Avete presente com’è Roma in piena estate? Il cemento sembra si sciolga sotto i piedi, lo smog, l’asfalto che bolle, il GRA, le auto che sfrecciano ovunque su e giù per la Cristoforo Colombo, l’altare della patria come un gigantesco panetto di burro che si sta squagliando su se stesso. Poi fai una visita alle Terme di Caracalla, sotto un sole così non è mai bello né passeggiare né pedalare, e quando la guida indica: «Quello era il Frigidarium!» ti ci butteresti dentro rischiando di farti arrestare.
Sessant’anni fa non era poi così diverso. Avete presente Roma, 26 agosto 1960, gara che dà il via ai diciassettesimi Giochi Olimpici? Vi ricordate di Knud Jensen? Avrebbe compiuto 24 anni da lì a pochi mesi, veniva da Århus, Danimarca, e faceva il muratore. In realtà preferiva pedalare e non sappiamo se per questo si sposò con la nipote di Henry Hansen, leggenda del ciclismo danese, due volte campione olimpico ad Amsterdam nel 1928. Fatto sta che era dilettante e quindi a fine mese doveva portare a casa qualcosa, e allora lui, muratore e ciclista, un connubio folle di fatica e masochismo, di giorno lo trovavi a piallare, di pomeriggio a pedalare e nemmeno con scarsi risultati.
Si presentava la mattina della 100 chilometri a squadre con un interessante curriculum: aveva appena vinto il titolo di campione dei paesi nordici, e la sua Danimarca aveva buone carte da podio dietro le inarrivabili Italia e Germania – unita, ma con un quartetto tutto DDR.
Ma a Roma, nel 1960, una nuvola nera passava come un presagio: pochi mesi prima dei Giochi, tornando a casa da un concerto, perse la vita Fred Buscaglione schiantandosi contro un furgoncino che trasportava sanpietrini. Il 26 agosto 1960, prima di ritornare sul traguardo-partenza di Viale dell’ Oceano Pacifico, fu il turno di Knud Enemark Jensen.
Faceva caldo, quel giorno, da sgretolare i sassi. 33 gradi al mattino e lungo via Cristoforo Colombo – “una strada che non rivela mai nulla, dove correre diventa una sorta di facoltà automatica che l’atleta è in grado di ripetere per un tempo impossibile da calcolare” scrisse Jacques Goddet, direttore de L’Équipe – si arrivò a oltre 40. Intorno nulla a dare un po’ di refrigerio, fronde dove nascondersi o aspettare una bava di vento che ti rinfreschi o dia sollievo; solo gruppi di tifosi e curiosi, militari a far da sicurezza, enormi pennacchi futuristici a reggere bandiere di ogni nazione, e sullo sfondo il Velodromo Olimpico dell’EUR che appariva come una navicella atterrata in mezzo al deserto – e infatti come arrivata, se ne andò: inutilizzato dal ’68 e demolito nel 2008.
E che routine la 100 chilometri a squadre! Prova a cronometro massacrante e spettacolare; per molti il sunto dell’esercizio fisico e tattico sulle due ruote – e perciò scomparsa per fare posto a scialbe e inutili trovate, l’ultima: la staffetta mista a cronometro! Su quello stesso asfalto che bolliva, Bikila Abebe, un paio di settimane dopo, avrebbe vinto a piedi nudi la Maratona dei Giochi, facendo anche lui su e giù per l’interminabile Colombo, la via più lunga d’Italia e in alcuni punti anche la più larga.
Si racconta di come quel mattino Jensen si fosse lamentato di non stare bene: ma tant’è, si partì ugualmente. Si va al macello, non c’è un dio a cui appellarsi, non c’è conforto, se non in quello della fatica che ti corrode i muscoli fino all’osso. Non ci sono motti decoubertiani; verranno solo aggiunti tanti, troppi dettagli dopo il suo incidente, che se ne discute ancora oggi – ad esempio se l’allenatore avesse dato o meno del Roniacol ai suoi corridori. E insomma succede che faceva così caldo che a fine corsa 31 corridori furono colpiti da un malore, e alla squadra danese non andò meglio. Il primo fu Jørgensen: iniziò a stare male da subito e si staccò. Il quartetto divenne un terzetto. Forse fu quello a salvarlo – fu portato di fretta in ospedale – e la mano tesa che decise di strapparlo al suo destino, divenne uno schiaffo che fece ruzzolare a terra pochi chilometri dopo il povero Jensen. «Mi sento male!» il suo urlo, e un compagno di squadra gli buttò acqua fresca addosso reggendolo per una maglietta. Giusto il tempo di lasciarlo andare e qualche centinaia di metri dopo Jensen cadde a terra. Colpì violentemente la testa – rigorosamente protetta solo da un cappellino. Frattura del cranio: venne trasportato, dopo diversi minuti d’attesa, in una tenda allestita in un ospedale militare. C’erano 50 gradi lì dentro: disidratazione, frattura del cranio, arresto cardiaco. Jensen morì lì: “Questo solo capì. Di essere caduto nella tenebra. E nell’istante in cui seppe, cessò di sapere”.
L’autopsia, inizialmente, parlò di morte per frattura del cranio per la caduta causata da un colpo di calore, poi negli anni si sono susseguiti giochi politici e mediatici atti a manipolare e strumentalizzare la scomparsa del ragazzo – la sua morte macchiata dall’uso di anfetamine e tutt’ora mai accertata resta al centro di una controversia. Il CIO si premunì nel far passare la vicenda come “emblema della lotta alle sostanze proibite” e il caso di Jensen come quello del “primo morto per doping nella storia”. Sette anni dopo si istituirà la prima vera commissione antidoping, ce ne vollero otto, da quel misfatto, per effettuare i primi controlli: una battaglia tra doping e antidoping che diventa una vera macchina fabbrica denaro e che prosegue fino ai tempi nostri. Ancora oggi, studi compiuti sulla morte del ragazzo e documenti della Wada si contraddicono. Martire oppure mito: come se poi importasse davvero al fine di capire chi era Knud Jensen.
Per approfondire che cosa si dice ancora oggi sulla morte di Knud Jensen: “The truth about Knud: revisiting an anti-doping myth”
Foto: https://www.sportsintegrityinitiative.com