Un'ultima cosa, Tadej, ti chiediamo

Il tema più interessante del finale del Giro d’Italia riguarda, nuovamente, Tadej Pogačar. L’andamento della corsa rosa ha seguito il battito del suo cuore dal giorno zero e seguendo la stessa pulsione si avvia verso l’ultima settimana. Anche dopo la cronometro di ieri, ennesima tappa in cui ha dimostrato di poter guadagnare su tutti i rivali su ogni terreno, pur dominando, Pogačar non ha ucciso la corsa. A forza di rosicchiare quaranta secondi qua e là, è arrivato a quasi quattro minuti di vantaggio su Thomas e Martínez (per trovare un distacco del genere a due terzi del Giro, bisogna tornare al 2006 e ai nove minuti cumulati che José Enrique Gutiérrez e Paolo Savoldelli avevano di ritardo da Ivan Basso), un vantaggio enorme grazie al quale sarebbe facile giocare in difesa.

Pogačar non è uno così. Non ha bisogno di scoprire la guardia per sferrare il colpo del KO ad avversari già tramortiti, ma mi rifiuto di credere che non voglia dare un ultimo sfoggio della sua classe folgorante. E oggi c’è la più bella tappa del Giro d’Italia: oltre 220 chilometri brutali, con quasi 6.000 metri di dislivello, l’arrivo su una pista da sci inutilmente asfaltata. Per questo ieri gli ho chiesto, più o meno, se e quando avesse intenzione di tirarlo questo pugno del KO. «Come i pesi massimi sul ring», gli ho proprio detto. Insomma, Tadej, quand’è che farai l’impresa?

E lui mi ha risposto: «Il pugno del KO definitivo dovrà essere sul Monte Grappa, è l’ultima tappa [di montagna]. Oggi ho preso altro vantaggio il che è positivo, ci permette di essere più tranquilli». Sottintende forse che oggi non accadrà nulla? Che non cercherà l’impresa, accontentandosi di guadagnare altre manciate di secondi? E così anche nelle prossime tappe magari, facendosi scortare fino a Roma e pensando poi al Tour de France? Magari intende tutto questo e non può dirlo. Magari è davvero già sazio così: a brevissimo, per dire, diventerà il ciclista in attività con più giorni in maglia rosa. Io, però, non ci credo che si accontenti.

Secondo me non ha alcuna voglia di aspettare ancora. Dopo il giorno di riposo di Napoli ha soprattutto sonnecchiato: in due tappe (Bocca della Selva, Fano) è stata concessa la luce verde alla fuga; nelle altre due (Francavilla al Mare, Cento) è stata volata. La cronometro di ieri è servita per mettere qualche ago nei muscoli altrui, ma saranno le salite alpine a fungere da richiamo all’impresa del campione. Morde il freno anche lui. Se la simbologia del ciclismo ha un valore – e lo ha eccome, enorme –, se è davvero l’anno in cui potrebbe essere rinnovata la doppietta pantaniana Giro-Tour, se a Oropa ha già vinto, beh quale punto esclamativo migliore ci sarebbe di un attacco sul Mortirolo, domani, salita sulla quale al Pirata è stata dedicata una statua, sebbene su un altro versante?

Ricordi cosa ti disse il tuo direttore sportivo, Fabio Baldato, quando attaccasti Mathieu van der Poel al Giro delle Fiandre? «Andiamo campione, andiamo campione! Distruggili tutti!». Sì Tadej, spazzali via tutti sulla strada verso Livigno. Solleva l’asfalto dietro le tue ruote, non dar scampo a chi vivrà una giornata storta, apri e chiudi i mari. A un cenno della tua mano si muoveranno i gregari, a un tuo colpo di pedale si livellerà ogni salita. Vola come una farfalla, pungi come un’ape.

Un’ultima cosa, Tadej, ti chiediamo. Fa’ in modo che sia memorabile. Dacci, una volta di più, un capitolo nuovo di storia del ciclismo da raccontare a chi si approccerà allo sport tra vent’anni, facci riaprire i libri di Buzzati e Pratolini, riportaci con la mente a quelle imprese là, vecchie di decenni. Se tanto ti chiediamo, è perché tu tanto puoi.


