Quegli occhiali, quella maglia rosa: intervista a Giulio Pellizzari

Uno dei protagonisti di queste ultime giornate di Giro d'Italia è, senza alcun dubbio, Giulio Pellizzari. Lo abbiamo intervistato diverse volte durante il Giro e questo è quello che ci ha raccontato.

Giulio, come è stato esordire al Giro d’Italia?

Emozionante sin dalla prima tappa, non avevo mai visto così tanta gente. C’è tanto tifo, davvero tanto tanto tanto. Pedalare al Giro è incredibile.

In tanti parlano di te come una nuova speranza per il ciclismo italiano. Ti fischiano un po’ le orecchie?

Ma a dire il vero no. Sono tranquillo. Dormo benissimo!

Stai scoprendo tutto del Giro. Sei stato anche al Processo alla Tappa. Come è stato?

È una trasmissione che ho sempre guardato sin da ragazzino. È stata una bella esperienza, dai.

In gruppo hai anche tanti compagni giovani come te, si vede che già nelle categorie giovanili sono nate delle amicizie.

Siamo amici prima che avversari, ed è sempre bello ritrovarsi. E vanno tutti fortissimo, siamo una generazione forte.

Hai 20 anni e stai correndo il Giro con Domenico Pozzovivo che è il più esperto del gruppo.

È un grande. Ci insegna un sacco di cose, ci racconta tanti aneddoti. Ogni volta che parla c’è qualcosa da imparare. Siamo felici di averlo con noi.

Pozzovivo è anche una specie di guida vivente a ogni strada d’Italia. Tu hai una tappa in particolare che puoi dire già di conoscere bene?

Sì, quella che parte dalla Val Gardena, che inizia col Sella, poi Canazei. Prima del Giro sono stato a fare altura al Passo San Pellegrino e ho pedalato un sacco su quelle strade. Tranne il Brocon: quello l’ho fatto solo per un pezzetto perché stavano asfaltando la strada.

E in stanza con chi sei?

Con Enrico Zanoncello, il velocista più forte al mondo.

La prima parte di Giro non è stata facilissima per te, ora sembra che tu abbia recuperato.

Sì, nella prima settimana ho avuto un po’ di raffreddore e tosse, prima di Napoli. A Prati di Tivo mi sono ritrovato senza gambe. Ho provato a tenere duro ma non ce la facevo, così mi sono rialzato. Pensavo di aver recuperato nel giorno di riposo, ci voleva, con un’oretta di pedalata e una pausa bar per un bignè al pistacchio e un cappuccino. Invece anche la seconda settimana è stata ancora difficile. La sera dell’undicesima tappa ero già con un piede a casa: ho chiamato Massimiliano Gentili per dirgli che volevo ritirarmi. Invece grazie a lui, alla mia famiglia, a Leonardo Piepoli e alla mia fidanzata sono rimasto.

E alla sedicesima tappa, a Santa Cristina Valgardena, hai sfiorato la vittoria.

Al giorno di riposo di Livigno stavo molto bene, infatti la paura era di non sentirmi più così in forma il giorno dopo. Ma sono ripartito speranzoso. Me la sentivo da subito, e sono contento del mio secondo posto. È Massimiliano Gentili che mi ha detto di non mollare. Quel risultato lo devo a lui.

Alla prima tappa, invece, eri stato il primo a seguire l’attacco di Tadej Pogačar.

Sapevo bene che non l’avrei tenuto, però sono andato di istinto. Quando l’ho visto passare mi sono buttato dietro, ci ho sperato. È stata un’emozione forte, c’era un sacco di pubblico che urlava, avevo la pelle d’oca.

Come Icaro, a star troppo vicino al Sole (ovvero Pogačar), si rischia di bruciarsi. E rimbalzare.

Esatto. Stessa fine. Ma credo sia una fine comune a parecchi corridori. Ma almeno posso aggiornare l’album delle mie foto con lui. Ne feci una insieme già nel 2019, alle Strade Bianche: era la sua prima gara nel World Tour e io ero là come spettatore, con un amico. Già lo conoscevo perché avevo seguito la sua vittoria al Tour de l’Avenir. Al mio amico dissi: “fatti una foto con lui, che diventerà forte”. E il mio amico: “ma no, ma chi è questo?”. Fu divertente. Non c’era nessuno che lo cercava al bus oltre a me. Ci facemmo una foto insieme, e direi che ha portato bene.

Quando a Santa Cristina Valgardena l’hai visto arrivare cosa hai pensato?

Bastardo! Ancora lui! (ride). Avrei voluto vincere, ma andava bene così. È andata meglio che a Torino sicuramente, sono contento.

Ti ha regalato i suoi occhiali e la maglia rosa, dopo averti ripreso negli ultimi chilometri.

(Ride ancora). Mio fratello il giorno prima mi aveva scritto: "Trova il modo di rimediare gli occhiali di Pogačar". Così all’arrivo sono andato al gazebo delle interviste e glieli ho chiesti. Lui me li ha dati e mi ha dato anche la maglia. Gli auguro il meglio. È il migliore della storia.


