Il questionario cicloproustiano di Omar Di Felice

Il tratto principale del tuo carattere?
Riservatezza.

Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
La discrezione e l’onestà.

Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
La discrezione e la dolcezza.

Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
La capacità di rispettare gli spazi e la diversità che ci caratterizza.

Il tuo peggior difetto?
La testardaggine.

Il tuo hobby o passatempo preferito?
Leggere.

Cosa sogni per la tua felicità?
Un mondo con più gentilezza.

Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
Non poter pedalare.

Cosa vorresti essere?
Sono felice di ciò che sono.

In che paese/nazione vorresti vivere?
In un’Italia con maggior cura per il prossimo, meritocrazia e rispetto per i deboli (anche , e soprattutto, in strada).

Il tuo colore preferito?
Giallo.

Il tuo animale preferito?
I rapaci notturni in generale.

Il tuo scrittore preferito?
Ne ho diversi: Walter Isaacson per le biografie, Murakami per i suoi romanzi, Bonatti e Moro per i loro racconti dalle spedizioni incredibili che hanno affrontato.

Il tuo film preferito?
Notting Hill (si è una commedia, lo so!).

Il tuo musicista o gruppo preferito?
Sigur Ros.

Il tuo corridore preferito?
Lo è stato Marco Pantani, poi ho conservato stima e ammirazione per molti campioni.

Un eroe nella tua vita reale?
Non ho eroi, solo persone che con il proprio esempio sono in grado di darmi stimoli e ispirazione.

Una tua eroina nella vita reale?
Non ho eroi, solo persone che con il proprio esempio sono in grado di darmi stimoli e ispirazione.

Il tuo nome preferito?
Marco

Cosa detesti?
L’invidia e l’odio.

Un personaggio della storia che odi più di tutti?
Mussolini.

L’impresa storica che ammiri di più?
La liberazione dal nazi-fascismo.

L’impresa ciclistica che ricordi di più?
Pantani a Guzet de Neige (dire Les Deux Alpes sarebbe stato troppo scontato).

Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Scegliere di ritirarsi non è mai semplice.

Un dono che vorresti avere?
Maggior capacità di fregarmene.

Come ti senti attualmente?
In pace.

Lascia scritto il tuo motto della vita
“Se pensi è la fine, se pedali arrivi”.


Ditta Artigianale, Firenze

Il caffè è pronto, in tazzina. «Calma, avvicinati lentamente e annusa l'anima della bevanda, prima di mettere la bustina di zucchero: cogli le note floreali e quelle di nocciola. Il tuo viaggio sarà suddiviso in tre sorsi. Il primo ti restituirà un'esplosione di gusto e acidità, durante il secondo, invece, avrai la possibilità di cogliere le note dolci, potrebbero essere di cioccolato, di nocciola, talvolta di frutta tropicale. Sarà, però, solo il terzo sorso a restituirti ciò che il tuo palato tratterrà: un sapore di mandorla, di nocciola, oppure di frutta, di mandarino, di ananas, di lime, di arancia». Siamo a Firenze, in Ditta Artigianale, ed a parlare è l'ideatore di questa realtà, Francesco Sanapo. Il suo linguaggio è quello di uno studioso, ma l'esperienza in cui affonda le radici tutto questo è originale, primigenia: il caffè che sua madre gli preparava ogni mattina, prima di svegliarlo per andare a scuola o all'Università. Solo qualche settimana fa, Francesco era in Colombia: più di quaranta ore di viaggi in macchina, almeno dieci aerei interni, da una parte all'altra del paese, su e giù, per conoscere, per capire come il gusto del caffè, in continuo cambiamento negli anni, continuerà a modificarsi, per scoprire nuove varietà, stare in contatto diretto con i produttori locali, visitare le loro piantagioni, scoprire eccellenze e tornare in Italia con dei piccoli quantitativi, trenta grammi, di quello che, probabilmente, sarà il caffè nel futuro. Così il caffè, l'abitudine di casa, quella parola molto simile in quasi tutte le lingue del mondo, con solo qualche venatura differente, l'ha portato lontano, dove non sarebbe potuto arrivare nemmeno con i più bei sogni, ma dove, in fondo, i desideri erano sempre andati. Ad un'altra velocità.


