Ha det bra: intervista a Magnus Sheffield
Uno dei giovani più interessanti, non solo qui al Giro, ma anche in assoluto nel gruppo, è Magnus Sheffield.
Buongiorno, Magnus.
Buongiorno!
Splendida pronuncia italiana, allora ha ragione Jean Smyth, l’addetto stampa della Ineos, quando dice che parli molte lingue.
Ho imparato qualcosa nella prima settimana di Giro. Ma di lingue ne parlo bene soltanto due, però è vero che conosco le poche parole chiave in un po’ di altre.
Sei mezzo norvegese e mezzo statunitense; qual è la tua parte norvegese e quale quella statunitense?
Ah, bella domanda. A essere onesti, sono davvero metà e metà. Mi sento molto americano ma sono anche molto orgoglioso di essere norvegese. È difficile a dirsi, magari qualcuna delle mie scelte alimentari preferite è più scandinava, e forse si può dire la stessa cosa anche riguardo alle cose che amo fare nel mio tempo libero. Ma mi sento davvero 50/50.
Facci qualche esempio di cibo scandinavo che ami.
Ooh, ad esempio il brown cheese [che dovrebbe essere il Brunost, un dolce caramelloso, NdR] e il caviale. Adoro il caviale, o, come lo chiamiamo noi: il dentifricio norvegese.
Sei cresciuto a Pittsford, un sobborgo di Rochester, nello stato di New York; come sei arrivato al ciclismo negli Stati Uniti?
Sono sempre andato in bici, sin da quando ho imparato a camminare. È una cosa che facevo con la mia famiglia, lungo i canali. Abbiamo anche fatto dei viaggi in bici in Norvegia. È davvero un’attività che ho sempre amato. Da ragazzino mi piaceva lanciarmi sulle strade vicino a casa, così come uscire con la mountain bike. Ma tutto è cominciato davvero quando ho incontrato gli August, il mio compagno di squadra A.J. e suo padre, che ha un negozio di biciclette e mi ha invitato a partecipare alla mia prima gara di ciclocross. È così che mi sono innamorato anche del ciclismo agonistico. Da lì ho cominciato con la mountain bike, il ciclocross, la strada… e tutto è cresciuto come fosse una valanga.
Quindi niente football americano o baseball.
In realtà ho praticato parecchi sport. Anche il football, ma nel senso del soccer, come chiamiamo il calcio. E poi baseball, nuoto, sci... amo soprattutto la neve.
E sei anche un tifoso?
Di calcio no, anche se sono il più competitivo della squadra. Nel football americano invece assolutamente Bills! Buffalo Bills!
E come hai preso la recente cessione di Stefon Diggs?
Eh, è uno dei miei giocatori preferiti, quindi sono ancora un po' toccato da questo fatto, ma credo che la cosa importante sia insistere su Josh Allen.
Dall’attitudine con cui stai affrontando questo Giro, si percepisce che è una sorta di rinascita dopo la caduta dello scorso anno [Sheffield è stato vittima della stessa caduta in cui ha perso la vita Gino Mäder, riportando un trauma cranico che lo ha tenuto tre mesi fuori dalle corse, NdR]. Raccontaci di più di come hai vissuto il rientro alle corse fino ad arrivare al tuo primo grande giro.
Già, è stato tutto fuorché facile. Ho passato parecchio tempo con la mia famiglia, e credo che sia stato davvero utile. È stato molto bello anche rientrare alla fine della scorsa stagione al Giro di Gran Bretagna, che è la corsa di casa della mia squadra. Ho perso l'occasione per fare un grande giro lo scorso anno, ma questo Giro aveva perfettamente senso con la mia crescita, visto che ho solo 22 anni. Rappresenta una bella pietra di passaggio per le ambizioni che ho nella mia carriera. E fin qui non posso che essere soddisfatto delle mie prestazioni e di come ho potuto aiutare G [Geraint Thomas] e Thymen [Arensman].
Ti senti un ciclista diverso, o una persona diversa, dopo l'incidente?
No, non credo. Sono sempre Magnus, non sono cambiato così tanto. Però ho imparato ad apprezzare ancora di più le corse, e forse anche la vita al di fuori del ciclismo. A non dare nulla per scontato. In questi primi anni ho vinto tre gare [nel 2022 ha conquistato Freccia del Brabante e tappe alla Vuelta a Andalucia e al Giro di Danimarca, NdR], due delle quali nei primissimi mesi da professionista. È stato un bell'inizio, ma forse ho dato per scontato che tutto sarebbe andato avanti così. Adesso invece apprezzo molto l'idea di lavorare duro per dei risultati, che arriveranno.
Sui tuoi social compare spesso tua sorella Sunniva, che da quanto ho capito vive in Alaska.
Oh no. Ha studiato là per un po’, ma adesso sta sulle isole Svalbard, dove ha passato gli ultimi mesi in mezzo agli orsi polari. Tra poco però tornerà a Oslo. Mia sorella è una persona incredibile: ama la vita all'aria aperta e ha viaggiato un sacco per i suoi studi [si occupa di scienze ambientali, NdR].
Sei abituato al freddo scandinavo e a stare nella neve… e come ti gestisci il sole italiano?
Sicuramente con un sacco di crema solare!
Abbiamo iniziato con un buongiorno, ora lasciaci con un saluto in norvegese.
Ha det bra!