Tadej, Giulio e il fanciullino

Mentre le ammiraglie lasciavano Livigno e i corridori, al loro interno, osservavano il contorno delle montagne attraverso le gocce di acqua gelata che lo sfocavano, correndo sul vetro e poi precipitando a terra, fuori, ai bordi della strada, tra ombrelli e mantelline, tra cappelli e giubbotti, molte ragazze e molti ragazzi, giovani studenti, battevano le mani, scandivano le loro grida, mentre cercavano di intravedere qualunque dettaglio di quei ciclisti, dai finestrini che lasciavano enorme spazio all'immaginazione, perché si vedeva ben poco, si intuiva qualcosa, forse. La neve ed il freddo non lasciano altra scelta, ci si trasferisce in auto a Lasa, si riparte da lì, si percorrono gli ultimi 118 chilometri di corsa: i corridori sono stati sul palco firme, ora, però, non saliranno in sella, andranno via così. E quei ragazzi ancora ad esultare, levando le braccia, muovendo le mani e i piedi, avanzando nelle pozzanghere, regno del gioco, inzuppandosi le scarpe, qualche stivale, retrocedendo e tornando a scrutare: abbiamo ripensato a Giovanni Pascoli, abbiamo riletto qualche paragrafo in cui parlava del "fanciullino", quando scriveva che «è dentro noi [...] che non solo ha brividi, ma lagrime ancora e tripudi suoi. Quando la nostra età è tuttavia tenera, egli confonde la sua voce con la nostra, e dei due fanciulli che ruzzano e contendono tra loro, e, insieme sempre, temono, sperano, godono, piangono, si sente un palpito solo, uno strillare e un guaire solo. Ma quindi noi cresciamo, ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica serena maraviglia; noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce, ed egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come di campanello». Al di fuori delle discussioni, legittime, che si sono fatte e si faranno, oggi ci piace concentrarci su quel "tinnulo squillo di campanello" in quei giovani, mentre fanno festa a quel c'è. È l'antica meraviglia.

Resterà fino a sera una giornata dai contorni grigi, nel cielo e nei prati, dall'aria fredda, dalle nuvole basse sulle cime dei monti, una di quelle giornate in cui lassù si potrebbero narrare storie di maghi e streghe, di incantesimi e magie e per qualche istante fingere di crederci, davanti a un camino in cui si è messo ad ardere l'ultimo pezzo di legna. È la giornata giusta per il "fanciullino", per ricordare che c'è, per svegliarlo. In Julian Alaphilippe, ad esempio: nel suo insistere sotto l'acqua, con un volto che, dapprima, è il solito, fatto di "panache" ed eleganza, poi si raggrinza per il freddo e la fatica, gli occhi si rimpiccioliscono, i denti si stringono, quasi a scaldare, come pietre, sembra possa crollare e mollare tutto in un attimo, invece va fino in fondo, esplora il limite, lo sfida, come si fa quando si è giovani, giovanissimi e non si rientra in casa quando un genitore chiama, mentre piove, ma ci si bagna fino all'ultimo centimetro di pelle, di vestito e si va avanti a sudare. Il fanciullino di Mirco Maestri, ancora all'attacco con il francese, dopo la tappa di Fano, è nello stupore: del primo sguardo quando Alaphilippe gli ha portato la propria maglia al bus, qualche giorno fa, nel non riuscire a credere di meritarsi di essere dov'è, di fare quello che fa, nel guardare al francese come un gigante e nell'abbracciarlo come un fratello. Diceva Pascoli che il fanciullino teme il buio ed alla luce sogna o sembra sognare: Maestri, detto Paperino, ha questi tratti.

A ben guardare il fanciullino di Tadej Pogačar è nella sua capacità di non prendersi troppo sul serio, pur prendendo tutto seriamente. Oggi avrebbe lasciato andare la fuga, ne era convinto, come ne era convinta la sua squadra, Movistar ha impresso il ritmo, ha riportato il gruppo a pochi secondi dalla fuga e lì non si è trattenuto. Sono tutti con manicotti e ogni genere di dispositivo preso dalla borsa del freddo, in gruppo: lui va su in maniche corte, fradicio, ma soave, senza smorfie, con uno sguardo sereno, di chi "a ogni modo dà un segno, un suono, un colore, a cui riconoscere sempre ciò che vide una volta". Della pedalata si potrebbe scrivere molto o forse si è anche già scritto troppo: resta la facilità con cui fa ogni cosa, con cui supera gli avversari, i rivali, gli attaccanti di giornata, resta perché quante volte può capitarti di vederla in un corridore? Quando arriva alla ruota di Giulio Pellizzari pare tentennare qualche istante, si volta, riparte, ma continua a controllare la posizione del ventenne di San Severino Marche, quasi pensasse di aspettarlo, quasi volesse aspettarlo. La gioia, questa volta, alla quinta vittoria, assume la sembianza di un conto, sulle dita delle mani: felicità pura, distillata, che attraversa la realtà e pesa il valore di ogni gesto. Cinque vittorie, quante sono cinque vittorie? Non numericamente, ma quanto possono esaltare, quanto possono stupire o meravigliare? Quel calcolo coglie la grandezza di quello che sta facendo e la declina. L'album di figurine che riempivamo da bambini, contando quante figurine avevamo ed essendo orgogliosi di quel numero, per tutta la ricerca che ci era costato.

Giulio Pellizzari, ottimo secondo di tappa, lottando con Dani Martìnez, salutandolo nel tendone in cui gli atleti si cambiano, gli indicherà gli occhiali: "Posso?". Pare dire così. Lui li toglierà e glieli consegnerà. "Aspetta", con un gesto della mano: via anche la maglia rosa, dono anche quello. Anche Pellizzari lo osserva come un gigante, un mostro sacro, ma gli picchietta la mano sul casco, come con un coetaneo, perché questo sono, coetanei. Ragazzi in bicicletta. Nelle partite di calcio fra giovanissimi talvolta succede lo stesso, seppure nessuno di loro sia Pogacar e abbia la sua risonanza: è uno scambio. Quel "tinnulo squillo di campanello" sa benissimo di cosa parliamo. Basta un altro pezzo di legna nel camino quasi spento e il fanciullino resterà qui ancora qualche istante.

Foto: SprintCyclingAgency