Scintille accese dallo studio, dai libri e Francesco Sanapo è certo che non vi siano molti altri modi per accendere "fuochi" che resistano alle avversità: siano essi sotto forma di passione o assumano qualunque altro aspetto o profilo. «Solo lo studio porta davvero a conoscere e per dedicarsi a qualcosa, anima e corpo, è necessario sapere, altrimenti non si può costruire nulla di duraturo. Lo studio fa "detonare", permette alle fiammelle che ci sfiorano di sorreggersi, altrimenti sono fuochi fatui, destinati ad estinguersi. Tutti i viaggi li ho affrontati così, guidato dalla curiosità, delle nuove varietà, dei processi di fermentazione, della tostatura e, appena conoscevo qualcosa, non vedevo l'ora di condividerlo». Così Ditta Artigianale è costruita anche grazie alle letture e alla conoscenza, non solo grazie ai sogni ed alle passioni. Nemmeno il nome è casuale: ad oggi, quasi nessuno usa più la parola ditta, tutti parlano di "aziende" o "attività", quello era, invece, un termine riferito alle piccole realtà di anni fa, ad un mondo artigianale. Ai periodi in cui le persone tostavano il caffè nei garages, con macchine costruite su misura, poi, l'industria ha un poco cancellato il valore dell'artigianalità: «Il nostro logo riporta ai colori degli anni settanta, noi ci siamo aggrappati a quei significati e abbiamo provato a rivederli in chiave moderna». Anche Sanapo ha iniziato lavorando per varie torrefazioni e, già all'epoca, viaggiava e scopriva diverse tipologie di caffè ma, per un motivo o per l'altro, non riusciva mai a importarle: si dispiaceva, si rammaricava. Intanto vinceva per tre anni il titolo nazionale di miglior barista, di assaggiatore di caffè e partecipava alla finale del Campionato Mondiale dei baristi, un traguardo mai raggiunto prima. «Mentre ero lì, con la coppa in mano, pronto per alzarla, decisi. "Al ritorno, rassegno le dimissioni da tutti i miei incarichi e creo un'attività tutta mia": era il 2013, acquistai la prima tostatrice, di otto chili e mi misi a tostare il caffè». Fare impresa è difficile, Francesco lo ribadisce, eppure la sequenza di fatti da quel momento in avanti è una progressione continua: il primo store, la caffetteria, per vendere il proprio caffè, quello preparato artigianalmente, ed ancora un secondo, un terzo, un quarto, fino al quinto store, di recente apertura.

«Vorremmo raccontare il caffè in tutto e per tutto e ravvivare l'antico legame che c'è tra caffè ed ospitalità, magari l'ospitalità fiorentina, in un luogo bello, da vedere e da vivere. Dico spesso che, negli anni, i bar sembrano aver perso l'anima, quasi fosse stata sfregiata da tante cose che hanno rovinato l'atmosfera e la personalità dei locali. Serve la musica giusta da ascoltare, persino la sedia giusta su cui sedere». Una personalità fatta di tante piccolezze, non a caso Francesco Sanapo spiega di aver introdotto la pasticceria in Ditta Artigianale dopo aver ricercato per anni il gusto del croissant che avrebbe voluto abbinare ai suoi caffè e non averlo mai trovato e sottolinea con orgoglio di non cercare esperti fra coloro che entrano dalla sua porta, ma, semplicemente, persone che abbiano voglia di un buon caffè, bevuto con consapevolezza. Accanto al legame del caffè con l'ospitalità c'è quello con la bicicletta: «Entrambi hanno la capacità di smascherare, di far cadere le maschere, di unire, di far incontrare. Le persone escono di casa per un giro in bicicletta, come escono di casa per un caffè: entrambe sono ottime scuse, per un viaggio nel paese vicino, dall'amico, dai genitori. Nei bar ci si ritrova per l'una o per l'altro, per entrambi capita di sedersi allo stesso tavolino». L'Italian Coffee Tour, organizzato da Francesco, prende spunto proprio da queste caratteristiche in comune: ci si ferma anche nei più piccoli borghi, nei paesini, si incontrano i sindaci ed i giornalisti, si parla e si fa parlare di caffè, magari si racconta anche l'aneddoto di quel coltivatore conosciuto in Honduras e della sua piantagione, del suo modo di lavorare. Ma la bicicletta, in realtà, è esperienza quotidiana e la Toscana offre paesaggi vari in cui spaziare: «Il mio giro classico è di circa cinquanta chilometri, attraversando le colline intorno a Firenze, tra Pontassieve e Fiesole, dove passeranno due macchine ogni ora, dove è possibile pedalare in meditazione, interrotti solamente da quella salita che scali da quando eri adolescente e che ogni volta maledici perché è dura, anzi, sempre più dura».

