Si avvicina l’inizio del Tour de France ed è difficile pensare al Tour senza pensare anche a Chris Froome. Nella storia di tutta la Grande Boucle nessun ciclista si è portato a casa il quarto titolo senza poi vincere anche il quinto: sono le statistiche a parlare, ma le statistiche valgono per i grandi numeri e non per il caso singolo.

I numeri, si sa, regalano una lettura della realtà perfettamente razionale e a volerli mettere tutti in fila, nel caso di Chris Froome, trasmettono l’immagine di un corridore nella parabola discendente della sua carriera: il terribile incidente di giugno 2019 al Critérium du Dauphiné, i 36 anni compiuti il 20 maggio, i modesti risultati di questa stagione (47esimo allo UAE Tour di febbraio e in questi giorni al Critérium du Dauphiné, 81esimo alla Volta a Catalunya, 93esimo al Tour of The Alps e addirittura 96esimo in classica generale al Tour de Romandie) e la generazione dei giovanissimi talenti con cui dovrà confrontarsi al Tour.
Ma se una vittoria al Tour a 36 anni (e 130 giorni, come riporta procyclingstats), nella storia, è riuscita solo al tedesco Firmin Lambot – stiamo parlando però del 1922 – c’è qualcosa che i crudi numeri non possono spiegare ed è qualcosa che ha a che fare con l’effetto piuma di Dumbo, ovvero la possibilità in determinati momenti e circostanze della nostra vita di poter accedere a delle riserve nascoste, che nessuno intorno a noi immaginava potessimo avere. Noi pensiamo che la storia della vita e della carriera di Froome sia proprio una storia che racconta di quelle riserve nascoste, a cui il campione inglese è riuscito ad attingere, fin da quando era solo un ragazzo.

Nella sua autobiografia, The Climb, Froome ci racconta un episodio rivelatore in tal senso. Chris, all’epoca sedicenne, si sta allenando con quello che è stato il suo primo mentore, David Kinjah, nei pressi di Ngong fuori Nairobi. Kinjah in Kenya è una vera e propria leggenda, il corridore più vincente nella storia del Paese, si è guadagnato il soprannome di Leone Nero correndo per un anno in Italia nel team Index Alexia Alluminio, lo stesso del due volte vincitore del Giro d’Italia, Paolo Savoldelli.

Quel giorno, sulle colline di Ngong, quel ragazzo di 16 anni sogna di poter battere il suo mentore e lo racconta così: «Siamo corridori. Lo sto inseguendo. Lui è la mia preda. Sta ridacchiando come una iena perché sa che non lo prenderò mai. Ha migliaia di chilometri di strade e colline stipati lì dentro, in quelle gambe, tutti compressi in muscoli tirati. Si prende gioco di me, mi lascia intravvedere la sua ruota posteriore: ora la vedi kijana (ragazzo), ora no. Non posso vincere, ma lui mi consente di avvicinarmi al punto da farmi sperare di riuscirci.

Dopo, quando avremo finito, ci riposeremo e rideremo insieme; arriverà mia madre, che ci segue con la sua auto a un paio di ore di distanza, e ci porterà del cibo per rifocillarci.

A quel punto, lo conosco, mi dirà “Carica la bici sull’auto di tua madre kijana e torna indietro con lei. La lunga salita per arrivare a casa non fa per te”.
Mi conosce abbastanza bene da sapere che non lo farei mai. Continueremo con la nostra gara fino a casa».
Ecco noi pensiamo che l’effetto piuma di Dumbo per Chris Froome stia tutto lì.