Il liscio, i treni e Jonny Milan
Il gruppo, tra Riccione e Cento, assomiglia alla Romagna. Intendiamo dire che, più di altri giorni, forse, il plotone è casa e trasmette sensazioni simili a quelle che si possono vivere su una spiaggia romagnola, mentre qualcuno, nella realtà o nel ricordo, disegna la sabbia con piste, paraboliche, inganni, trabocchetti, salite, discese, poi mette la mano in un secchiello, tira fuori le proprie biglie, le fa scorrere, simili a pianeti, fino a scoprire chi vince. In quegli "specchi" rotanti, i volti degli atleti, dei campioni che un gruppetto di ragazzini sognavano di essere, sognavano di essere e, per qualche ora, erano, quasi una magia teatrale, la finzione più bella, perché è realtà. "Semplice", il gruppo, in giornate così: si può fare "ciao" alle persone a bordo strada, persino alle telecamere, magari accompagnandolo con una faccia buffa, all'unisono con un compagno di squadra. Si mangia un boccone, un minuscolo panino, con più tranquillità, lasciando che il sapore accarezzi le papille gustative. Anche lo scherzo e la risata fanno parte di giorni simili, il divertimento, la capacità di divertirsi, altra essenza di questi luoghi. Di ballare, ad esempio.
La Riccione-Cento è un liscio, a proposito di balli e gioia, perché non c'è un rilievo, un'increspatura nell'altimetria, solo qualche cavalcavia, magari non lontano da una ferrovia ed è in tappe come queste che i "treni" fanno parte del ciclismo. In tappe che presentano come tracciato "un percorso piatto come una tavola di biliardo e diritto come quello dell'Orient Express" per dirla con Marco Pastonesi, quando scriveva di Ercole Baldini, il campione di Forlì, con "il suo motore umanamente romagnolo". La Riccione-Cento è una giornata di primavera che tende all'estate, con i campi verdi, macchiati dal rosso di qualche papavero, e un'aria limpida, un cielo sgombro, sull'asfalto, a tratti, l'effetto Fata Morgana, un miraggio: lontana di un anno l'alluvione, il fango non c'è più, perché le strade, con fatica, si possono pulire, ma non ci sono più nemmeno tante persone e tante altre cose, piccole e grandi. Resta invece il ricordo, la memoria, la paura, quando la luce cambia e le nuvole ritornano. Sarà perché quel che succede non passa mai del tutto, almeno dentro.
Manuele Tarozzi è di Faenza: parla velocemente, sin troppo, a volte, con la musicalità delle parole declinate qui, e dice che ama solo le fughe che arrivano perché "non sarà mica bello essere ripresi sulla linea del traguardo". Aggiunge che va in fuga per vincere, non per provare. Uno deciso, Tarozzi. Ha qualche dubbio solo a tavola e non saprebbe scegliere tra cappelletti e piadina, "il pane, anzi il cibo nazionale dei Romagnoli": la vorrebbe anche al rifornimento. Il caffè, invece, sempre. Uno deciso, Tarozzi, tanto che parte lancia in resta, con il compagno di squadra Alessandro Tonelli e con Andrea Pietrobon. Il gruppo, se lo vede, lo osserva solo da dietro per più di cento chilometri: lui vedeva così De Gendt, agli inizi, e quando se l'è trovato davanti, le prime volte, è rimasto sorpreso perché, tutto sommato, "fisicamente mi somiglia pure, lo facevo più alto, più piazzato". In chi va in fuga si mette sempre un pizzico di eroismo, di romanticismo, per cui diventa, in ogni caso, di più. Non importa cosa o quanto, ma di più. Oggi Manuele Tarozzi ha fatto un'eccezione: è scattato più per provare che per vincere, per arrivare nella sua città davanti al gruppo, in fuga, con quel "di più" che dicevamo.
I treni delle tappe per velocisti sono quelli che cuciono la volata, vestito dello sprinter, ma sono anche quelli che affrontano il vento, i ventagli, che proteggono i velocisti, fanno da scudo e da "corda" a cui aggrapparsi per resistere o per rientrare, per attaccare, anche. Jonathan Milan che, per qualche istante, da solo affronta il vento per tornare in gruppo, dopo l'azione della Ineos che l'ha trovato nel secondo gruppo, staccato, è un treno ad un vagone, ad alta velocità però. L'inquadratura si allarga, l'effetto è quello di quando, seduti in treno, parte il treno accanto e si ha la sensazione di muoversi a propria volta, mentre è un'illusione. Che forza, quanti watt, che potenza sviluppa il ragazzone friulano. È un antipasto. Sessanta chilometri dopo, quando il gruppo si scatena e inghiotte curve e cambi di direzione, le sue gambe avranno già recuperato lo sforzo. Simone Consonni, dopo aver svolto il suo lavoro, lo lascia partire sulla scia di Fernando Gaviria che prova ad anticipare la volata. Si rialza, Consonni, e, allungando leggermente il collo, osserva la scena da dietro.
Vedrà il casco di Milan, la testa, continuamente scossa, quasi anche lei imprimesse velocità alla bicicletta, qualche tratto di ciclamino nei movimenti frenetici dello sprint, un tratto impressionista, nulla più. Frontalmente non è solo Milan ad alzare le braccia, ma anche Consonni, l'ultimo uomo. Jonathan Milan dirà poche parole, soprattutto "grazie", alla squadra. Glielo abbiamo sentito dire molte volte, sempre intriso di timidezza e di umiltà. Tra Riccione e Cento, l'ha detto ancora, un'altra volta. Le biglie si raccoglieranno dalla spiaggia, qualche signora su una vecchia ed elegante bicicletta di famiglia tornerà a casa. Domani sapremo il resto.
Foto: SprintCyclingAgency