L'originalità è la chiave dello sviluppo di Ditta Artigianale: ogni store è differente, come è diverso ogni progetto, l'attenzione maggiore è alla comprensione del luogo in cui ci si trova e al modo per valorizzare quel palazzo o quella via. Forse la storia più affascinante a questo proposito riguarda il vecchio monastero che si trovava tra via Carducci e piazza Sant'Ambrogio: una costruzione iniziata nel 1300, proseguita nel 1800 e terminata nel 1900, dove c'erano suore e monaci, abbandonata, però, da circa cent'anni e fatiscente fino a che non è iniziato il recupero per restituirle una nuova luce. Una porzione è stata sottratta al commercio a favore dell'istituzione di un corso di formazione per i ragazzi che lavoreranno in Ditta Artigianale, ma anche per i consumatori. Formarsi su quel caffè che abbiamo in tazzina, delicata armonia, tra acidità, dolcezza, amaro e corposità, bevanda cantata anche dai cantautori, da Bob Marley fino a Francesco De Gregori, forse mai completamente conosciuta, se non superficialmente, certamente cambiata moltissimo anche solo negli ultimi quindici anni. I motivi sono vari, in primis, i figli di quei contadini che anni fa coltivavano il proprio terreno si sono specializzati, utilizzano nuove tecnologie, quindi la produzione si è modificata, ma non solo.

«Il caffè è l'esatto risultato di due componenti: l'aspetto umano, di cui abbiamo detto, e "madre natura", ovvero l'ambiente in cui è stato coltivato, l'altitudine. In Etiopia, la deforestazione ha raso al suolo interi pezzi di montagna, intere coltivazioni di bambù, altrove, nei paesi latino americani, la "roya" stermina le piantagioni, fa seccare le piante. Certo, è romantico parlare di una sorta di ricetta del caffè rimasta immutata negli anni, ma non è così, non può esserlo». Altro discorso rilevante è quello legato alla sostenibilità, al fatto che spesso chi lavora nei bar, nel nostro paese, è sottopagato, che in Italia un caffè arriva a costare al massimo un euro e cinquanta, mentre all'estero ci si trova molte volte sopra i due euro e cinquanta: una questione su cui bisognerebbe interrogarsi. Non molto tempo fa, Francesco Sanapo ha letto un articolo in cui si parlava della bassissima qualità del caffè italiano: «Potrei dire che quel pezzo abbia creato stupore, in realtà, non c'è da stupirsi: abbiamo iniziato a scegliere materie prime di non altissima qualità e tutto questo si ripercuote, per forza di cose, sulla qualità del caffè, con conseguenti strategie di mercato errate». La voce è alta, decisa, come ad indicare una via da seguire: «La mia idea è quella di riportare il caffè, la mia prima passione, al suo splendore, ai suoi periodi più belli, al sapore dell'artigianalità, della semplicità ma allo stesso tempo della competenza e della professionalità».

