare tutto questo: cinismo. Quello buono.

Francesca Barale (ITA - Team dsm-firmenich PostNL) - Ella Wyllie (NZL - Liv AlUla Jayco) - Foto Kei Tsuji/SprintCyclingAgency©2024

Spiega Francesca che spesso si ritiene il cinismo solo e soltanto un aspetto negativo, invece c'è una componente utile. Si tratta del riuscire a fare quel che è necessario fare, al momento giusto, concentrandosi solo sulla propria persona, senza molti altri dubbi e nel ciclismo è fondamentale. Barale vive a Domodossola, nel Verbano Cusio Ossola, circondata dalle montagne, dice che gli abitanti di quelle zone sono tutti abbastanza "montagnini", e l'essere "montagnini" vuol dire, talvolta, vedere il bianco e il nero, senza troppe sfumature. «A casa non torno spesso, purtroppo, ma sono molto fiera del luogo dove sono nata e cresciuta, della valle e del lago. Lì ci sono le salite che ho sempre fatto in allenamento: capisco esattamente come sto, dalle strade che faccio. Mi piace la valle, mi piace il lago». Le salite di cui parla la ventenne sono quella di Trontano, «ma più per divertimento che per vero e proprio allenamento», piuttosto che quella verso il Boden, a Ornavasso, o quella di Miazzina, verso Verbania. Salite dure, toste, su cui si possono fare molti lavori. Le stesse salite di Elisa Longo Borghini e Filippo Ganna, ragazzi della sua terra che ce l'hanno fatta, sono campioni. «Longo Borghini è da sempre stata la mia ispirazione, quando penso a casa, tuttavia, non avverto paragoni o confronti. Mi viene in mente il negozio di biciclette di papà Florido, in cui sono letteralmente cresciuta». Florido Barale è stato ciclista professionista e, dopo aver smesso, ha ricostruito la sua quotidianità in quel locale. All'inizio c'erano anche molti consigli per la figlia, ora il suo appoggio è più a livello emotivo perché Francesca è arrivata ad uno step importante, in cui anche un padre ex ciclista può fare poco.

Francesca Barale (ITA - Team dsm-firmenich PostNL) - Foto Kei Tsuji/SprintCyclingAgency©2024

E quella figlia divenuta ciclista professionista viaggia sempre di più, sempre più lontano. Al Santos Tour Down Under, a inizio stagione, ha messo su strada una buona prestazione, in cui sperava, ma in cui, forse, non credeva fino in fondo. In particolare sono state la prima e la seconda tappa a dare segnali positivi: un quarto e un sesto posto, su terreni mossi, adatti alla potenza e all'inventiva e lei quello spunto lo ha, sebbene tutti la definiscano scalatrice. A Willunga Hill, nell'ultima tappa, forse, si è trovata meno a suo agio di quanto potesse pensare: «In ricognizione mi sembrava nulla di che, certo, intensa, ma sono tre chilometri, dieci minuti di sforzo, complicati dal vento. Penso sempre più che debba scoprire che tipo di ciclista sono, le mie vere caratteristiche, sono giovane, in fondo. Vado bene un poco ovunque ma non spicco in nulla. Non è un male, ma fare chiarezza è necessario, soprattutto diventando grande». Quest'anno vorrebbe testarsi sui percorsi delle classiche: sente un feeling particolare per le Ardenne, il Fiandre è un pensiero, ma con le pietre deve ancora prendere la necessaria confidenza. In ogni caso vuole percorsi tosti per esprimersi. «Ho scelto di indirizzarmi verso le corse di un giorno, ma anche nelle corse a tappe farò le mie verifiche. Fino ad ora sono sempre stata in appoggio di qualche compagna e lo sarò anche quest'anno: anche questo va considerato quando si parla di potenziale. Non so correndo come leader cosa potrei fare». Per diventare leader crede di dover, in primis, smussare alcuni lati del suo carattere, l'essere lunatica, ad esempio: «Quando le cose vanno male, sono intrattabile, non mi può parlare nessuno e una capitana non può e non deve fare così». I ruoli nel Team dsm-firmenich PostNL sono stabiliti all'inizio e sono rigidi, chiunque li rispetta: «I risultati che otteniamo derivano anche dal fatto che ciascuno sa quello che deve fare e lo fa. Alla partenza so esattamente che nessuno cambierà idea ed i dettami resteranno quelli iniziali. Questa certezza fa la differenza, perché il ciclismo è uno sport di squadra e in dsm-firmenich PostNL l'ho capito sempre più». Una squadra giovane, in cui anche le pressioni si sentono meno, grazie alla leggerezza dell'età.
Al Down Under la maglia bianca di miglior giovane è sfuggita all'ultimo, proprio a Willunga Hill, a vestirla Vinke Nienke, diciannove anni, seconda di quella frazione, sua compagna di squadra: «Si impegna molto ed è giovanissima. Tra l'altro, riesce a essere sempre calma, razionale, è l'opposto di me. La stanno facendo crescere piano piano e sono convinta che, fra qualche anno, la troveremo a giocarsi le grandi corse a tappe». Tempo fa, Barale pensava che, una volta smesso, avrebbe cambiato totalmente campo e avrebbe cercato un lavoro fuori dal ciclismo, oggi, invece, pensa che resterà nel suo ambito, perché tutt'ora, nonostante la fatica non le sembra di lavorare, perché si sente fortunata e perché grazie alla bicicletta ha vissuto e sta vivendo cose che non avrebbe mai pensato di vivere.