La sfida

Era una sfida, un duello cavalleresco. Era una sfida e Filippo Ganna, questa volta, l'ha vinta. Era il dieci maggio, eravamo tra Foligno e Perugia, Filippo Ganna era seduto sulla stessa sedia su cui era seduto poco più di un'ora fa, quella destinata al miglior tempo provvisorio della cronometro: il video inquadrava Tadej Pogačar, dapprima sulla salita conclusiva, poi sempre più vicino al traguardo. Ad un certo punto, la grafica, un piccolo rettangolo su cui scorrono numeri, su cui scorre il tempo, dapprima verde, è divenuta rossa: è la campana a morto per qualsiasi ambizione, significa che l'altro, lo sloveno, in quel caso, è andato più veloce: sedici secondi e settantatré centesimi. Filippo Ganna si era alzato dalla sedia, aveva salutato, se ne era andato da quella telecamera che lo inquadrava: non era più il primo. Questo è ciò che abbiamo visto, quel che ha sentito era dentro quella macchina perfetta e curata allo spasimo, denominata corpo, denominato atleta. Una settimana e un giorno ed il momento è tornato. Sì, i momenti, molto spesso, tornano, si ripresentano, come le occasioni, anche se quando le perdiamo ci sembrano irrecuperabili. Questa volta tra Castiglione delle Stiviere e Desenzano del Garda, accanto al lago, "l'occhio della terra", come lo definì qualcuno, e quel ragazzo, quello con addosso la maglia tricolore, viene da Verbania, città di lago. Filippo Ganna è ancora seduto su quella sedia, davanti ad uno schermo e ad una telecamera. Sono le 16:43, parte l'altro, parte la maglia rosa, scende Tadej Pogačar. Il duello, a distanza, ricomincia.

Filippo Ganna era partito più di due ore prima ed aveva attraversato l'aria: veloce, più di cinquantatré chilometri orari di media, solido, un blocco compatto, fermo pur nello spostamento, guardategli la schiena, una tavola, perfetta, affascinante questo contrasto, elegante, nelle linee, del corpo in bicicletta e delle ruote sull'asfalto. Dentro qualcosa tra rabbia e amore, trovate voi un nome esatto alla sensazione, sappiamo che l'avrete provata: la rabbia di non avercela ancora fatta quest'anno, di non aver ancora vinto, l'amore di volercela fare, di tornare all'assalto, anzi, alla conquista. Direte che ha già vinto tanto Ganna, avete ragione, ma non si pesa la rabbia, non si pesa l'amore, non hanno a che fare con una somma o una sottrazione, hanno a che fare con gli esseri umani. Sensibile, nel senso di chi riesce a sentire, a percepire, a "toccare con mano": la sua sensibilità è esibita anche in sella, nel suo rapporto con la strada, in come vi scorre sopra, nelle curve in cui non smette un attimo di pedalare. Aveva fatto la ricognizione sul tracciato di gara, più volte, "per conoscere a memoria ogni curva": ha memorizzato tutto, non solo nella mente, anche nel corpo, che vi si orienta con delicatezza, nonostante lo morda, con finezza, nonostante lo divori. Un insieme di contrasti per cui le persone si affacciano dalle transenne al fine di osservarlo qualche secondo in più, perché il passaggio di Ganna è questione di vento, di una folata d'aria, allora serve allungare l'osservazione. Il sublime. Saranno 35'02" per percorrere 31.2 chilometri. Una bottiglia d'acqua rovesciata in gola, la mano nell'acqua di una fontana e di nuovo quella sedia, di nuovo l'attesa.

All'inizio non sorrideva, Ganna, guardava e basta, occhi fissi, dritti verso il monitor, quasi perso in un altrove. Quel rettangolo in grafica che indica i tempi riappare, è il primo intermedio: Tadej Pogačar ha quattro secondi di vantaggio. Pare un fermo immagine, è Ganna: immobile. Un'inquadratura tra il primo ed il secondo intermedio lo sorprenderà con la testa fra le mani, forse stanco di aspettare. Aspettava da una settimana o, forse, da quel giorno, ad Andora, il sette maggio, quando il gruppo riuscì a chiudere, a catturarlo, a lanciare la volata e aveva gli occhi lucidi, la voce spenta, perché avrebbe voluto vincere. Che oggi sarebbe andata diversamente l'ha capito al secondo intermedio, ne ha, però, avuto la certezza solo quando a Pogačar mancavano sei secondi per tagliare la fettuccia bianca dell'arrivo, ma il traguardo era troppo lontano. Era con Jonathan Milan, altro atleta che di velocità se ne intende: ha riso, ha riso forte.

Questa volta la voce ha fatto fatica ad uscire, nella prigione di una "e" prolungata e poi annacquata. Di un «non è mai facile» vibrato come vibrano le corde di una chitarra, ma quando agli uomini trema la voce di solito stanno per piangere o stanno già piangendo, di tristezza o di felicità. Cosa c'era dentro quella macchina perfetta che tutti abbiamo osservato, ammirato esaltato? Non possiamo saperlo. Sappiamo, però, ciò che sta venendo fuori adesso e questa volta è tutta felicità.

 

Foto: SprintCyclingAgency