Siamo a Firenze e da Firenze, in estate, a giugno, per la precisione il 29 giugno, partirà il Tour de France 2024: un'occasione che cambierà la città, la riempirà di voci, colori e festa, della grande carovana della Grande Boucle, di ciclisti, professionisti o semplici appassionati. Non cambia molto, in fondo, ed il caffè resta elemento presente: ci sono macchinette anche sui bus dei professionisti, è un rito anche per loro, un momento di relax e di attesa. «Non vediamo l'ora di quei giorni, li aspettiamo da quando sono stati annunciati, ci pensiamo, fantastichiamo su quello che accadrà in città. Mi piacerebbe poter trasmettere l'idea di un luogo che non vede l'ora di accogliere, ciclisti e non, di prendere una tazzina di caffè e gustarla, in tre sorsi, dopo aver annusato il profumo che evapora, davanti a loro». Alla fine, basta davvero solo varcare la soglia di Ditta Artigianale e tutto questo accadrà, senza dubbi.


Cycle Café, Cuorgnè

I lidi ferraresi non erano cambiati in quell'estate del 2016. Le valli e le saline erano luogo di esplorazione ed escursione, talvolta l'ideale per il birdwatching, la vista, poi, cercava le pinete e le distese verdeggianti, lì vicino si sentivano i suoni ed i rumori di animali in libertà. Si poteva salire a cavallo, sugli splendidi ed agili cavalli del Delta, esemplari coraggiosi, abituati a resistere alle caratteristiche ostiche della zona, e proseguire al galoppo o al trotto, sotto il sole cocente, riprendendo fiato all'ombra di qualche albero. Addentrandosi nei paesi, tra canali e ponti, magari sul filo dell'acqua, attraverso un'imbarcazione tipica della zona, la "batana". A pochi chilometri, Ravenna, Bologna, Ferrara, Venezia, le loro strade di città, i musei ed il pullulare di voci e vita di una vacanza. Sì, era tutto uguale, anche l'afa ed il caldo di una nuova stagione, eppure Simone Magnino non era lo stesso. Era ormai da qualche giorno in quelle zone, ma non parlava, era sempre assorto, talvolta studiava, altre rifletteva, sembrava altrove, chiuso nella propria persona. In qualche pomeriggio in spiaggia, sua moglie gli aveva chiesto cosa stesse succedendo, se ci fosse qualcosa a preoccuparlo, ad inquietarlo: le risposte erano state evasive, fino a che, un giorno, appena arrivati allo stabilimento balneare, aveva iniziato a parlare e a raccontare tutte le idee che aveva riordinato in quei momenti di solitudine apparente. «Perché non apriamo un'attività per nostro conto? Ho in mente un bar, un piccolo bar caratteristico, che abbini il gusto del caffè ed il vento in faccia della bicicletta. Potremmo chiamarlo Cycle Café, anzi lo chiameremo proprio così, è il nome giusto». Lasciamoli lì e torniamo indietro a tutto quello che era successo prima di quella giornata.

Simone Magnino ricorda bene come, sin da ragazzo, sia sempre stato affascinato dalla figura del barista. Anche nelle serate, nelle nottate, in discoteca, lui restava a guardare la manualità, l'abilità di chi serviva i drink e pensava che "da grande", come si dice quando si è ragazzini, avrebbe voluto imparare quel mestiere, assomigliare, almeno in parte, a quella figura professionale. Ne aveva parlato con un amico, si era iscritto all'Istituto Alberghiero e aveva imparato i segreti del lavoro che, fino a quel momento, conosceva solo dall'esterno. Poi aveva iniziato la sua carriera lavorativa: nei locali notturni, nelle discoteche. «Di ogni giorno l'alba», potremmo dire così, e Simone era diventato il suo sogno: l'immaginazione e la realtà, ora, corrispondevano. L'arrivo della famiglia, la voglia di trascorrere la notte a casa, con la moglie e la figlia, che, oggi, ha dodici anni, il lavoro diventa diurno, in altri bar. Giorni, mesi, anni e qualcosa che si rompe proprio prima delle vacanze estive del 2016. L'esigenza di avere più spazio, di dare sfogo alle proprie idee, di interpretare in modo differente quella professione aveva iniziato "a bussare" e Magnino sentiva di dover "aprire la porta", per restare nella metafora, a quei pensieri.

