La fuga arriva

Il primo gesto della mattina, accanto alla ciclabile di Genova, dove qualche pedalatore può, per frazioni di secondo, tenersi al fianco del gruppo, nel tratto di trasferimento, e voltarsi incredulo, è uno di quei gesti che, al Giro d'Italia, si fanno spesso: cercare un numero, un dorsale, dall'alto, sulla schiena dei corridori e trovare il rispettivo nome. Si fa così in caso di cadute, si fa così quando qualcuno si allontana dal gruppo, in testa, in fuga, oppure in coda, stanco, affaticato. Sono ancora i primi giorni e la stanchezza non è nemmeno troppa, Fernando Gaviria dice che "non si è ancora così stanchi da non riuscire più ad avere la forza per ridere", che rende l'idea di quello che sono certi giorni lontani da casa, su quella bicicletta. Sono ancora le prime tappe, eppure Fabio Jakobsen sono già due giorni che, sulle rampe iniziali e dolci di una salita, cede, barcolla, si stacca, muove le spalle, deve inseguire, con qualche compagno di squadra lì davanti, ad aspettarlo: 144, il suo numero. È fra i primi a lasciare le ruote del gruppo e chissà cosa scatta nella mente di chi, proprio nelle giornate in cui è atteso, quelle dei velocisti, diviene il primo "pezzo" mancante del plotone. Se quell'idea arriva alla mente, le gambe si bloccano, diventano di ghiaccio, un pugno nello stomaco: il corpo, da macchina perfetta, diviene caos, nulla più combacia. Si cercano i numeri e, verso il Passo del Bracco, sarà perché le zone sono queste, sarà per l'assonanza con il Passo del Bocco, il fatto che il 108 non ci sia pesa di più. Eppure lo sapevamo, ma i ricordi seguono strade proprie. Ora Genova pare davvero avere la faccia di tutti i poveri diavoli conosciuti da Fabrizio de Andrè, nei suoi carruggi, degli esclusi, dei fiori che sbocciano dal letame, dei "senzadio". Ma si va avanti, via dalle prigioni, di Marco Polo e della malinconia, dell'assenza.

Si cercano ancora numeri: quando va in avanscoperta la prima fuga, quattro uomini, e ad ogni caduta. Non serve il dorsale per riconoscere Christophe Laporte, mentre frana a terra, è la maglia a svelarne l'identità. Un tombino, forse. Il momento più difficile non è quando si cade, in fondo, sono pochi secondi, nemmeno il tempo di capire. Il brutto è quando bisogna tornare in piedi e fare i conti con l'impatto. La forza di ridere può toglierla un corpo ammaccato, sfregato sull'asfalto: Laporte esplora le gambe, le spalle, tocca la schiena. All'inizio è solo paura, dolore improvviso, i punti in cui la pelle è andata via si scoprono piano, piano, dopo, al primo movimento. Diceva Fausto Coppi che il momento più esaltante per un ciclista non è nemmeno la vittoria, è la decisione. Sì, l'adrenalina della scelta: di scattare, anche solo di continuare pure se il traguardo è lontano. Hanno deciso Benjamin Thomas, Enzo Paleni, Michael Valgren e Andrea Pietrobon. Hanno deciso e sono partiti, quando la prima fuga era già stata riassorbita, annullata, da un'andatura forsennata della squadra di Kaden Groves, la Alpecin-Deceuninck, altra decisione che poteva essere sollievo, sarà rimorso, in ogni caso rinuncia a qualcosa.

Del resto, decidere vuol dire escludere almeno una possibilità, non vale solo per un ciclista. In fuga, in caccia: una di quelle scelte apparentemente assurde, quasi sempre, che, però, ci si ostina a compiere, contro la logica. In fondo raccontare della bicicletta è anche raccontare di tutto ciò che c'è di irrazionale nel suo equilibrio, nel suo piacere, nella sua fatica che fa la tana nei muscoli; perché? Perché sono gli esseri umani a scegliere e gli esseri umani sono fatti di tutto questo. Giacomo Puccini era di Lucca, la città d'arrivo, lui che prima «un poco traballando e molto serpeggiando procedeva autonomo» sul "bicicletto", dopo «riduceva i suoi compagni di viaggio come tanti peperoni, con rispetto parlando». Può essere che la musica e la bicicletta abbiano qualcosa in comune? Che la composizione di un'opera e una volata, una fuga, si somiglino? A noi vengono in mente le mani dei pianisti, mentre provano e riprovano, forse una parte di risposta è qui.

L'altra è in Andrea Pietrobon. Non solo o non tanto perché anche lui suona il pianoforte, soprattutto per quello che fa e per come lo spiega. Racconterà di essere letteralmente sfinito, senza forze nei chilometri finali, a ruota di quelli che, in gergo ciclistico, si definirebbero cagnacci. Assurdo non avere più le forze nell'attimo in cui puoi provare a vincere una tappa al Giro d'Italia, assurdo essere svuotati quando la fuga arriva e tu sei nella fuga. Assurdo, ma succede. Proprio perché non ha più nulla, Pietrobon parte, allunga, uno scatto, un lampo, all'interno dell'ultimo chilometro. Si crea spazio. Confesserà di aver pensato per qualche frazione di secondo che stava per vincere una tappa al Giro d'Italia. Dirà «è stato bello». Anche solo pensarci, avete capito bene. In caccia, lì dietro, c'è Benjamin Thomas, esperto di pista, di velodromi, fenomeno in quella ellissi dove non si può sbagliare il momento. Non lo sbaglia nemmeno su un rettilineo a cielo aperto, brucia Pietrobon e supera Valgren. Succede quando si sa che scegliere è più importante di farcela. Sognava questo momento, non lo immaginava. Ora che è successo, deve solo imparare a crederci.

