Il cambiamento per Elena Cecchini è la variabile principale della quotidianità e questo vale anche per i suoi tredici anni abbondanti di professionismo. Quando ha bisogno di staccare, ad esempio, l’unico modo che trova per essere sicura di riuscirci è partire e andare lontano da casa, ma nella declinazione della costante identificata dal cambiamento questo è poco più che un dettaglio. Nata il 25 maggio del 1992 a Udine, è il proprio ruolo che le ha insegnato ad accettare il cambiamento: «Nel mio carattere non è molto presente la flessibilità, non lo è mai stata, so essere abbastanza rigida, anzi, perchè cambiare non mi è mai piaciuto, l’ho sempre vissuto con difficoltà. Tuttavia trascorro circa duecento giorni l’anno lontana da casa e accanto non ho la mia famiglia: certo, mi trovo bene con la squadra e lo staff, ma non sono le persone che ho scelto, non sono sempre quelle che vorrei in quel momento. Se non avessi familiarizzato con il concetto di cambiamento, se non fossi diventata flessibile, non staremmo facendo questa intervista, perché avrei smesso, probabilmente». In Sd-Worx, Cecchini doveva essere una sorta di mentore per le atlete più giovani, lo è stata e lo è tuttora, però attraverso questo compito non ha saputo solo insegnare, è riuscita anche ad imparare. Sì, il vecchio motto secondo cui “di imparare non si finisce mai” lo recita a memoria anche lei, poi aggiunge una considerazione: «In squadra, devo anche far funzionare le cose e, per farlo, è necessario comprendere il carattere di ciascuna, l’indole e ascoltare molto: c’è chi cerca di fare di testa propria e chi chiede maggiormente consigli, penso all’umiltà di Kata Blanka Vas, oppure di Vittoria Guazzini, in nazionale, per esempio. Anche le reazioni di fronte a vittorie, sconfitte ed incidenti sono differenti. Bisogna considerare tutto questo quando si tratta di tenere assieme un gruppo». Qualche volta si sorprende ad osservare le più giovani del plotone e un poco si mangia le mani perché vede una fame che anche lei aveva anni fa e ora non ha più, nonostante mantenga la professionalità e l’attenzione ai dettagli. «Mi manca quella voglia di impegnarmi solo per me stessa. Nelle classiche riesco ancora a non pormi limiti, ma in molte gare, diciamo il sessanta percento delle corse, parto solo con l’idea di aiutare le altre e per me non sogno nulla. Loro tengono duro, vanno oltre ogni cosa, desiderano. Ero così, una volta».
Questa estate, dopo tanto tempo, ha risentito quel sano egoismo di un traguardo tutto proprio. È accaduto quando ha saputo che sarebbe stata convocata alle Olimpiadi di Parigi, allora è tornata a dire no a tutto ciò che, magari, le veniva richiesto per la squadra, ma metteva a rischio la sua preparazione, che si trattasse di gare o di altro non faceva differenza. A Parigi, la camera in cui dormivano lei ed Elisa Longo Borghini era in un vecchissimo istituto per non vedenti, trasformato in dormitorio, immerso in un silenzio surreale, senza alcuna possibilità di distrazione, di svago: «La nostra gara si svolgeva nel pomeriggio, per cui erano molte le ore di attesa, quelle in cui si vive tutto in maniera amplificata. Bene, a livello sportivo ho provato emozioni che non provavo da tanto tempo. Ho sentito sensazioni antiche, di cui custodivo solo il ricordo». Alle giovani cicliste, Elena Cecchini pone, però, una questione: quella fame è cosa buona se non sfocia nel sentirsi arrivate quando si raggiungono i primi risultati, e la sua sensazione è che, talvolta, questo accada. Anche perché, prosegue, almeno fino all’età degli studi scolastici, i risultati contano solo in parte: «Parlo di un’atleta che conosco bene: Demi Vollering. I primi risultati importanti sono arrivati quando aveva ventitré, ventiquattro anni. Se a sedici, diciotto anni non vinci, non cambia nulla nella tua carriera, come potrebbe non decidere nulla nemmeno una vittoria, pur se importante, perché è presto, si cambia, fisicamente e mentalmente. Non credo abbia senso la fretta che c’è di approdare alle squadre World Tour: un anno in più in una Continental può solo aiutare nell’apprendimento. Tanto più che queste squadre “minori” sono ossigeno per il nostro ciclismo», Poi una precisazione, secca, convinta: «Ascoltare ed imparare non significa obbedire sempre e comunque, sia ben chiaro: una ciclista deve volere ed essere in grado di far di testa propria, il punto è che si può agire autonomamente quando si è imparato a considerare tutti gli elementi, a comprendere la situazione di corsa in ogni aspetto. Questo è possibile osservando. Certo che, se per salvaguardare una top ten personale personale, si impedisce alla leader del team di vincere, non si è fatto un buon lavoro. Si è badato al proprio orticello, ma una squadra non funziona così». Scherza Elena Cecchini, «non è nonnismo, assolutamente, non mi permetterei mai, parlo solo della mia esperienza».