Si torna ai lidi ferraresi: «Mia moglie restò qualche minuto a guardarmi, sapevo che mi capiva, ma siamo differenti a livello caratteriale e lei cercò subito di smorzare quell'entusiasmo, quella che pareva una boutade. Mi fece riflettere sul significato di ripartire da capo, sugli investimenti, sui debiti a cui saremmo andati incontro, nuovo stress, nuove preoccupazioni. Chi ce lo faceva fare? Non lo so. Sta di fatto che, appena tornammo dalle ferie, iniziai a girare per tutta la città, Cuorgnè, dove sono nato, è vero, ma dove non avevo mai lavorato, alla ricerca di un locale da trasformare nel Cycle Café». Lo trovò a inizio 2017: era un bar chiuso da tempo, anzi, chiuso più volte, con gestioni spesso sfortunate ed in particolare con un'ultima gestione che non godeva di buona nomina fra le persone del posto che, proprio per questo, dopo averlo sconsigliato rispetto a questa nuova avventura, a maggior ragione gli spiegavano che, partendo da lì, l'insuccesso sarebbe stato quasi sicuro.

«Il posto lo fanno le persone. Chi arriva a bere un caffè e chi lo gestisce. Ne avevo la certezza ed ho fatto di testa mai. Se fossi entrato qui in quel periodo, avresti avuto la sensazione di una rivoluzione imminente. Cambiai tutto, in una trasformazione radicale». Per molto tempo i vetri del locale si oscurano, mentre i lavori di ristrutturazione sono in corso. Simone Magnino ha attaccato alle vetrate vecchi fogli di giornali sportivi e soprattutto di riviste di ciclismo, già lette ed ancora custodite. Una sorta di prima traccia, di primo indizio su quello che si sta formando lì dentro. Tutt'oggi il locale è su misura, un abito perfetto per lui e per la moglie: vecchie biciclette, messe a nuovo, sono appese al soffitto, persino le luci ed i lampadari sono formati da ingranaggi o parti di biciclette. L'orologio è, in verità, formato da un cerchione di bicicletta ed anche il portabiciclette, all'esterno, è particolare: sembra quasi che, dove si appoggia il manubrio, inizi il bancone del bar. Il pannello che riporta la scritta "Cycle Café" reca anche qualche autografo di ciclisti passati da quelle parti, su tutti leggiamo il nome di Egan Bernal. Qualunque cosa, in un modo o nell'altro, riporta alla bicicletta, mentre il negozio si completa sempre più e, dalla caffetteria iniziale, cerca di introdurre nuovi servizi: esempio ne sono gli appendini con capi personalizzati, i marchi di abbigliamento da mtb, il noleggio di e-bike e un'altra idea che ronza nella testa di Simone Magnino da qualche settimana, mentre la moglie, scherzosamente, lo avverte di non cacciarsi in nuovi problemi, che non è il momento.