Foto: SprintCyclingAgency


La corsa di casa per un francese: intervista a Ben Thomas

Pochi giorni fa abbiamo intervistato, alla partenza della prima tappa del Giro d'Italia, Benjamin Thomas, il vincitore della tappa di ieri. Questo è quello che ci ha raccontato.

Il Giro è la tua corsa di casa, possiamo dirlo.
Sì, però stranamente è solo il secondo per me. E a dire il vero non ho un bel ricordo del primo, nel 2020, quando mi sono dovuto ritirare alla quinta tappa perché ero ammalato. Però mi piace sempre correre in Italia, spero che questo Giro vada meglio. Ho fatto tante volte la Tirreno e la Sanremo, mi piace.

Qual è la cosa più bella dell’Italia, di cui non puoi più fare a meno.
Il cibo, ovviamente. Quella è una cosa che mi piace. È difficile a volte arrivare a fine gara, in certi alberghi, e trovare la pasta stracotta o cose simili. Sto diventando un po’ difficile sul cibo, ma quando torno a casa è qualcosa che apprezzo davvero. E poi il ritmo di vita. E il clima: sul Lago di Garda, dove vivo, anche in inverno raramente mi prendo pioggia o freddo. Sono cose che a un corridore fanno piacere.

Ma cucini anche tu? Qual è il tuo piatto forte?
Non ho un piatto speciale, ma faccio la pasta, i risotti, mi piace anche cucinare la carne. Mi piace tutto! Anche i dolci…

E Martina Alzini, la tua collega e compagna, quali tuoi piatti apprezza?
Mah, ti direi il risotto… ma da quando Martina ha preso il Bimby in realtà non cuciniamo più, fa tutto il robottino! So che è diverso dal risotto di un cuoco ma va così, anche perché il tempo è sempre poco.

C’è qualcosa che devi ancora capire dell’Italia? In cosa non sei italiano?
Lasciami pensare… magari il caffè. Pensa che quando sono arrivato qua non avevo mai bevuto un caffè in vita mia. Adesso sì, inizio a berlo, ma senza zucchero proprio faccio fatica, non riesco. Per il resto mi sono davvero abituato all’Italia.

Tu in bicicletta fai tante cose diverse: pista, crono, sei forte in discesa, lanci le volate. Qual è la cosa che ti piace di più?
Le fughe. Mi piace andare in fuga. Giocare con il gruppo. Provare a battere le squadre dei velocisti. Non mi è capitato tante volte, ci ho provato anche al Tour de France o in altre grandi gare. Però è una cosa che mi piace. Anche aiutare i compagni mi piace, ma giocarmela in fuga è la mia cosa preferita del ciclismo su strada.

Come si fa ad andare in discesa come vai tu?
Mah, bisogna non pensare troppo ai rischi. Comunque oggi in gruppo vanno forte tutti. Bisogna essere consapevoli, prendere un po’ di anticipo sulle curve più pericolose perché se sbagli una curva puoi perdere anche 20-30 posizioni e per rimontare poi devi aspettare un momento tranquillo.

Una caratteristica dei ciclisti francesi è l’essere intellettuali: scrivono, leggono, dicono cose un po’ filosofiche. Anche tu hai questa tendenza o il tuo essere ormai italiano ti rende diverso?
Non sono tanto così. Prendo il mio compagno Guillaume Martin, che pure è appassionato di filosofia… A me piacciono queste cose, ma non è la mia passione. Leggo poco, ma penso che sia un modo di staccare la testa dal ciclismo e avere una visione diversa del nostro sport. Lo apprezzo, ma devo dire che non è il mio modo di fare. A me piace di più ascoltare la musica, anche italiana. Ascolto di tutto, dai Måneskin fino al rap. Le cose più classiche, come Vasco Rossi o Toto Cutugno, non le ascolto tanto.

Facci qualche nome.
Gué Pequeno, Club Dogo. Martina è un’appassionata e io ascolto con lei, siamo anche andati ai concerti di Marracash, di Gué. Mi piacciono. Ma poi io amo anche i Måneskin, mi piace la loro musica (l’esultanza a Lucca è stata un tributo a “Zitti e Buoni”, ndr), anche se al loro concerto non sono mai stato. Anche perché sia io che loro viaggiamo in tutto il mondo, è difficile coincidere, e non puoi andare a un concerto il giorno prima di una gara!

L’intervista integrale a Benjamin Thomas è andata in onda nella puntata di GIRONIMO del 4 maggio. Il nostro podcast sul Giro d’Italia, realizzato in collaborazione con Shimano, va in onda ogni sera su Spreaker, Google podcasts, Deezer, Spotify e Apple podcasts.

Foto: Sprint Cycling Agency