Allora si ritorna al 2011, agli inizi in Chirio Forno d’Asolo: lì il riferimento era Giorgia Bronzini, ciclista che aveva già una visione da direttore sportivo della gara. In pista era l’ombra di Marta Tagliaferro, successivamente gli esempi da osservare sono stati, nel periodo alla Cipollini. Tatiana Guderzo, Monia Baccaille e Marta Bastianelli. “Potrei portare l’esempio di Elisa Longo Borghini: noi abbiamo un anno di differenza, abbiamo fatto strada assieme, ritiri in altura insieme e, almeno fino al 2016, le nostre programmazioni erano simili, poi i programmi sono cambiati, ma, quando ci capita di parlare di ciclismo, parliamo della stessa cosa: il nostro ciclismo. Quello che negli anni è cambiato tanto, mentre noi siamo diventate atlete di esperienza”. Una fotografia ritrae un loro abbraccio al termine della prova di Parigi: avevano condiviso il ritiro di preparazione e ogni giornata in terra francese. Elena Cecchini si rimprovera qualche errore in gara: non aver sfruttato l’attimo decisivo e non capito cos’era successo nel momento della caduta che aveva frazionato il gruppo. Dice che avrebbe potuto stare con le prime e dare ancora una mano e ammette tutta l’amarezza di quell’abbraccio: «Ora penso che dovremmo essere orgogliose di quel giorno, nonostante tutto, ora direi questo ad Elisa». Se dovesse identificare i cambiamenti principali avvenuti nel ciclismo ne sottolineerebbe prioritariamente due: uno riguarda proprio il periodo di pausa al termine della stagione. Il primo stravolgimento è avvenuto intorno al 2016, il secondo post pandemia: «Anni fa, a settembre era già possibile staccare, andare in vacanza, riposarsi. Adesso, in alcuni casi, si fa non più di una settimana di ferie e, sono sincera, io patisco questa situazione ed i miei dati descrivono alla perfezione questo mio sentire: più posso riposare nella stagione invernale, più rendo durante la stagione, altrimenti, alcune volte, in primavera accuso il calo. Spiace dirlo, ma in questa rivoluzione anche i social hanno avuto un ruolo decisivo».
Elena Cecchini si riferisce alla condivisione della propria attività sui social ed al sentimento di frustrazione o di ansia che questa può generare in chi in quel momento, magari, è in ferie. A lei accadeva qualche anno fa, poi la piena maturità atletica l’ha portata a concentrarsi solo sul proprio allenamento, soprattutto perché sui social «è possibile ingannare, postare una foto di giorni prima, sono giochi mentali molto spesso». L’altro cambiamento, racconta Elena Cecchini, ha un doppio volto ed è legato ad un ciclismo femminile che è diventato sempre più professionale, con conseguenti aumenti di stipendio: «Certamente è un dato positivo, non ci sono dubbi, tuttavia l’aspetto “gruppo squadra” ne risente. Spesso si cambia team ogni due anni perché, tra le altre cose, altrove si guadagna di più. Si tratta di una scelta legittima, non è una critica, è un dato di fatto. Assomigliamo più al ciclismo maschile perché un ciclomercato così intenso da noi non era nemmeno immaginabile».