«Sai qual è il punto? Qui ci sarebbe tutto lo spazio per un'officina, ma è difficile trovare un meccanico che possa aiutarci. Se, però, domani mattina arrivasse un ragazzo competente e volesse lavorare qui, gli chiederei di iniziare subito. Noi siamo un punto di passaggio, per chi va al Nivolet, a Pian del Lupo, per chi arriva dall'altra parte dell'Europa o dal paese accanto, e molte volte qualcuno, vedendo il locale a tema bici, si ferma e ci chiede se le aggiustiamo anche: talvolta il problema è semplice, registrare un cambio, sostituire una camera d'aria, e posso aiutarli io, grazie agli insegnamenti di un amico, ma vorrei ci fosse un professionista. Vorrei non dover dire più quella frase: "Mi spiace, non posso aiutarti". Sì, qui starebbe bene un'officina». Forse, la prima volta in cui Magnino ci ha pensato era un giorno di pioggia battente, invernale, in cui un gruppo di ciclisti, nel corso di una gara, sfilava infreddolito da quella strada, verso Como, per concludere il tragitto nel tempo limite di una settimana: allora, a sera, Simone si sedeva al tavolo e controllava, sul cellulare, l'applicazione con i passaggi e, se un partecipante era nei paraggi del bar lo aspettava, magari gli lasciava un sacchetto con qualcosa da mangiare e da bere. A costo di cambiare orario di chiusura, di tornare più tardi a casa. Qualche mese fa, il giorno di Natale, fra i regali, una foto della bicicletta gravel che ha donato alla moglie e, soprattutto, la certezza che, ora, Cycle Café è davvero loro, l'hanno comprato, ci sono riusciti. Passando di lì, a Cuorgnè, in via Ivrea 111, si vede spesso un televisore che trasmette immagini di gare ciclistiche, d'estate la voce arriva anche fuori e sembra di essere in un altro tempo, quello in cui tutti si trovavano al bar a vedere le corse: «Anche una signora di più di settant'anni è restata meravigliata da alcuni paesaggi, quelli della Coppa del Mondo in Val di Sole, sulla neve, e ci ha chiesto se anche in Italia succedono queste cose. Altre volte, qualcuno ci chiede perché chi arriva in fondo al plotone è contento o viene festeggiato dai compagni. A noi piace spiegarlo, perché pure il ciclismo è una questione di cultura. Dovremmo farlo vedere più spesso, regalare libri e riviste di ciclismo, sfogliarle assieme, condividere un giro in bici con la famiglia, con un figlio o con i più giovani».

Quelle pedalate che a Simone, a tratti, mancano: sì, la domenica esce ancora e, quando torna, sta meglio, non a caso sostiene che la bicicletta abbia effetti benefici sia sul corpo che sulla mente, ma spesso il pensiero è rivolto al timore di cadere, di farsi male e, con il nuovo lavoro, non esistono giorni di malattia. Eppure, nonostante questo, nonostante il periodo della pandemia, arrivato solo tre anni dopo l'apertura del locale, Magnino non si è mai pentito di quella scelta, in spiaggia, ai lidi ferraresi: «Mi sono tolto la soddisfazione di partecipare alla Maratona delle Dolomiti, di concluderla e, dico di più, al ritorno, giusto una notte a casa, un passaggio dal bar, a controllare che tutto fosse apposto, per, poi, raggiungere mia moglie mia figlia a Sanremo, al mare. Quasi fossi un professionista che viene dall'altura: gli ultimi ottanta chilometri sono stati un incubo, in una calura soffocante. Mi ha salvato una Coca Cola gelata, acquistata ad una macchinetta, da un benzinaio, e un pacchetto di Haribo, mandate giù "a manate", nel corso di un calo di zuccheri. Sono partito poco dopo le cinque e mezza del mattino, sono arrivato alle diciotto: ero stanco, ma contento».

Qualche settimana fa, ad una fiera, a Rimini, Simone Magnino ha visto delle biciclette su cui erano installate, in un caso, delle carapine per il gelato, nell'altro, tutto il necessario per fare il caffè: «Non serve dire che sono partito in quarta, ho chiesto tutte le informazioni possibili e, ogni tanto, lo ricordo a mia moglie che, come qualche anno fa, mi chiede di non mettermi in testa altre stranezze, talvolta si arrabbia pure per la mia insistenza ma io non riesco ad essere che così. Mi sto immaginando spesso la bellezza del salire con una bicicletta simile sul Nivolet o a Pian del Lupo e stare lì: otto carapine di gelato o un caffè. Sono posti meravigliosi, in cui, però, mancano alcuni servizi. Potremmo portare noi qualcosa. Resta solo da convincere mia moglie». Simone Magnino sorride, è convinto che, con il suo entusiasmo, accadrà presto. Ne siamo convinti anche noi, mentre lassù, al Nivolet, la sera porta un freddo pungente, che fa da contrasto al gelato che, in estate, rinfrescherà le idee di molti. Ed è dalle idee fresche, di mare o di montagna, che si può ricominciare. Cycle Café, nel torinese, ne è la prova.