Dalle analisi ai bilanci, guardando al 2024. La prima immagine è quella di Lotte Kopecky che, al Blockhaus, al Giro d’Italia Women, riesce a tenere la ruota di Elisa Longo Borghini in una giornata che per la squadra è stata di grande ottimismo, “quasi un miracolo sportivo”: «Diciamocelo: Lotte non ha le caratteristiche e, al Giro, non aveva neppure la squadra per conquistare una corsa a tappe. Tuttavia, durante la prima riunione aveva parlato chiaro: “Ragazze, io non sono qui per la classifica generale, però voglio stare il più possibile vicina alle prime in classifica, non perdere secondi e provare a tenere duro. Poi si vedrà sul Blockhaus se potrò giocarmela”. La sconfitta all’ultima tappa è stata un duro colpo, durissimo, ma Kopecky non ha perso lì, ha perso alla cronometro inaugurale quando ha lasciato per strada più secondi di quelli che concede abitualmente». Pochi giorni prima di partire per il Giro, Cecchini le aveva chiesto che preparazione avesse fatto, la risposta l’aveva sorpresa in quel momento, ma, oggi, accresce ancor più la considerazione del valore della belga: «Mi disse di essersi allenata a casa, sui cavalcavia e sugli strappi nei dintorni: è la dimostrazione della capacità di soffrire di questa atleta, molto più alta della media, perché, sul Blockhaus, Lotte ha sofferto tanto». L’altra istantanea va subito al Tour de France, conquistato da Kasia Niewiadoma e perso da Demi Vollering per soli quattro secondi: Cecchini racconta dei primi anni di Niewiadoma e quanto soffrisse la pressione, motivo per cui spesso “falliva” proprio gli appuntamenti a cui teneva di più. La sua fragilità era nell’aspetto mentale: «Non fosse cambiata, in quell’ultima tappa del Tour sarebbe crollata, invece non ha mai mollato e sull’Alpe d’Huez, nel finale, ha persino recuperato lo svantaggio accumulato.
Ovviamente sono dispiaciuta per Demi, ma mi fa piacere per Niewiadoma e Canyon-SRAM». In realtà, nella riunione del mattino le indicazioni erano state differenti: Vollering avrebbe dovuto solo saggiare Niewiadoma sulla prima salita e, anche se l’avesse vista in difficoltà, non avrebbe dovuto proseguire l’affondo, salvo attaccare nuovamente sull’ultima asperità. «Alla fine, però, l’unica spiegazione è nel fatto che doveva andare così. Mi spiego meglio: a mio avviso l’errore di Demi è avvenuto il giorno della caduta. Perché era troppo nelle retrovie del gruppo e perché, in maglia gialla, avrebbe dovuto ripartire subito e controllare solo al traguardo le proprie condizioni fisiche. Serviva maggiore lucidità e reattività. Però, detto questo, sono stati troppi gli avvenimenti durante il Tour che hanno remato in direzione contraria, dal primo all’ultimo giorno. Piccole o grandi. Certe volte non deve andare e, leggendo in maniera razionale il nostro Tour, probabilmente non doveva andare. Sicuramente però l’ultima tappa è stato un inno al ciclismo e uno spettacolo per chiunque».
Impossibile non chiedere ad Elena Cecchini un suo parere sull’accaduto durante la quinta tappa del Tour: quella della caduta di Vollering non attesa dalla squadra: giornata che ha suscitato molte polemiche e rispetto a cui le atlete SD-Worx hanno sempre negato qualsiasi problematica interna al team: «Siamo state molto attaccate e quando accade, soprattutto le donne squadra hanno l’istinto di proteggere il gruppo. Diversi hanno detto che è accaduto perché si sapeva che Demi avrebbe cambiato casacca e da fuori capisco il retropensiero, ma non è stato così. Rispetto alla dinamica è difficile dare un giudizio per chi non era presente. Io mi sarei fermata? Certo, io mi sarei fermata. In corsa, però, dicono di non aver sentito alcuna comunicazione e si sa che un conto è giudicare la situazione dall’esterno e una dall’interno. Blanka Vas era davvero sorpresa al traguardo e Bredewold mi ha detto di aver sentito la notizia dalla radiolina solo diverso tempo dopo perché la radio non funzionava». Si arriva così a proiettarsi sulla nuova stagione, quella del 2025: da un lato la mancanza di Demi Vollering, per Cecchini anche una mancanza a livello umano, oltre che sportivo per l’indubbio talento dell’olandese passata a FDJ SUEZ, un rapporto che la friulana vuole preservare anche ora che saranno rivali, dall’altro una squadra che cambierà molto, con nuove atlete in arrivo e, forse, soprattutto con il ritorno in sella di Anna van der Breggen: «Ho già avuto Anna come compagna di squadra ed è stato facile perché lei è così come la si vede: in bicicletta o giù dalla bicicletta. Credo ci sia la possibilità di divertirsi, anche se l’inizio sarà strano, con tanti cambiamenti, come nel 2021. In più mancherà Christine Majerus, che si è ritirata, e lei era una di quelle atlete uniche nel fare gruppo, nel tenere unito il team: una vera e propria colonna. Però, se siamo brave a gestire il cambiamento, abbiamo carte per fare bene: penso a Kopecky, a Wiebes, ma anche a Vas. Per le classiche a mio avviso Marta Lach sarà un’atleta fondamentale, le sue caratteristiche faranno la differenza». Van der Breggen, spiega Cecchini, era stata bravissima ad entrare nel ruolo di direttore sportivo, qualcosa che sembrava naturale per lei: sembrava strano a tutte che, a cena, si sedesse al tavolo dei direttori e non assieme alle ragazze, tuttavia lei riteneva giusto farlo, consentendo alle atlete di stare assieme e, allo stesso tempo, familiarizzando con lo staff, visto che, ora, faceva parte proprio dello staff. Ora, continua l’atleta friulana, dovrà essere altrettanto brava a mentalizzarsi nuovamente sul fatto di essere una ciclista.
Molte voci hanno sollevato la problematica delle tante campionesse in un’unica squadra e del rischio che questo, per paradosso, possa portare più difficoltà che risultati nella prossima stagione. «In termini generali è una considerazione comprensibile, calata nel contesto credo non si porrà il problema. Personalmente ritengo che la nostra forza sia sempre stata nella squadra, nonostante i numeri impressionanti delle singole atlete. I nostri direttori sportivi ce lo hanno sempre detto: singolarmente nessuna avrebbe raggiunto questi risultati. Ed i risultati li abbiamo davvero costruiti assieme, anche rispetto alle tattiche ed alle riunioni di squadra. Certo che il direttore sportivo espone la propria idea sulla corsa, ma la decisione viene sempre presa attraverso un confronto, uno scambio. Guardiamo alle vittorie di Wiebes: senza Kopecky sarebbero state più difficili. Reciprocamente lo stesso vale per i successi di Kopecky. Io ricordo come ora il giorno in cui Lotte espose alla squadra alcuni traguardi su cui avrebbe voluto fare bene. La prima a parlare fu Lorena: “Lotte, quando hai bisogno, io sono al tuo servizio, la volata te la tiro io”. L’una senza l’altra non vincerebbe così tanto».
Dopo aver spaziato in lungo ed in largo sui tanti aspetti del ciclismo, Elena Cecchini si concede una parentesi personale: «Sono masochista, da anni. Mi sembra non sia mai abbastanza e quando arriva qualcosa di buono o di bello non me lo godo mai perché ho l’impressione di non meritarmelo. Così, negli ultimi tempi, quando sto vivendo un bel periodo mi ripeto: “Sì, è la vita che mi merito”. Devono passare gli anni per capire quanto si vale: sono sempre stata onesta, ho lavorato duramente per le squadre per cui ho lavorato, ho fatto il possibile. Forse per questo trovo rispetto e considerazione e, quando succede, mi sento orgogliosa. Strano, ma vero».
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